Matteo Bandello e le novelle degli umani umori…

Siamo tutti necessariamente convinti del fatto, più che scontato, d’altronde, che nella nostra vita il contributo degli altri è decisivo: siamo animali sociali, no?
Così, a dare alla nostra esistenza sapore e dissapore, spessore o lievità, trama e dramma, diletto e dispetto, intervengono moltissime persone.
Si va dai parenti stretti a tutti gli altri: gli amici, gli odi, gli amori, o l’amore, gli insegnanti, i colleghi di lavoro e così via.

In questa fantasmagoria di eventi che è la nostra vita, hanno una grande importanza, tuttavia, anche gli incontri di un attimo, o meglio, quelli, solo alcuni, che riescono a lasciarci dentro un ricordo, un piccolo spazio che non verrà mai ampliato, quello destinato a volti che, visti poco, si fanno comunque ricordare.
In certi visi, in certe persone che ti restano nella memoria anche se le hai viste per un solo minuto, per un’ora, per una giornata, due, o poco più, ci deve essere stato necessariamente un ingrediente capace di darti qualcosa: uno stimolo, un’emozione, una curiosità, a volte anche un indecifrabile rimpianto.

A dirla tutta, completando il discorso, sulla nostra vita e sui suoi esiti, possono avere un’influenza enorme anche gli incontri mai fatti, quelli mancati, che l’avrebbero potuta cambiare, in meglio oppure in peggio.
Tutti noi sappiamo che è così, e malediciamo le occasioni perdute o sudiamo freddo per lo scampato pericolo.
Nel nostro bagaglio culturale, negli archivi un po’ pericolanti delle nostre conoscenze, accade un po’ la stessa cosa: nel percorso scolastico o in quello personale successivo, facciamo infatti incontri decisivi con artisti, scrittori, poeti, pensatori, scienziati o filosofi, che cambieranno in meglio o in peggio la nostra personalità, arricchendola, orientandola, ma anche, talvolta, devastandola.

Voltaire

Non può essere diversamente: essendo parte importante della vita, l’apprendere mette inevitabilmente in moto i medesimi meccanismi. Siamo coscienti quindi anche degli incontri culturali mancati, quelli che per pura casualità non facciamo, oppure di altri che intenzionalmente, anche se talvolta senza un motivo conscio, evitiamo
L’effetto su di noi di questi ultimi resterà un mistero per sempre.
Io, ad esempio, continuo a dirmi da una vita che, dopo il Torless, dovrei leggere anche “L’uomo senza qualità” di Musil, ma mi sono sempre guardato dal farlo, vai a vedere perché.
Ma di tanto in tanto me lo ripeto ancora: “Devo assolutamente leggere “L’uomo senza qualità”, ecc ecc”.

Robert Musil

Anche in questo campo, più ristretto, ma fondamentale, della nostra esistenza, appaiono i nomi, appena incrociati, di alcuni uomini d’arte o, più in generale, di cultura.
Sono tracce lette frettolosamente, una o più volte nei libri di testo, indizi di qualcosa della quale, in sostanza, nulla di più sapremo mai, ma dei quali potremmo o vorremmo sapere di più.
Io, pur legatissimo al romanzo come genere letterario, ho sempre amato le prose brevi e, come tanti di noi, sono incappato più volte nel nome di Matteo Bandello, ma senza mai aver verificato, leggendolo, la sua fama di eminente novelliere cinquecentesco, e senza sapere nien’altro di lui se non il nome, puntualmente citato nei testi, ma mai approfondito.
Al tempo dei miei studi scolastici, tra l’altro, ero alle prese con altri colossi della letteratura, così non ho mai fatto un passo per conoscerlo davvero.
Presumendo ora, forse offensivamente, che questa mia lacuna sia anche vostra, approfitterò del mio impegno con la nostra rivista per conoscerne, sia pur sbrigativamente, la storia e le opere.
Dico: avete mai visto di recente un preambolo del genere?
Roba che nemmeno nel Cinquecento: manca solo la dedica al Signorotto finanziatore!
Ma è tempo, ora, di affettare serietà e di introdurre il nostro personaggio.

Matteo Bandello

Matteo Bandello nacque nel 1485 a Castelnuovo Scrivia, amministrativamente in Piemonte, ma che trovandosi al confine con la Lombardia , lo scrittore reputò sempre quest’ultima come suo vero luogo di origine.
La sua famiglia, se non nobile, come sosteneva lui, forse millantando, certamente doveva essere socialmente ragguardevole.
Il padre, Giovan Francesco, era probabilmente un cortigiano degli Sforza, con ottime parentele e buoni mezzi, mezzi che non risparmiò per fornirlo di un’ottima educazione di base.
A dodici anni fu inviato a Milano presso suo zio Vincenzo, che era Priore del convento domenicano delle Grazie, nel quale completò gli studi inferiori.

Chiesa e Convento di S. Maria delle Grazie – Milano

Appartiene a quel periodo la leggenda, da lui stesso alimentata, ma forse davvero accaduta, dell’incontro del giovanissimo Bandello con Leonardo, intento a dipingere “L’ultima cena” sulla parete del refettorio.

«Soleva andar la mattina a buon’ora a montar sul ponte, perché il Cenacolo è alquanto da terra alto; soleva, dico, dal nascente sole sino a l’imbrunita sera non levarsi mai il pennello di mano, ma scordatosi il mangiare e il bere, di continovo dipingere. Se ne sarebbe poi stato dui, tre e quattro dì che non v’avrebbe messa mano e tuttavia dimorava talora una o due ore del giorno e solamente contemplava, considerava ed essaminando tra sé, le sue figure giudicava. L’ho anco veduto secondo che il capriccio o ghiribizzo lo toccava, partirsi da mezzo giorno, quando il sole è in lione, da Corte vecchia ove quel stupendo cavallo di terra componeva, e venirsene dritto a le Grazie ed asceso sul ponte pigliar il pennello ed una o due pennellate dar ad una di quelle figure, e di solito partirsi e andar altrove.»

(Matteo Bandello, Novella LVIII)

Leonardo

Fu nel convento di Milano che Matteo pronunciò i voti; subito dopo, dal 1500, proseguendo nella sua educazione di eccellenza, studiò presso l‘Università di Pavia, approfondendo le discipline tipiche di un corso di studi religioso, principalmente storia e filosofia.
Da alcune sue notazioni autobiografiche, sembra però che non abbia portato a termine quegli studi conseguendo la laurea.
Bandello fu poi a Ferrara e a Genova dove studiò presso il Convento di Santa Maria del Castello, divenendo compagno di corso e amico di Giovanni Battista Cattaneo, la cui scomparsa prematura, nel 1504, gli ispirò quello che è ritenuto il suo primo scritto, la “Religiosissimi Beati Fratis Joannis Baptistae Cattanei Genuensis, Ordinis Praedicatoris novitii Vita”.
Nel 1505 suo zio Vincenzo lo volle come suo guardasigilli e accompagnatore in un lungo viaggio di ispezione ai conventi domenicani d’Italia, un viaggio che nelle intenzioni dello zio, avrebbe dovuto essere di formazione, doveva dargli, cioè, esperienza degli uomini e dei loro meccanismi sociali e politici, un bagaglio indispensabile per chi avesse voluto seguire una carriera diplomatica o giuridica.
A Firenze Bandello si innamorò di una giovinetta che alcuni studiosi hanno identificato in Violante Borromeo, che lui rese protagonista, dopo la morte precoce di lei, nel 1506, di una sua novella.
Nel corso di quel viaggio toccò Roma, Napoli, la Calabria scoprendo attraverso moltissimi e disparati incontri, la sua spiccata vocazione mondana.
Con la stessa curiosità infatti frequentò sia banchieri, come Agostino Chigi che famose cortigiane come Isabella de Luna e Imperia.

Piazza del Popolo a Roma nel 1500

A Napoli leggendo le opere dell’umanista e uomo politico Giovanni Pontano, si convinse del primato della ragione come guida per le azioni dell’uomo, ma altrettanto forte si radicò fu in lui la convinzione che la nostra vita sia spesso preda della casualità, dell’imponderabile, opinione che come vedremo verrà frequentemente trasposta in molte delle sue novelle.
Durante la permanenza nel convento di Altomonte, in Calabria, suo zio Vincenzo morì improvvisamente.
Quel 1506 fu assai pesante per Bandello, un anno di lutti e di “mal d’amore”, viste le perdite ravvicinate di Violante e di suo zio, che lui accompagnò dalla Calabria fino alla sua sepoltura nella chiesa di San Domenico Maggiore a Napoli.
Una malattia grave aveva peraltro colpito anche lui e lo tenne fermo per un certo numero di mesi, durante i quali venne confortato dalla vedova dell’ex re di Ungheria, Beatrice d’Aragona, poi, una volta ristabilitosi, all’inizio del 1507, Matteo fece ritorno a Milano, nel convento di Santa Maria delle Grazie, nel quale si tratterrà, fatta salva qualche interruzione, fino al 1526.
A Milano, pur perfezionando i suoi studi di lettere e di latino, Bandello entrò in relazione mondana e cortigiana con le famiglie aristocratiche e altoborghesi della città e con i circoli umanistici che ne frequentavano i salotti.
Divenne particolarmente intimo con Ippolita Sforza, seconda moglie di Alessandro Bentivoglio, fuggito da Bologna, della quale la sua famiglia aveva perduto temporaneamente la signoria.

Busto di Ippolita Sforza

Avendo sottoposto i suoi scritti alla nobildonna, ricevette da lei il suggerimento e la spinta più decisa a raccogliere le sue novelle.
Tramite i buoni uffici del Bentivoglio, alleatosi coi francesi per riprendere Bologna, Matteo nel 1508 fu in Francia quale suo incaricato, ma intanto, in ossequio alla sua vocazione letteraria ed alla inclinazione per le novelle come genere, pubblicò una sua traduzione in latino della novella di Tito e Gisippo, tratta dal Decameron di Boccaccio.
Bandello fu costretto ad abbandonare Milano dopo che con la battaglia di Marignano, nel 1515, Giangiacomo Trivulzio conquistò la città a pro dei francesi.
Si rifugiò a Mantova, trovando generosa protezione da parte della marchesa Isabella d’Este Gonzaga, per la quale scrisse l’elogiativa “Parentalis oratio pro clarissimo imperatore Francisco Gonzaga”.

Tiziano – Ritratto di Isabella d’Este Gonzaga

Innamoratosi in quel periodo di una donna, probabilmente Ippolita Torelli, la celebrò in alcune sue rime dandole il nome ora di Mencia ora di Virbia.
Nel 1522 rientrò a Milano, che era stata temporaneamente riconquistata dagli Sforza, ma dovette allontanarsene ancora, con una fuga romanzesca, lasciando la sua casa al saccheggio degli spagnoli, allorquando la nobile famiglia italiana perse defionitivamente la città in seguito alla Battaglia di Pavia, del 1525, scontro che aveva visto contrapporsi Francesco I e il vittorioso imperatore di Spagna Carlo V.
Per qualche tempo Matteo visse nei campi militari, abbandonando gli studi e meditando di lasciare lo stato religioso, convinzione che maturò perché in effetti, in quello stesso anno, presentò la domanda di secolarizzazione.
Nel 1528 Bandello entrò al servizio di un celebre uomo d’armi genovese, Cesare Fregoso, del quale, da esperto diplomatico, negoziò il matrimonio con Costanza Rangoni.
Fregoso era stato nominato comandante della fortezza di Verona, così Matteo, al suo seguito, visse alcuni anni sereni nella città veneta e nei suoi dintorni, godendo di molte amicizie importanti con illustri letterati, come Pietro Bembo, il medico letterato Girolamo Fracastoro o il poeta-botanico Andrea Navagero.
Nel 1535, seguendo la famiglia Fregoso, passò a Castelgoffredo, una località a sud del Lago di Garda, presso la signoria di Luigi Gonzaga, che di Fregoso era il cognato.
Qui incontrò Lucrezia Gonzaga che divenne sua allieva e della quale si innamorò.
L’amore per la giovinetta gli ispirò i “Canti IX, poema in ottave in lode di Lucrezia Gonzaga di Gazzuolo”.

Tiziano – Ritratto di Lucrezia Gonzaga di Gazzuolo

La quiete di quegli anni cedette però il posto ad un altro periodo turbolento, nel corso del quale, ancora una volta, Bandello venne coinvolto con Fregoso, nelle lotte che vedevano contrapporsi in Italia le forze francesi e quelle spagnole.
Col suo signore dunque, Matteo partecipò, stavolta dalla loro parte, alla guerra dei francesi contro le truppe imperiali che occupavano la Lombardia, recandosi ancora in Francia, dove Fregoso incontrò personalmente il sovrano, Francesco I.
Fu appunto in Francia che Bandello conobbe Margherita di Navarra, sorella del re, che per lui rimase fino al termine della sua vita, un’amica devota e colta, che lo mise in contatto con altre figure illustri di letterati italiani e francesi.
Fu a Margerita di Navarra, autrice anch’essa di una serie di novelle che vennero raccolte nell‘”Hèptameron”, che Bandello inviò la sua pregevole traduzione dell’”Ecuba”.
Quando nel 1541, Cesare Fregoso venne assassinato da alcuni sicari di Carlo V, Matteo seguì la sua vedova, Costanza Rangoni, a Bassens, presso Agen, in una dimora principesca che le era stata offerta da Francesco I.

Francesco I di Francia

Per cinque anni, dal 1550 al 1555 Bandello resse il vescovado di Agen in nome dell’ancora troppo giovane Ettore Fregoso, cui era destinato, e riprendendo i suoi studi, allietato dall’amicizia di Margherita e Maria di Navarra, di Anna di Polignac e della cerchia degli altri amici letterati.
Nel 1545, oltre al già citato “Canti XI”, Matteo pubblicò il carme “Le tre parche”.
Nel 1554 curò finalmente la Raccolta delle sue Novelle, che vennero pubblicate a Lucca, in tre libri dall’editore Busdrago, mentre una quarta parte fu stampata postuma nel 1573.
Bandello morì, ad Agen nel 1561, nella bella villa che anni prima gli aveva lasciato la Rangoni, che si era trasferita a Padova.
Se si volesse riassumere in estrema sintesi il valore dell’opera di Bandello, si potrebbe certamente affermare che più che nelle opere minori, come il suo “Canzoniere”, composto da versi di ispirazione petrarchesca o negli altri scritti che abbiamo già citato, che si legano strettamente alla sua attività di cortigiano, l’importanza letteraria di Bandello va ricercata tutta nella sua produzione di novelle.
La sua impronta segnò tutta la prima metà del Cinquecento, risolvendo molte delle contraddizioni che avevano caratterizzato il genere della novella, trovandovi soluzioni convincenti, sia strutturali che stilistiche.

Matteo Bandello – Novelle – Prima edizione del 1554

Con il nutrito corpus della sua opera narrativa, Bandello diede nuova vitalità ad un genere che l’aveva persa e si era appannato, appiattendosi nella pedissequa imitazione dello stile e delle architetture del Decameron.
Questo distacco dai modelli dei novellieri toscani si rese evidente già dall’espediente di accompagnare ogni novella con una lettera di dedica, eliminando la cosiddetta “cornice”, e se in Masuccio Salernitano, che pure aveva già adottato una simile trovata, quelle lettere avevano un fine di riflessione etica, di insegnamento morale che veniva fuori dalle storie, in Bandello le dediche miravano, come suggerisce Sapegno nella sua Storia della Letteratura, “a legare i racconti a personaggi e ambienti della vita contemporanea e a convalidare il carattere di vasta cronaca che voleva fosse proprio della sua raccolta”
Oltretutto oggi risultano interessantissime le figure che aveva tratteggiato nelle dediche: Ippolita Sforza, Alessandro Bentivoglio, Isabella Gonzaga, Camilla Scarampa, Ippolita Torelli Catiglione, Baldassarre Castiglione e tantissimi altri nomi di spicco.
Il risultato fu che le corti, i palazzi, i campi di battaglia o i ritrovi della gente comune, insomma tutti gli ambienti che ebbe a frequentare, in queste lettere erano descritti con la medesima ricchezza di particolari che si ritrovava nelle sue novelle.
La sua vocazione di cronista della società a lui contemporanea si riverberava ovunque nella sua opera, dalla descrizione degli interni delle case ai ritrattini degli uomini di qualche fama.
Come per quasi tutti i suoi scritti, anche la destinazione della sua opera maggiore era cortigiana.

Questo innanzitutto perché le sue novelle avevano la prestesa di essere testimonianza di fatti realmente accaduti, vicende delle quali la società di corte conservava ed elaborava la memoria, ma anche perché i lettori predestinati, quelli futuri, sarebbero appartenuti quasi per intero alla medesima cerchia sociale descritta nelle novelle, alla stessa cultura.

“Ho scritto non per insegnar altrui, né accrescere ornamento a la lingua volgare, ma solo per tener memoria de le cose che degne mi sono parse d’esser scritte”.

Parole queste che, confermando l’intento che si diceva, testimoniano anche un altro aspetto della produzione di Bandello: l’antiorganicità di un materiale tematicamente eterogeneo, raccolto un po’ alla rinfusa, esattamente al contrario del modello coeso sino ad allora imperante.
Scrive Giorgio Patrizi:

“In un universo così composito si alternano i topoi novellistici, le vicende erotiche e quelle mondane, le beffe, le avventure a lieto fine, ma anche le tragedie della follia, della passione sfrenata, della gelosia”.

Altrettanto vari sono gli ambienti in cui queste storie si producono, molte delle quali coinvolgono corti reali d’ogni parte del mondo, ma anche la Roma antica, o l’Etruria dei re Tarquini, luoghi che ospitano, quindi, moltissimi personaggi storici.
La formazione culturale di Bandello che, come abbiamo visto, si svolse in svariate città italiane, contribuì anche ad uno stile aperto, che risentiva di svariatissime influenze e che il già citato Patrizi definisce come “ una sorta di libertinismo letterario” che gli consentiva di metabolizzare e utilizzare le influenze di autori tra i più diversi e lontani tra loro.

Prima edizione delle Novelle – 1554

La sostanza della sua opera, derivata, come si diceva, da una pluralità di stili, si rifletteva anche nel messaggio che le sue novelle contenevano, anch’esso, in qualche modo controverso, ambiguo.
In tante delle sue novelle si celebrano, infatti, i valori di una società ordinata, aristocratica, cattolica e razionalmente gerarchica, ma contemporaneamente il narratore con le sue trame scopre i limiti di quell’ordine, i limiti della sua logicità.
Dalle sue storie si ricava, in sostanza, che la vera minaccia alle strutture costruite dall’uomo è l’uomo stesso, il suo lato emotivo, quello pronto a scatenarsi in passioni pericolose, capaci di scardinare quell’ordine e dare alle cose umane una costante impressione di precarietà, di latenza.
E’ sufficiente un avvenimento imprevisto e improvviso, magari il sorgere di una sfrenata passione d’amore, a far smottare ogni ordine, ogni costruzione razionale.
Sono gli umani umori, insomma a minare la ragione, ad accecare chi se ne infiamma.
Conclude ancora Patrizi:

“Sulla teoria degli umori come chiave del comportamento umano si costruisce la giustificazione naturale della follia come disordine; questo non può derivare da una scelta cosciente, ma piuttosto dalla totale incapacità del controllo del comportamento. Un’incapacità totalmente distruttiva: così la passione della duchessa di Challant (prima parte delle novelle, quarto racconto); così l’adulterio punito al pari della gelosia, altra faccia di passioni sfrenate.
Tutto ciò che si oppone al principio dell’ordine e della ragione è il diverso, che Bandello annota con curiosità terenziana, ma che occorre isolare perché estraneo, e quindi pericoloso, alla società cortigiana”.

Tutti i disordini che al mondo avvengono, dice Bandello, nascono dall’uomo che:

“si lascia soggiogare dalle passioni e dagli appetiti disordinati. Onde da l’utile e piacevole, che indi cavarne spera, accecato, gettatosi dopo le spalle la ragione, che di tutte le azioni nostre deveria esser la regola, segue sfrenatamente il senso”.

Piermario De Dominicis, appassionato lettore, scoprendosi masochista in tenera età, fece di conseguenza la scelta di praticare uno sport che in Italia è considerato estremo, (altro che Messner!): fare il libraio.
Per oltre trent’anni, lasciato in pace, per compassione, perfino dalle forze dell’ordine, ha spacciato libri apertamente, senza timore di un arresto che pareva sempre imminente.
Ha contemporaneamente coltivato la comune passione per lo scrivere, da noi praticatissima e, curiosamente, mai associata a quella del leggere.
Collezionista incallito di passioni, si è dato a coltivare attivamente anche quella per la musica.
Membro fondatore dei Folkroad, dal 1990, con questa band porta avanti, ovunque si possa, il mestiere di chitarrista e cantante, nel corso di una lunga storia che ha riservato anche inaspettate soddisfazioni, come quella di collaborare con Martin Scorsese.
Sempre più avulso dalla realtà contemporanea, ha poi fondato, con altri sognatori incalliti, la rivista culturale Latina Città Aperta, convinto, con E.A. Poe che:
“Chi sogna di giorno vede cose che non vede chi sogna di notte”.

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