L’angolo buio degli illuminati: Abacab (Genesis)

Nel mondo della musica troppo spesso si liquidano album scritti da artisti/gruppi storici con frasi preconfezionate, “è finita l’ispirazione”, “album troppo commerciale” ecc., eppure nell’analisi della storia discografica raramente si analizza una composizione in funzione di ciò che rappresenta un’artista o un gruppo, ma lo si fa spesso solo in funzione di ciò che ci aspettiamo.
Paradossalmente fenomeni come i Pink Floyd hanno saputo cavalcare un decennio proponendo un sound riconoscibilissimo, ripetendone le strutture armoniche e a volte melodiche, eppure di grande qualità, ma pochi si sono chiesti se lo facevano per se stessi, per la Musica o semplicemente per compiacere chi aveva riconosciuto loro il successo mondiale (so che mi tirerò addosso l’ira funesta di coloro cui ho toccato l’osso…). 

I Pink Floyd

Ora invece voglio partire da un altro presupposto personale al quale sto dedicando qualche riflessione da un po’ di tempo a questa parte.
Un ragazzo di 13 anni che ascolta per la prima volta i Genesis, attraverso l’album più controverso, e secondo molti, più buio della loro storia discografica, e che poi, grazie a questo primo ascolto, si sente spinto ad esplorarli e conoscerli attraverso i dischi precedenti, quelli che davvero li hanno fatti amare dalla maggior parte dei fan, può dire di aver conosciuto i veri Genesis in quel primo incontro?
Ci può essere qualcosa di profondamente Genesis anche in quel disco così lontano dalle sonorità prog che li fecero conoscere al mondo? E infine la domanda delle domande: quanto riusciamo ad essere neofiti nell’ascolto di una nuova opera, pur conoscendo già tutto il pregresso prodotto da chi l’ha creata, senza farci condizionare da questo?  

Per quanto mi riguarda, quando mi accingo ad ascoltare un disco ho come un incontro e non importa se è di un artista che già conosco o, addirittura, se ho già sentito l’album stesso (magari messo sul piatto per la centesima volta).
Io comunque mi pongo in attesa, non ho aspettative né cerco conferme: voglio solo che mi riempia, sperando di uscire cambiato al termine del percorso.

L’incontro di cui narrerò avviene in un luogo chiamato Abacab, dove i 48’ che contengono questo spazio si attorcigliano diventando attimo ed eternità.
Quando misi la puntina sul disco di quel gruppo, dal nome a me sconosciuto, l’ascolto portò insieme gioie e dolori: quelle di scoprire una nuova stanza segreta nel mio mondo e quelli che ogni esperienza forte ti procura in sensazioni ed emozioni.
Stanze segrete.
Quante stanze segrete ho trovato, anche senza cercarle, nell’arrampicarmi su per la vita.
Di altre stanze non è il momento di parlare, ma quella dei Genesis è stata una delle più grandi, ricca di mille angoli nascosti e, dietro a questi, tante finestre aperte su nuovi mondi segreti.

Ascoltando ABACAB, riandando coi ricordi a quei giorni in cui conobbi questo disco, scoprendo un gruppo fantastico, una cosa che sento ancora oggi è un pizzicore in fondo allo stomaco, che inizia con la partenza proprio della title-track, il pizzicore che prova un bambino aspettando che la banda gli passi davanti. Sente per prima la batteria, che scandisce il ritmo, poi quella chitarra che sembra annunciare che stanno per arrivare… e poi:
eccoli, eccoli, sento la tastiera, ancora la batteria… la voce e poi quel finale.
Ancora non sapevo che fosse una caratteristica peculiare genesisiana, così personale da rappresentarli totalmente.
Immagino tutto come se fosse un mazzo di fiori: vedo tastiere toccate appena come piccole roselline bianche; una batteria con tempi e controtempi che racconta lo sbocciare di sostanziose orchidee, e chitarre prima di contorno e poi protagoniste evocanti un prato di margherite di campo.
Tutto è venato da una spruzzata di malinconia autunnale: non so perché, ma ho sempre avuto la sensazione che Abacab fosse un disco malinconico, ma del resto l’autunno è la mia stagione e suoi sono i miei colori preferiti.
Cavolo c’è da perdersi! 

No replay at all invece si presenta all’ascolto come una primaverile domenica di sole, leggera e calda, nella quale però ti sei svegliato troppo tardi e sai che hai perso qualcosa che non riavrai.
Poco oltre la metà del pezzo arriva una nuvoletta a velare il sole, facendoti assaporare un po’ di fresco: intorno a te respiri colori e profondità completamente diversi, ma poi la nuvola passa e torna tutto leggero e caldo.

Altro giro di vuoto e poi parte il terzo brano. Non so perché ma il titolo, Me and Sarah Jane, mi ha sempre fatto pensare a Tarzan: mentre scorre il pezzo me lo immagino volare attaccato ad una liana da un albero all’altro, con la scioltezza di chi ci è nato tra quelle fronde.
Ancora lo rivedo nei miei ricordi correre nella savana, possente come un leone o agile come una gazzella.
Il sapore di un finale “in discesa” (come li chiamo io, aiuta a tenere vividi i fotogrammi che si allontanano finché non riesci a vederli più.

Con Keep it dark salgo su una motocicletta (altra stanza segreta della mia vita…), cerco di metterla in moto saltando sulla leva di accensione con forza 1, 2, 3 volte (nell’81 gli starter elettrici erano rari…)
Poi finalmente il rombo: la moto parte e io con lei.
La strada costeggia un costone di montagna, in lieve salita, una curva sembra non finire mai, mi ci appoggio tra ombre di fogliame e rari squarci di luce, la salita accentua un po’, apro il gas leggermente e con docilità la mia motocicletta risponde. Finita la curva, la strada comincia a scendere quasi scodinzolando, le zone buie si diradano e d’un tratto vedo il mare aprirsi sotto di me, come se ci potessi finire dentro al successivo tornante, azzurro e in parte ricoperto da quella patina dorata che gli dona il sole nelle ore che precedono il momento in cui questi si addormenta.

Il disco interrompe i suoi giri e fa staccare la testina dal vinile… è ora di cambiare lato.

Inizialmente Dodo – Lurker l’ho odiata!
Come osava paragonarsi ad Abacab, lunga addirittura più di Lei?
Pomposa e sfarzosa senza sembrarlo meritare, non mi piaceva proprio!
Ora è diverso, ho imparato ad apprezzarla, mi da l’impressione di un cavallo che, inizialmente, non vuol farsi domare ma che poi ti trasporta nella sua corsa sfrenata. Vuole catturare campi, saltare staccionate, abbattere boschi, mentre tu pensi di non poter controllare nulla di ciò che ti sfreccia veloce accanto, speri solo di non esserne travolto. 

Who dunnit?Man on the corner mi sono sempre state abbastanza indifferenti, come se non fossero state composte dai Genesis: troppo essenziali, quasi senz’anima. La prima non mi lasciava nessuna emozione, come un incontro in metropolitana tra due persone troppo piene dei loro pensieri per svelarsi.
La seconda poi, con quella drum-machine semplice e ripetitiva, sarebbe potuta diventare un brano dark di spessore, invece mi è sempre sembrata un’occasione persa.

Like it or not, invece, mi è sempre piaciuta molto.
Ho la sensazione di essere avvolto in una calda coperta a scacchi grandi rossi e blu, seduto su un divano color canna da zucchero striato d’arancio, davanti ad un fuoco che scoppietta ancora, anche se sta dolcemente assopendosi. Il tono rossiccio di quella unica fonte di luce che si riflette su l’ultimo bicchiere che forse finirò prima di andare a dormire…

Anche Another record mi ha affascinato da subito, specialmente all’inizio, quando richiama un’alba quasi spettrale, le nebbiose pianure che provano a respingere il giorno che avanza, mentre l’occhio si posa sulle ultime immagini sbiadite.
Poi la nebbia si dirada, le stelle scoloriscono alla luce nuova e tutto passa, fino al sorgere di una nuova Luna nella mia Follia.

Rael Mad Man Moon
Cercare di presentarsi…
Cercare un nome e farsi guidare dal delirio provocato dalla malattia per i Genesis nata a mezzogiorno in un piovoso sabato di metà ottobre 1981, quando ancora non sapevo che quell’ascolto mi avrebbe cambiato la vita.
Cercare di modificarsi continuamente, mettendosi in discussione, anche se non sempre tutto quello che si sceglie ci fa essere migliori del giorno precedente.
Cercare di non vivere una vita mignon, non aver pensieri mignon, conoscenze mignon, sentimenti mignon… io odio i mignon.
Cercare di imparare ad amare anche se il bisogno di amarsi è sempre troppo forte…
Cercare la soluzione e non la compassione, il lamento è la scatola dove infiocchettare il problema.
Cercare di conservare la tenerezza, anche quando il vento te la vuole spazzare via, a volte battersi per difendere una carezza vale di più.
Cercare di salire sopra quel tavolo, anche se non vorrei, anche se non dovrei, per continuare a guardare il mondo da una prospettiva diversa.
Cercare di continuare a domandarmi quale sarà il mio verso nel grande spettacolo che è la vita.
Cercare ancora la Luna nella mia Follia…

4 commenti su “L’angolo buio degli illuminati: Abacab (Genesis)

  1. confesso che non ci ho capito nulla di quello ke voleva dire l’autore di questo pezzo.
    per me, e i gusti son gusti, il disco è orrendo, pura pornografia sonora.
    ma è solo in mio parere
    per favore quando scrivete + chiarezza. grazie

    1. Ciao Paolo, questo articolo è un esperimento che abbiamo voluto fare facendo la recensione di un disco in maniera differente. L’autore ha voluto descrivere le sue personali sensazioni provate ascoltando questo LP.
      E’ un approccio differente, se vuoi un po’ poetico, immaginifico e, in ogni caso, intimo, come può succedere lasciandosi trasportare dalle emozioni.
      Sulla bellezza del disco effettivamente mi trovo d’accordo con te. Benchè io sia un amante dei Genesis per me, personalmente, sono finiti con il disco doppio “The Lamb lies down on Broadway”.
      Anche a me questo disco non piace.
      Grazie di seguirci

  2. Tante piccole poesie a commentare ogni singolo brano, ammetto di non conoscere questo disco, ma ho goduto delle immagini evocate e ora vado ad ascoltare i brani che sono comodamente inseriti qui nell’articolo

  3. Questo articolo è geniale, originalissimo questo modo di raccontare la musica per immagini, chi lo ha scritto è fuori dall’ordinario e trasmette entusiamo.
    Mi complimento!
    Salvo

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