Nel precedente articolo (Autunno, cadono le promesse) avevo provato a fare il punto sulla manovra di bilancio in base alle condizioni note al 18 settembre, prima del DEF e della conseguente bocciatura dell’Unione Europea.
La proposta di legge di bilancio è stata poi formalizzata e diversi provvedimenti ne sono usciti fortemente ridimensionati, in maniera comunque ancora insufficiente per rientrare in un livello accettabile di deficit, secondo i patti già sottoscritti in sede europea e successivamente confermati anche dal nuovo Governo.
E infatti l’UE il 23 ottobre ha formalmente contestato le previsioni macroeconomiche e i saldi previsti, chiedendo di rivedere la manovra e di fornirne evidenza entro il 13 novembre.
Il Ministro dell’Economia ha inviato entro il termine la lettera di chiarimento richiesta dai commissari dell’Unione, confermando nella sostanza la validità della manovra che verrà sottoposta all’iter parlamentare.
L’unica novità di rilievo riguarda l’innalzamento dell’obiettivo di privatizzazione del patrimonio pubblico, con una maggiore entrata prevista pari al 1% del PIL.
Una somma altamente sovrastimata (intorno ai 18 miliardi nel triennio) e una tantum, non supportata da elementi specifici di valutazione.
In pratica una pezza a colori per tentare di mascherare il buco che la manovra apre nei conti, che comunque lì resta.
La lettera accenna anche ad una riduzione del carico fiscale sulle piccole imprese, affermazione già contestata dalle associazioni di categoria.
Infatti la tanto sbandierata flat tax riguarderà solo un ulteriore ritocco al ribasso dell’aliquota per le partite Iva.
Provvedimento in sé poco oneroso in termini di minori entrate, in quanto già molto poco si riesce ad incassare dalla categoria; sarà invece probabile fonte di risparmi, poiché viene accompagnato dalla riduzione e cancellazione di alcune esenzioni e agevolazioni.
Si arriva al paradosso che, per le aziende più piccole, il risultato sarà un aggravio di costo anziché un alleggerimento. Intanto di riduzione delle accise, già annunciata nei vari proclami pre e post-elettorali, neanche più l’ombra.
Le due misure simbolo del Governo del cambiamento – smantellamento della legge Fornero con introduzione di quota 100 per il pensionamento e reddito di cittadinanza – sono state stralciate dalla legge di bilancio, rimandando a provvedimenti separati successivi.
La legge che presto andrà all’esame del Parlamento prevede la copertura per le corrispondenti previsioni di spesa, con somme però svincolabili da tali obiettivi qualora fosse necessario coprire maggiore deficit.
E il maggiore deficit è già acclarato, con la previsione ormai consolidata di una minore crescita nel 2019 dell’ordine di mezzo punto percentuale rispetto a quanto considerato a inizio manovra (quando si era valutato il rapporto deficit/PIL al 2,4%).
Oggi, a parità di altre condizioni, ciò porterebbe ad un indicatore di deficit del 2,9%, con buone probabilità di superare il 3%, vera linea del Piave oltre la quale si approda a Caporetto.
Previsioni simili provengono dall’Ufficio Parlamentare di Bilancio, dall’Istat e, da ultimo, anche dal Fondo Monetario Internazionale; ma, si sa, si tratta di poveri incompetenti.
Difficilmente l’Unione si farà abbindolare da questa trovata levantina delle coperture a fasatura variabile, anche perché i cinque stelle rivendicano a gran voce la necessità di licenziare il provvedimento sul reddito di cittadinanza prima di Natale.
Ultimo baluardo identitario del MoVimento, non sacrificabile pena la certificazione di irrilevanza in questo Governo che, a leggere i provvedimenti, potrebbe con qualche ragione definirsi monocolore leghista. L’importante sarebbe battezzare una legge con questo obiettivo, anche con finanziamento e benefici inferiori di quelli sbandierati in passato (già fortemente ridotti rispetto alle promesse elettorali), così da poter pronunciare, con una buona dose di faccia tosta, il fatidico “obiettivo raggiunto” ed incassarne i benefici elettorali alla prossima occasione.
D’altro canto anche la Lega si sta muovendo nella stessa direzione: aprire la finestra di quota 100 per il solo 2019 è un provvedimento molto oneroso ed iniquo (in quanto una tantum), ma i fondi per estendere tale requisito anche agli anni successivi non ci sono, e allora si deve fare di necessità virtù: rottamare la Fornero… a tempo determinato.
I fortunati beneficiari ringrazieranno, insieme a tutti i boccaloni (pesci che abboccano anche ad esche facilmente individuabili, di cui il nostro mare è pieno).
Rimarranno i buchi in organico nel pubblico impiego (a partire da scuola, sanità ed enti locali), difficilmente ripianabili nel breve periodo per la proverbiale lentezza del processo di selezione.
Polpetta avvelenata che produrrà i suoi effetti nel tempo, come il permanere dello spread intorno ai 300 punti base (e, dopo la lettera del 13 novembre, si è subito saliti sopra i 310): più tempo si rimane a questi livelli, più la rotazione del debito comporterà l’emissione di titoli ad alto tasso di remunerazione, tossici sia per il deficit futuro sia per il già enorme debito pubblico.
E intanto nella legge di bilancio sono stati infilati, oppure omessi, provvedimenti volti a ridurre la spesa in settori che la propaganda a chiacchiere dichiara prioritari.
Pensiamo solo all’abolizione del bonus bebè, per il quale lo stesso Governo dichiara la volontà di presentare un emendamento reintroduttivo.
In pratica da una parte si elimina e, quando la notizia viene divulgata, dall’altra si dice che si è trattato di un errore (la solita manina che a volte toglie, a volte mette, altre ancora dimentica di aggiungere?); tutto questo sta diventando metodico, una sorta di gioco delle tre carte che alla fine, nella confusione, qualche danno lo produrrà.
Perché ormai è difficile tenere il conto di tutti questi emendamenti o miglioramenti che il Parlamento, a detta della maggioranza, potrà apportare (dice niente il condono per gli abusi di Ischia nel decreto salva Genova? Si è vista l’accoglienza per gli emendamenti volti a rendere il condono meno indecente), salvo magari all’ultimo minuto porre la fiducia per eccesso di emendamenti o per urgenze.
La reazione europea non si è fatta attendere, con due Paesi (Austria e Olanda) che hanno immediatamente chiesto di aprire la procedura di infrazione.
Il 21 novembre la Commissione potrebbe esprimersi, dichiarando chiusa la fase di negoziazione e presentando l’opinione definitiva sulla manovra. Entro metà gennaio potrà essere emessa una raccomandazione, con l’indicazione delle misure correttive che l’Italia dovrebbe promuovere. Se si persistesse a non dare seguito alle sollecitazioni della Commissione, il 22 gennaio verrebbe formalizzata la procedura di infrazione per eccesso di debito.
Il che comporterebbe, oltre a possibili sanzioni pecuniarie, una sorta di commissariamento/monitoraggio sulle manovre da porre in essere per rientrare dal debito eccessivo, che nel nostro caso supera il 130% del PIL, quando il limite massimo consentito è del 60%.
Un processo molto lungo e potenzialmente doloroso, che rischia di accentuare il rancore dei cittadini italiani verso le istituzioni europee (effetto forse auspicato, in funzione delle prossime elezioni continentali).
L’alternativa per un recupero in extremis potrebbe essere (come da più parti si paventa) l’introduzione di una patrimoniale a sorpresa, soluzione che però non sembra perseguibile in concreto: assolutamente indigeribile per la Lega che vedrebbe crollare il proprio consenso (l’unica cosa a cui tiene) in poche ore, visto l’elettorato di riferimento.
Forse rimarrebbe allora solo il ricorso alla clausola di salvaguardia già prevista dal precedente Governo, con lo svincolo delle somme stanziate per il mantenimento del livello odierno dell’Iva: oltre 12 miliardi che consentirebbero di rientrare nei parametri di deficit.
Il conseguente aumento Iva sarebbe assimilabile a una flat tax, andando a colpire tutti indiscriminatamente con la medesima aliquota, anche se con un peso relativo maggiore sui redditi più bassi.
In più si potrebbe, con spregiudicata mossa propagandistica, provare a scaricarne gli effetti su chi c’era prima, o almeno buttarla in confusione.
Meglio di così…