Mattane

Le ombre della sera, con le loro belle dita rosate, stavano già dolcemente impadronendosi della città.
Il fogliame degli alberi nei viali cominciava a lucidarsi, accarezzato dalle luci dei lampioni che si erano accese decisamente in anticipo, mentre i marciapiedi stavano velocemente acquistando quel biancore stanco che così discretamente risalta nel buio.
Le strade iniziavano a perdere qualcosa della loro animazione estiva: verso il tramonto meno bighelloni e meno giovani fate vanitose vagavano per il centro, ammirandosi nel riflesso delle vetrine e aggiustandosi alla bisogna chiome e vesti.

Tarallo raggiava intimamente: aveva convinto Consuelo, la bellezza ultraterrena eternamente bramata, ad accompagnarlo in una passeggiata che si sarebbe spinta verso terreni per lui inesplorati e forse insidiosi.
Il nervosissimo giornalista, assaltatore di nuvole, era l’unico in città a comprendere il motivo dell’accensione anticipata dell’illuminazione pubblica e lo sapeva per il semplice fatto che quella ragione lui, in effetti, la stava tenendo a braccetto.
Man mano che procedevano camminando, metro per metro, sui marciapiedi, i lampioni infatti reagivano accendendosi al passaggio della ragazza, folgorando improvvisi di luce.
Nulla di inedito per Lallo, che aveva sperimentato più volte il potere che l’inconsueta bellezza di Consuelo esercitava su cose in teoria inanimate.
Ricordava, con stupore quasi intatto dopo un mese e mezzo di tempo, un episodio emblematico della capacità della meravigliosa creatura di dar vita a ciò che, anche alla luce della scienza, pare non averne.

Tarallo era a Roma, nel Salone d’oro, al secondo piano di Palazzo Chigi, per le Celebrazioni dei Diciotto anni dalla Prima Messa in Onda del Grande Fratello.

Il Salone d’Oro a Palazzo Chigi

Aspettava con tanti altri giornalisti l’arrivo del Presidente del Consiglio che avrebbe letto un’ispiratissima velina, roba da lirica manzoniana, frutto della penna di Rocco Casalino, responsabile stampa di uno dei due partiti di sgoverno e contemporaneamente grande ex della mitica trasmissione.
Il Salone, sfarzosissimo, era stato decorato da alcuni straordinari artigiani ed intagliatori nella seconda metà del Settecento, e, coerentemente col gusto ridondante di quell’epoca, riluceva in ogni suo centimetro di stucchi dipinti d’oro.
Da un ovale al sommo di una delle pareti fuggivano, staccandosene appena, due graziosi putti, dorati anch’essi, ed enormi specchi facevano da sfondo alla postazione in cui, a favore di telecamere, il premier avrebbe dovuto tenere il suo pistolotto d’occasione.
Tarallo scalpitava nervoso: per fare colpo su di lei e farla entrare negli abbacinanti palazzi del potere, aveva dato a Consuelo un accredito falso come inviata de “La Gazzetta del tombarolo”, ma la ragazza ancora non si vedeva.

Lallo sudava:

che gli addetti al cerimoniale avessero scoperto che il tesserino era opera di Mahmud, un amico di Abdhulafiah, un mago in grado di falsificare anche l’odore delle ascelle di una guardia svizzera?
Nel frattempo arrivò il Presidente e si piazzò come previsto dinanzi al piccolo podio ingorgato da un boschetto di microfoni.
Alle sue spalle i due enormi specchi separavano l’oro dall’oro in quella cornice di lusso quasi insostenibile.
Non era ormai un mistero per la stampa, sia nazionale che estera, che il premier, proprio come Dracula, l’altro conte non vivo e non morto, aveva la buffa particolarità di non venire riflesso dagli specchi.


Mentre quindi si muoveva un po’ impacciato e frenetico alla ricerca della miglior telegenia possibile, nessuno dei tanti inviati si meravigliò di vedere riflessa nei due specchi null’altro che la stanza e l’affollarsi delle loro stesse persone addosso al podio.
Tarallo friggeva dalla tensione, non riusciva a controllare il formicolio delle gambe, ma giusto quando, non reggendo più, stava per mollare tutto e scappare, ecco arrivare Consuelo, meravigliosa e sorridente, come se nulla fosse.
Lei gli aveva appena rivolto un sorriso complice, quando un maestoso brusio, stupito, prolungato e quasi inestinguibile, si levò dalla piccola folla dei giornalisti: in perfetta coincidenza con l’arrivo della ragazza, negli specchi alle spalle del Presidente era di colpo apparsa la sua figura, il suo lato posteriore per l’esattezza, con nuca, forfora e tutto il resto! E mentre Conte, momentaneamente riflettente (o momentaneamente riflessivo? Bah, chissà!), continuava a magnificare Il Grande fratello, cantilenando un po’, tra i componenti del suo staff  furono in parecchi ad accusare dei malori. 

Naturalmente quello era stato solo uno dei tanti prodigi legati alla incommensurabile bellezza di Consuelo: succedevano, e nessuno poteva farci il callo, figurarsi Tarallo! (rima involontaria). 

Passeggiavano dunque, ed era tanto gradevole farlo chiacchierando così, come veniva, senza copione, che Lallo non si era ancora deciso a rivelare alla sua amica di aver preso una decisione sconvolgente per lui e per la sua vita: privarsi dopo anni luce dei servigi di Nokio, il suo vecchio, primitivo cellulare, che negli ultimi tempi, sempre più spesso, lo lasciava a spasso.


Nokio era un modello rudimentale che non aveva nemmeno la fotocamera, intrepido e robusto, intoccabile dalle sciocche mode, ingenuo, ignaro del tutto di cosa fosse un selfie.
Tarallo però lo amava come il più mattacchione degli animali da compagnia, e lo rispettava.
Disgraziatamente il cellulare era arrivato ormai agli sgoccioli, si spegneva da solo, forse in cerca di riposo:  in breve Lallo sapeva che stava per perderlo.

Nokio agonizzava.

Cervellenstein era stato naturalmente già consultato per coadiuvare il giornalista nell’eventuale elaborazione del lutto.


Consuelo, invece, vista la sua stratosferica cifra tecnologica, era stata prescelta come consigliera per accompagnarlo in terra straniera, ovvero in quella giungla putrescente e fitta di presenze inquietanti, dove, acquattati come coccodrilli, allignavano in attesa del passaggio di vittime fresche, gli iPhone o gli smartphone, non aveva ancora capito in che accidenti fossero differenti!


Ma la serata che si annunciava era troppo dolce per proporle una attività così vile e materiale, così Tarallo decise alla fine di fare altro, continuando piuttosto a godersi la deliziosa passeggiata.
La vicinanza di tanto splendore gli scioglieva la lingua come potrebbe fare un liquorino.
Parlò più o meno dello scibile e finì poi per raccontarle, una per una, le storie dei matti storici di Latina, teste balzane che avevano insaporito per anni la vita cittadina ed erano passate via lasciandovi rimpianti e vuoti, gli stessi angoscianti vuoti che lasciano le opere d’arte rubate sui muri di un museo.


Le raccontò di quella volta che accompagnò a casa Giovanna e Peppiniella, la coppia inscindibile, famosissima a Latina, di sorelle perennemente erranti.


Camminavano sempre in fila indiana: quella che stava di un passo avanti all’altra era sempre vestita di nero.
Era tozza, con le gambette secche da uccello che spuntavano fuori da un busto compatto, pieno, da cantante lirica di una volta.
Della soprano aveva anche la potenza: strillava incessantemente infatti, con voce tonante, prendendosela con chissà chi e rimbeccando furiosamente gli immancabili lazzi o le provocazioni di qualche ozioso.
L’altra sorella, quella che ne ricalcava da tergo i passi, era invece alta e segaligna, piegata un po’ in avanti, e  lacrimosa.
Portava di solito uno scialle in testa e mentre seguiva la  sgangherata soprano ovunque a questa venisse l’uzzo di andare, biascicava incomprensibili giaculatorie con aria lamentosa e dolente.
Tarallo, molti anni prima, in un giorno qualsiasi, si era visto richiedere un passaggio dalle due, riuscendo in virtù del suo prodigioso orecchio musicale nell’impresa di decifrare, in quel gergo strano, l’inconsueta richiesta.
Sulle prime balbettò una scusa per rifiutare e subito le due si allontanarono docilmente, senza protestare.
Dopo meno di un minuto tuttavia venne a piovere e Lallo si sentì un’anima nera, un verme, attorcigliato attorno alla sua mortificazione.
Rapidissimo reagì a quel pungolo: montò in macchina e in una ventina di secondi le raggiunse.
Le affiancò e fece loro cenno di montar su.
Le due salirono a bordo festanti ed immediatamente la soglia di odorosità dell’abitacolo ebbe un’impennata strepitosa.
Tarallo afferrò la maniglia del finestrino e, incurante delle intemperie, la abbassò del tutto bevendo mucchi d’aria a bocca aperta.
Aveva capito che le due signore abitavano non distante da casa sua e, sicuro di un tragitto che faceva da anni, si avviò.
Ad un tratto, senza alcun preavviso, le mattacchione presero a urlare, tutt’e due, anche quella di solito piagnucolosa.


Grida assordanti, laceranti, gli trafissero gli orecchi mentre l’utilitaria passava svelta per vie troppo affollate, lasciando una scia sonora portentosa: le due seguitavano a strillare a pieni polmoni.
Lallo si rese conto che il percorso che stava seguendo, pur diretto esattamente al luogo da esse richiesto, non coincideva con quello che loro percorrevano abitualmente.
Con ogni probabilità era questo il motivo del loro turbamento: le due sorelle si comportavano e urlavano come se fossero state rapite!
Quella scena spettacolosa, che non si capiva se somigliasse a quelle delle comiche degli anni Venti o ai film d’azione dei tardi Anni Novanta, si era guadagnata via via, chilometro dopo chilometro, un vasto e incuriosito pubblico.
Tarallo, alla faccia del clima ostile, sudava vistosamente.
Di colpo, così come erano iniziate, le urla cessarono del tutto, repentinamente.
Lallo comprese di essersi inserito nuovamente nel percorso noto alle picchiatelle, riconfortandole.
Senza alcuna memoria degli strepiti appena fatti, le due scesero dalla Fiesta blu di Tarallo e si allontanarono continuando a fargli infiniti inchini  e sorrisi di ringraziamento.
L’aria del finestrino, che lui aveva tenuto necessariamente ben aperto ancora per un bel tratto, gli asciugò presto il sudore e lui poté proseguire verso casa.

Rara immagine di Tarallo alla guida della sua Fiesta sotto un forte acquazzone con finestrini chiusi

Mentre parcheggiava, ancora un po’ scosso, ricordando alcuni sguardi perplessi e accigliati che la gente gli aveva scoccato durante la sua fuga con le due erinni urlanti, non si sentì troppo convinto di aver fatto la figura del perfetto gentleman, del campione di altruismo. 

Consuelo rise di gusto al racconto e Tarallo avrebbe potuto giurare in quel momento di aver visto giocare delle lucciole.

“Più tardi, qualche anno dopo forse, – concluse Lallo – mi resi conto, malinconicamente, che Giovanna e Peppiniella da tempo non giravano più per le strade di Latina e che si erano evidentemente sfilate dalla vita e infilate nella piccola leggenda locale”. 

“Certo quelle poverette – commentò la ragazza sorridendo – che imprudenza:

chiedere un passaggio proprio a uno dei pazzi
più conosciuti in città!…”

  

    



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