Nel mio affollato e affannoso percorso di lettore sempre teso a cercare alimento ad una passione divorante, già molto tempo fa, scartati con decisione i libri che da subito mandavano segnali d’esser brutti o inutili, decisi, visto che la vita è breve, di evitare, se possibile, anche quelli carini, dedicandomi esclusivamente a quelli bellissimi, con qualità fuori del comune.
Trascorsi molti anni da questo tacito patto con me stesso, mi pare di essere riuscito infine a risparmiare tempo prezioso per le letture e se certamente qualche mia valutazione preventiva errata mi avrà privato nel frattempo di incontrare qualche romanzo degno invece di attenzione, posso dire però che quasi tutti i libri letti da allora confermarono di possedere la qualità che andavo cercando.
Uno dei libri la cui scelta mi spinse a congratularmi con me stesso fu quello straordinario romanzo che è “La versione di Barney”, di Mordecai Richler.
Non ricordo come lo scoprii, forse me ne parlò qualcuno, ma leggendolo venni a contatto con un libro travolgente e con un protagonista tra i più indimenticabili della letteratura mondiale contemporanea: Barney Panofski.
Ricco produttore televisivo di programmi di vasta popolarità e di dubbia qualità, Barney, ruvido e spigoloso signore ebreo di Montreal, arrivato sulla soglia della vecchiaia e tirato in ballo pubblicamente da un suo ex amico scrittore per una storia di omicidio mai accertata, si decide a dare la sua versione delle cose.
In realtà l’uomo, che comincia a manifestare una certa confusione mentale a causa del primo insorgere di una grave malattia, finirà per raccontare la sua vita con la spudorata sincerità che ha reso leggendario il suo personaggio.
A nessuno degli ambienti coi quali nel corso della sua esistenza Panofski è venuto a contatto viene risparmiata quella corrosiva e divertentissima sincerità, ed i bozzetti sociali ed umani che ne vengono fuori sono saturi di irresistibile sarcasmo.
La Parigi intelletuale ed artistica degli anni Cinquanta, che gli procura la prima moglie, il mondo del cinema, abbagliante, sballato e corrotto e gli ambienti dei ricchi ebrei canadesi: ogni universo attraverso il quale sia passato, viene descritto da Barney tanto vividamente da farci credere di esserci stati catapultati dentro, assistendo da testimoni oculari alla sarabanda di rapporti e di follie conseguenti che vengono lì intessuti.
Divisa la sua vita tra tre matrimoni ed un solo grande amore, Miriam, sua terza moglie, perduto a causa dei suoi eccessi e attivamente rimpianto, Barney ha tre figli coi quali ha lo stesso rapporto conflittuale che sembra avere col mondo, un mondo che racconta con crudezza ma con una lucidità che va perdendosi progressivamente a causa del male, ma compensata dalla sua incisività nel cogliere l’essenza delle cose.
“La versione di Barney” aggiunge sostanza letteraria di prima qualità alla nostra idea di sarcasmo, di umorismo nero, ed in definitiva, anche al nostro concetto di talento, un’idea che dalla sua lettura in poi si amplia per comprendervi Richler.
Del resto è anche di lui che parla il romanzo perché con Barney Panofski, al contrario di quanto ha affermato più volte senza troppa convinzione, lo scrittore con quel protagonista ha realizzato un perfetto autoritratto. Tantissime delle tappe della sua vita sono infatti finite in quella di Barney, così conficcate nella trama del suo geniale romanzo da renderlo opera in gran parte autobiografica.
Nato a Montreal nel 1931 da una famiglia ebrea ortodossa, Richler ebbe infanzia e primi studi non diversi da quelli di tanti altri bambini ebrei del suo quartiere, compreso l’affrontare lo studio del Talmud nella Jewish Parochial School.
La condizione modesta della famiglia, il padre era rigattiere, lo spinse a fare diversi lavoretti per incrementarne il bilancio e, dopo la separazione dei suoi genitori, Richler visse un periodo ancora più difficile.
Dovette completare gli studi in un Istituto meno qualificato, il che precluse il suo ingresso alla Mc Gill University, fatto nel quale aveva riposto speranza.
Era già un ragazzo con forti passioni letterarie, interessi che prestissimo si trasformarono in vera e propria vocazione di scrittore.
Grazie a dei fondi provenienti da certe polizze assicurative che aveva stipulato, a soli diciannove anni decise di cambiare di netto vita e di trasferirsi in Francia, a Parigi, seguendo le orme di Sartre ed Hemingway, suoi grandi amori letterari.
In un ambiente culturale vivo ed aperto come quello della capitale francese, Richler, dopo i primi, prevedibili momenti di difficoltà, riuscì a farsi pubblicare quasi appena arrivato alcuni racconti su Points, una rivista attorno alla quale ruotavano altri intellettuali nordamericani, come Allen Ginsberg e Terry Southern.
A questo esordio fulminante seguì tuttavia un periodo di ristagno: furono due anni nei quali non pubblicò più nulla, tanto che si convinse a partire per la Spagna.
Risiedendo tra Ibiza e Valencia riuscì in poco più di un mese a completare la stesura del suo primo romanzo: “The acrobat”.
Tornato in Canada riuscì a far pubblicare il libro che non ottenne però molto successo, costringendolo ad integrare i magri proventi dello scrivere con quelli che gli vennero lavorando per una stazione radio, la CBC.
Tornò quindi in Europa e visse a Londra per diversi anni.
Qui, proprio come il suo Barney, dopo un trascurabile matrimonio parigino con una donna che fu per lui più che altro una compagna di bisbocce, incontrò Florence Wood, l’amore della sua vita.
Essendo anch’essa sposata i due ricorsero a più di un espediente per riuscire a liberarsi.
Provenendo entrambi da ambienti ebraici, anche se Richler da tempo si professava non credente, ebbero difficoltà e per evitare imbarazzi andarono prima a Roma, poi, tornati a Montreal, finirono per sposarsi in una chiesa presbiteriana.
Alla cena di nozze Florence disse a suo marito:
“Vado all’ospedale.
Finisci il tuo champagne e poi vieni in sala parto”.
Dopo qualche ora nacque Noah, il primo dei loro quattro figli. La coppia per anni visse in Gran Bretagna.
Dopo la pubblicazione di altri due romanzi, che non ebbero però un gran riscontro di vendite, col suo “l’apprendistato di Duddy Kravitz” arrivò finalmente il successo.
Il romanzo raccontava la scalata del protagonista verso la realizzazione economica e verso lo status sociale conseguente; una corsa così sfrenata e cinica da alimentare qualche critica da parte delle stesse comunità ebraiche, che accusarono lo scrittore di aver creato un personaggio brillante ma che incarnava lo stereotipo logoro e falso dell’ebreo affarista nato.
Il romanzo comunque si affermò anche in Europa, tanto che ne venne tratto un film che fu anche candidato all’Oscar.
La collaborazione di Richler con cinema e televisione da allora si protrasse per il resto della sua vita e lo scrittore firmò molte altre sceneggiature. Anche la sua parallela carriera di giornalista si protrasse fino al termine della sua esistenza con sue collaborazioni ad importanti riviste canadesi, inglesi ed americane.
“The incomparable Atuk” e “Cocksure”, i due romanzi che seguirono Duddy Kravitz, erano pervasi da umorismo nero e da una vena caricaturale.
Nel 1971 il suo “St Hurbain’s Horsemann”, opera in cui per la prima volta abbandona il filo cronologico della narrazione, ottenne un importante premio letterario.
L’anno successivo decise di tornare a vivere in Canada e cominciò anche una fortunata attività di scrittore di storie per bambini, dedicandosi successivamente anche ad una attività di saggista, pubblicando il resoconto di un suo viaggio in Israele, “Quest’anno a Gerusalemme”, ed un curioso trattato sul biliardo.
“Solomon Gursky è stato qui”, un romanzo formidabile, segnò un’altra tappa fondamentale nell’evoluzione di Richler e nella sua capacità di costruire personaggi indimenticabili, di valore simbolico assoluto nonostante fossero collocati in contesti ebraici.
Nel 1997, col suo ultimo romanzo, lo scrittore regalerà al mondo il più intrigante di tutti i suoi protagonisti, il suo alter ego Barney Panofski, del quale abbiamo già detto, la più vistosa icona del politicamente scorretto.
Un tumore ai polmoni nel 2003 strappò al mondo il talento di Mordecai Richler.
Piermario De Dominicis, appassionato lettore, scoprendosi masochista in tenera età, fece di conseguenza la scelta di praticare uno sport che in Italia è considerato estremo, (altro che Messner!): fare il libraio.
Per oltre trent’anni, lasciato in pace, per compassione, perfino dalle forze dell’ordine, ha spacciato libri apertamente, senza timore di un arresto che pareva sempre imminente.
Ha contemporaneamente coltivato la comune passione per lo scrivere, da noi praticatissima e, curiosamente, mai associata a quella del leggere.
Collezionista incallito di passioni, si è dato a coltivare attivamente anche quella per la musica.
Membro fondatore dei Folkroad, dal 1990, con questa band porta avanti, ovunque si possa, il mestiere di chitarrista e cantante, nel corso di una lunga storia che ha riservato anche inaspettate soddisfazioni, come quella di collaborare con Martin Scorsese.
Sempre più avulso dalla realtà contemporanea, ha poi fondato, con altri sognatori incalliti, la rivista culturale Latina Città Aperta, convinto, con E.A. Poe che:
“Chi sogna di giorno vede cose che non vede chi sogna di notte”.