Tutti sappiamo che Latina, la città che instancabilmente amiamo, dopo essere stata fondata, in tempi sufficientemente recenti da farsi ricordare anche da persone di non eccessiva decrepitezza, ha trascorso un comprensibile periodo ad assestarsi, a prender su ciccia, a passeggiare in pubblico senza mettersi troppo in ghingheri.
Ci ha impiegato una sessantina di anni circa, giusto il tempo per mascherarsi un pò, per rendersi irriconoscibile, per cantar messa e tirar su quartieri su quartieri. Sparita poi che fu la balena biancofiorita, a causa delle solite storie piccanti di manine leste che avevano sgraffignato tutta Italia, la nostra amatissima è incappata in una classe dirigente così affezionata al mito della fondazione da farne una specie di ossessione, un inevitato intercalare verbale, uno scudo antiatomico, un cliché infestante, un nome smesso ma mai smesso, una lacrima pronta a scendere lungo una gota già oliata da una benevola amnesia.
È stata insomma ri ri ri – fondata, fondata, fondata e – Cavolo! – ancora fondata. Ha tirato fuori bandiere, banda e gagliardetti, vecchie cartoline, targhe dorate, ha illuminato le glorie dubbie allo stesso modo enfatico di quelle indubbie, ha festeggiato veri eroi inconsapevoli e modellato col pongo alcuni eroi inappropriati.
La cerimonia di ri ri ri fondazione, celebrata implacabilmente ogni minuto di ogni giorno, si è un po’ dilungata, protraendosi per una trentina di anni. Fatali, purtroppo, perché sì, tutte le lacrime d’orgoglio e di rimpianto e tutta quella patriottica commozione, lo si scoprì quasi troppo tardi, avevano fatto velo anche a un diluvio di imprese molto meno romantiche di quelle dei pionieri. La città eternamente fondata, era stata, contemporaneamente ed altrettanto eternamente, sfondata.
Sfondata e spolpata con paziente ed eclettica applicazione, quasi con entusiasmo direi, dissestata fin negli angoletti più bui dagli illusionisti, dai pretesi amanti, dagli allevatori di nostalgie, dai coltivatori di fremiti di pontinità. Un disastro: eravamo pressoché falliti e non si sapeva nemmeno con chi prendersela direttamente, a chi strillare in faccia qualche parolina forte, a chi ruggire il classicissimo e un po’ logoro: “Ridateci i soldi!!”.
Nessuno infatti ti poteva rispondere perché quasi tutti i padroni della città erano stati prelevati dagli omini della legge e messi a coltivare nostalgie decisamente più prosaiche di quelle singhiozzate per decenni, e piazzati a farlo in luoghi molto più appartati e adatti ad evocarle: “Non mi riesce di andare in bagno qui. Del resto, con quel che ti danno da mangiare, con quei gabinetti sempre occupati e certe facce da cui guardarsi, compresa la mia quando la becco allo specchio, giuro, non ce la faccio…”.
L’industria della nostalgia andò temporaneamente in crisi e per qualche mese Latina non venne fondata e la banda fece silenzio mentre le foto dei palazzi razionalisti, appese un po’ ovunque, cominciavano ad appannarsi per i risorgenti vapori della palude.
I superstiti delle cordate decimate dei governanti, i pochi indenni, vennero travolti da un voto popolare oceanico ed una nuova, difficilissima era ebbe ad iniziare:
La città era in ogni settore in uno stato tale da doverla tener su col bostik
Da quel Giorno del Giudizio in poi, io ho il fondato sospetto che molto sia cambiato davvero, che più di qualcuno di coloro che abbiamo portato in vetta per metter riparo ai guai lasciati dalle vecchie e vecchissime malefatte, tiri tardi nelle stanze del governo cittadino, che si rovini la salute lavorando, che perda il sonno per mettere d’accordo le emergenze dilaganti pur con le casse comunali piene di ragnatele.
Sospetto che quella gente abbia trovato situazioni peggiori dell’immaginato, e molto, molto di più da ricostruire, con meno soldi per farlo e con ancora meno sonno da soddisfare. Sospetto che stiano facendo cose opportune, giuste, magari sacrosante. Qualcuna l’ho potuta vedere di persona, molte le ho intuite. O meglio, le ho dovute intuire, e questo, come vedremo, non è un dettaglio.
Ma il discorso non può certo finire qui. Ho anche il sospetto che siano comunque stati commessi degli errori, alcuni vistosi, altri dovuti ad ingenuità o a debolezza, altri da attribuire alla fretta. E se sospetto che molto sia cambiato, sospetto anche che sia ancora abbastanza corposo quel che non si riesce a cambiare, sospetto che alcuni meccanismi della attuale fisiologia amministrativa ancora non riescano a discostarsi da quelli della vecchia guardia, che risentano ancora delle vecchie patologie.
Ho il sospetto insomma che del nuovo libro siano stati scritti solo la prefazione e il primo capitolo. E mi starebbe benone, pur trovandolo insufficiente. Mi starebbe benone perché al contrario di tanti concittadini io non esercito la nostalgia, che appanna il ricordo, ma piuttosto la memoria, e conseguentemente non dimentico affatto i lunghi decenni del sacco cittadino e le miserie che ci hanno lasciato.
Moltissimi altri nel frattempo, forse non dotati della mia stessa immaginazione o forse solo più pessimisti di me, sospettano, ma in loro il dubbio è già più vicino ad una certezza, che i nuovi responsabili delle sorti cittadine non stiano facendo abbastanza, che di errori dovuti ad insipienza, incapacità, inadeguatezza ne siano stati già commessi troppi e sospettano infine che la vecchia, rapace politica, fosse in ogni caso più capace di dare risposte di chi si pretende nuovo e diverso.
Il punto cruciale della questione, il nodo, è esattamente quello che vado ad esporre.
Esiste gente come me, che sospetta che molto sia cambiato davvero, e senza dubbio in meglio, anche se vengono commessi alcuni errori, ma che, al tempo stesso sospetta che certi vecchi meccanismi nel gestire cose, persone ed eventi, non siano ancora stati spazzati via con la dovuta nettezza.
Ci sono poi altri cittadini che sospettano, ma quasi ne hanno certezza, che il nuovo sia peggiore del vecchio, che tutto in città sia fermo o che si degradi, che non si facciano minimi progressi.
Al contrario di me, essendo questi ultimi quasi del tutto fuoriusciti dalla dimensione del sospetto, da molto tempo sono conseguentemente impegnati a sostenerlo, a dirlo, a far pubblica abiura del voto dato, ove l’abbiano davvero dato.
Il nocciolo del problema è che si è in ogni caso costretti all’immaginazione, all’intuizione, al sospetto nelle sue due valenze contrapposte
Perché? Perché evidentemente esiste molto di non detto tra istituzione e cittadini, qualcosa che chi ha fede nell’attuale amministrazione magari attribuisce ad un silenzio operoso, alla cura virtuosa della sostanza più che dell’apparenza, ma esiste anche chi questa fiducia non l’ha mai avuta o la sta perdendo e che interpreta questo vuoto comunicativo come segno dell’incapacità di dare risposta, di un imbarazzo che si accompagna all’inadeguatezza o addirittura come segno di arroganza, di presunzione, di noncuranza.
Si segnala insomma quello che appare come un serio problema comunicativo tra Comune e cittadinanza, un problema costantemente sottovalutato che lascia campo libero sia alla compostezza di chi si mantiene fiducioso e tendenzialmente soddisfatto nel valutare lo stato delle cose, sia alla critica e all’invettiva che da molte parti, dalla stampa locale in primis, ed in secondo luogo dai social, si riversa contro l’Amministrazione.
Non si può evitare di chiedersi quali siano le ragioni di questo atteggiamento più che parco nel comunicare e nel rispondere alle sollecitazioni. La prima ipotesi, quella detta della buona coscienza, definita anche del “masochismo inconscio”, fa pensare al famoso sketch di Totò nel quale l’attore si faceva prendere ripetutamente a schiaffi, senza ribattere nulla, da un tizio che l’aveva scambiato per un tal Pasquale.
Alla luce di questa prima lettura, consigliati dagli esperti del ramo, gli amministratori locali non replicherebbero alcunché a domande, obiezioni, calunnie e insulti per la semplice ragione che hanno la piena coscienza di star operando bene, di essere nel giusto: sanno insomma, come Totò, di non essere Pasquale.
La seconda chiave di interpretazione della stringatezza comunicativa dell’Amministrazione, ci porta a pure questioni di stile.
Diceva il celebre Lord Brummel, assoluta autorità in materia: “L’eleganza consiste nel non essere notati”. In base al suo autorevole metro di giudizio risulterebbe inoppugnabile che essendo così devoti del silenzio e non facendosi quindi notare affatto, i responsabili della comunicazione del Comune di Latina siano da considerare in assoluto i più eleganti operatori del settore.
Dovremmo anzi informarci se siano stati istituiti da Europa o Italia dei premi dedicati a questo genere di attività. Cose, che so, come “Il Responsabile Comunicatore più elegante dell’anno” , “Comunicofico 2018” o altra roba simile,
perché in questo caso almeno il podio non ce lo fregherebbe nessuno.