Marshall McLuhan, sociologo canadese, studioso degli effetti dei mass media sulla società e sui comportamenti dei singoli, in un saggio pubblicato nel 1964, intitolato “Understanding Media” (pubblicato in Italia con il titolo “Gli strumenti del comunicare”), prevedeva una rapida scomparsa del telefono, in quanto strumento considerato come “un irresistibile intruso capace di penetrare ovunque in qualsiasi momento”.
Tutto questo ci fa sorridere; McLuhan sul punto non ci ha visto giusto, tant’è che oggi l’evoluzione di quel telefono, che non si è affatto estinto, è lo smartphone, il quale, attraverso le moderne tecnologie, ci consente di rimanere sempre connessi alla rete, in una osmosi continua tra pubblico e privato.
In rete tutti comunicano tutto, con parole, immagini, filmati, affollando luoghi virtuali; un fenomeno, quello dei social network, che ha invaso la nostra vita.
Grazie alla rete lo spazio del linguaggio si è allargato a dismisura, eppure è un linguaggio sempre più leggero, volatile e sempre meno pregnante.
“Se il pensiero corrompe il linguaggio, anche il linguaggio può corrompere il pensiero”
scriveva George Orwell nel secolo scorso, e ha esattamente toccato il nocciolo del problema: il sovraccarico di parole e un linguaggio sempre più a effetto, ossessivo e invasivo, ha finito con il corrompere il pensiero.
Finiamo per pensare come ci suggeriscono le parole, senza sviluppare un pensiero, e non parliamo dopo avere maturato un qualche profondo e ragionato convincimento; ci ritroviamo dentro una sorta di ecolalia, ovvero l’immediata e continua ripetizione di frasi, slogan e parole altrui, senza un pensiero dietro, che crea un circolo vizioso difficile da interrompere.
A furia di ripetere una bugia questa diventa vera, a furia di ripetere in modo automatico concetti e parole, senza avere elaborato un pensiero a riguardo, si diventa portatori di un non linguaggio che, alla maniera di un mantra, si prende lo spazio, che normalmente dovrebbe essere riservato alle idee, per svuotarlo di significati.
È questa bulimia di parole a corrompere il pensiero, ovvero: non induce a fermarci e riflettere, ma ci fa tenere dietro al ritmo, condizionati psicologicamente da un meccanismo fatto di facili consensi e di mi piace, di urla gridate da una tastiera, di aggressività e indignazione contagiose, di parole forti che fanno presa, coinvolgono e al momento sconvolgono, ma poi non hanno alcun contenuto e mancano di fondamento.
Questo meccanismo, indotto tecnologicamente, ha a che fare più con la manipolazione che con la persuasione: niente di più comodo da sfruttare dove ci sono interessi di potere.
“Prima di raccontare bisogna fare i conti con i fatti, e bisogna smetterla di usare parole senza le cose e senza alcun senso di responsabilità”,
scrive Giuseppe Antonelli, professore di linguistica italiana all’Università di Cassino, autore di diversi saggi.
Si riferisce allo spazio del linguaggio politico, che in rete si è allargato a dismisura, riempiendo di slogan che accomunano politica e pubblicità.
Nel suo significato originario, la parola inglese slogan indicava il grido di guerra di un clan. Sarà per questa ragione che porta in sé una modalità aggressiva, oltre che pervasiva? Immaginate le espressioni dei visi contratti nell’urlo di battaglia, scandito a ripetizione contro il nemico.
Poi nel settecento il termine slogan passava a indicare la “parola d’ordine di un movimento politico”, e a parer mio, anche in questo caso, si tratta sempre di qualcosa che comunque reca in sé una forza propulsiva e persuasiva.
Poco dopo si aggiungeva al termine un ultimo significato, ovvero di frase usata per pubblicizzare prodotti commerciali.
Non so se sia da ricondurre a questo ultimo passaggio l’avvio di una sorta di commercializzazione della politica, per come si è poi realmente sviluppata, assumendo delle modalità di marketing simili al lancio di un prodotto sul mercato; comunque, riflessioni a parte, il meccanismo dello slogan funzionava prima e funziona anche adesso, purtroppo però nella sua evoluzione più recente esso è stato infarcito di turpiloquio, aggressività e arroganza esplicita, che nonostante tutto pare faccia molta più presa:
in pratica siamo tornati all’urlo di guerra del clan.
Se prendiamo in esame le espressioni utilizzate da tanta politica negli ultimi tempi, noteremo quanto l’insulto sia stato sempre più frequente e più pesante, al punto che oramai si è addirittura sdoganato come un fatto normale.
La politica si serve sempre di più della rete, dove costruisce slogan dal turpiloquio facile, e la Lega è il partito che oggi è riuscito a capitalizzare meglio degli altri il suo impatto mediatico; con l’onnipresente Matteo Salvini, ha creato una vera e propria macchina, denominata dal partito “la Bestia”, attraverso la quale viene modificata la propria strategia di propaganda.
Dietro “la Bestia” ci sono esperti che lavorano per monitorare il sentire più diffuso sui social, in maniera tale da amplificarlo e sfruttarlo per ottenere consenso.
La disinformazione e gli innumerevoli like su notizie senza approfondimento, alimentano la macchina propagandistica; gli elettori sono contenti di vedere condivise le proprie convinzioni e assecondati i propri impulsi, provano una sorta di soddisfazione nel vedere confermati i propri pregiudizi.
Insomma è il cane che si morde la coda; si sonda la rete per assecondarne e sfruttarne le tendenze, si creano dei post a effetto, per riuscire a sollecitare le reazioni emotive e per fare passare una idea di realtà che rechi vantaggio alla propria parte e si traduca in voti; la strategia vincente che spesso viene usata è quella di trovare un nemico comune, alimentando paura e odio, facendo ricorso a un linguaggio forte e aggressivo.
Ma l’uso continuo di parole forti nasconde in realtà una politica debole.
Una politica forte fa ricorso alle idee, perché sono queste che devono riempire di contenuti le parole:
prima il pensiero poi la parola.
Se oggi, contro questi squali aggressivi della comunicazione, che hanno sostituito la propaganda alla Politica, si stanno organizzando branchi di pacifiche sardine, ripopolando le piazze di giovani che manifestano il proprio dissenso, e dunque l’urgenza di tornare alle idee, è perché la rete è un oceano che per fortuna può essere democraticamente popolato anche da piccoli pesci, che si incontrano e si uniscono per nuotare controcorrente.
Non è il mezzo che va demonizzato ma l’uso che se ne fa; con questo stesso mezzo ci si può ribellare e dire basta, e chissà che non si possa sconfiggere “la Bestia”, con migliaia di sardine riunite in tutte le piazze italiane che scandiscono il proprio “no” forte e chiaro.
Resta però sempre un grande interrogativo, dopo avere detto questo NO, qualcuno dovrà raccogliere il testimone e ripopolare l’oceano, non solo quello dei social, ma soprattutto quello della Politica, con idee e progetti realizzabili, pensare insomma al futuro e pensarci in fretta, prima che arrivi un’altra ondata a trascinarci tutti verso l’ennesima deriva.
Fino a poco tempo fa mi sono nascosta dietro l’eteronimo di Nota Stonata, una introversa creatura nata in una piccola isola non segnata sulle carte geografiche che per una certa parte mi somiglia.
Sin da bambina si era dedicata alla collezione di messaggi in bottiglia che rinveniva sulla spiaggia dopo le mareggiate, molti dei quali contenevano proprio lettere d’amore disperate, confessioni appassionate o evocazioni visionarie.
Oggi torno a riprendere la parte di me che mancava, non per negazione o per bisogno di celarla, un po’ era per gioco un po’ perché a volte viene più facile non essere completamente sé o scegliere di sé quella parte che si vuole, alla bisogna.
Ci sono amici che hanno compreso questa scelta, chiamandola col nome proprio, una scelta identitaria, e io in fin dei conti ho deciso: mi tengo la scomodità di me e la nota stonata che sono, comunque, non si scappa, tentando di intonarmi almeno attraverso le parole che a volte mi vengono congeniali, e altre invece stanno pure strette, si indossano a fatica.
Nasco poeta, o forse no, non l’ho mai capito davvero, proseguo inventrice di mondi, ora invento sogni, come ebbe a dire qualcuno di più grande, ma a volte dentro ci sono verità; innegabilmente potranno corrispondervi o non corrispondervi affatto, ma si scrive per scrivere… e io scrivo, bene, male…
… forse.
Francesca Suale
Condivido e mi complimento per quanto mi capita di leggere. Saluti.
Grazie,
un caro saluto
Carissima,
lo slogan e’ l’anima del commercio sia esso politico oppure dei beni di consumo. “Prima gli italiani” “Dagli con le ruspe!” ecc., dice il Vate milanese, novello spargitore di frasi facili ma efficaci per le menti ormai attrofizzate della gran parte di elettori. In se’ lo slogan non e’ negativo o prettamente aggressivo. Potremmo ricordarne alcuni famosissimi, recenti ed efficaci: da I Have a Dream, Just Do It, Yes We Can, passando per Ci vuole un grande pennello, Ava come lava,…ed uno come I Like Ike (pro Eisenhower)….e funzionano bene. Tu giustamente rilevi la mancanza di approfondimenti di pensiero proprio, discernimento del vero dal falso. Beh, e qui casca l’asino. L’acculturamento della media degli italiani e’ sprofondata a 50 anni fa quando il maestro Manzi insegnava a leggere ed a scrivere. (“Non e’ mai troppo tradi”). Sono convinto che invece E’ troppo tardi! “Franza o spagna, basta che se magna”…La caduta morale, politica, intellettuale e culturale del Popolo e’ iniziata con l’avvento della TV commerciale negli anni 80. Spazzatura, Junk Food, della quale si sono nutrite le masse. Orwell e’ stato profetico. La realta’ odierna e’ controllatisima nei dettagli piu’ insignificanti. Big Data in mano ai manipolatori delle Menti e della Neolingua. Il punto debole delle Sardine e’ forse la mancanza di uno “slogan” efficace. Facciamo un po’ di Brainstorming, je damo una mano? (efficacissimi slogan sono quelli di Cetto: “intuculu alla politica, chiu pilu pe tutti, cazucazu”! Un abbraccio! 🙂
😀
ottimo e condivido