Tarallo se ne stava appoggiato alla ringhiera del balconcino
della stanza da letto del Professor Cervellenstein e guardava fuori, cercando un senso alla notte.
Gli echi di discorsi, di risate, di mezze risate e lo schiocco rude di qualche colpo di tosse di stagione, gli arrivavano attutiti.
La camera privata di Cervellenstein chiudeva infatti il percorso di un lungo corridoio, il cui lato destro era ingentilito da una libreria che lo accompagnava per tutta la sua metratura, risultando quindi quell’ambiente di sbocco in una posizione appartata rispetto alla sala, alla cucina ed alle parti, per così dire, sociali, dell’appartamento.
Il letto del Professore, approdo inevitabile di tante vittime, mature e piacenti, della sua non comune presa seduttiva, era sterminato: un talamo imperiale, sormontato da un enorme quadro che mostrava Freud intento a psicoanalizzare una giovane Raffaella Carrà dei tempi del Tuca Tuca.
Il grande dipinto era opera di un suo paziente pittore, affetto da un micidiale cocktail di idiosincrasie, inevitabilmente pittoresche si potrebbero definire, e testimoniava la gratitudine dell’artista, scattata nel momento in cui era riuscito per la prima volta a sopportare che un barista scaldasse un bricco di latte col rumoroso beccuccio a vapore della macchina del caffè, senza usargli esagerata violenza, come era puntualmente capitato fino a quel momento in più di un locale pubblico.
L’uomo aveva scontato diversi anni di carcere e figurava anche sulla lista nera dell’AIB, l’Associazione Italiana Baristi, il che implicava che per anni questi professionisti, per ritorsione, si erano rifiutati di servirgli i succhi di frutta alla pesca piperita, di cui Omar Tressette, questo era il nome del pittore, era avidissimo.
Tarallo aveva ripensato a quelle storie quando aveva piazzato il suo cappotto e quello di Consuelo insieme agli altri, ammucchiati uno sull’altro sul lettone di Cervellenstein.
Si era riunito infatti in quella casa accogliente tutto il loro strambo gruppo di amici, più qualche buon conoscente dello psicologo, tipi del calibro, appunto, di Omar Tressette, che avevano superato con esiti esaltanti il test che ne attestava la personalità disturbata.
Stavano insieme in quel fortilizio, unendo le loro bizzarrie per sfuggire tutti insieme ai mostri di Capodanno.
Non avevano organizzato una vera e propria cena, ma una degustazione di dolci di provenienza varia.
Il padrone di casa, che aveva solide relazioni con gli abitanti del ghetto di Roma, aveva reperito una straordinaria “cassola”.
Questo dolce è frutto di una buonissima ricetta della tradizione ebraico romanesca ed il suo ingrediente principale è la ricotta romana.
È una ricetta dei tempi passati, e non molti la conoscono, ma il Professore sapeva a chi chiederla e l’aveva naturalmente ricevuta.
Abdhulafiah e Amid il falsario, avevano fatto preparare alla cugina di quest’ultimo il kodrit kadir, un dolce arabo composto da tre strati: una base di torta al cioccolato, un budino con uova e latte e uno strato leggero di caramello.
Consuelo a suo tempo era stata la prima nata dell’anno nella sua città.
Era naturalmente una bambina dalla bellezza sconvolgente che venne subito fotografata e messa sul giornali.
Festeggiava dunque anche il suo compleanno e aveva portato la sua torta, una meravigliosa millefoglie su cui aveva piazzato le candeline d’ordinanza.
Tra la rumorosa incredulità di alcuni dei presenti, ma non certo di tutti i commensali, molti dei quali conoscevano i suoi poteri, Consuelo le aveva accese con un sorriso.
Tarallo guardandola venne attaccato da una delle sue tipiche crisi di commozione, un surplus emotivo che gli riempì gli occhi di lacrime.
Era così coinvolto da quello che vedeva e così innamorato, che per togliersi dall’imbarazzo di farsi vedere allo stato liquido e per ritrovare un provvidenziale sorriso maligno, dovette pensare in fretta a Frangiflutti, il direttore del suo giornale, che era stato costretto a trascorrere il Capodanno insieme con la Proprietà del suo fogliaccio nella sede tagika della rivista “Il Coraggio del Rifiuto”, un palazzo sfarzoso oltre ogni immaginazione, costruito tuttavia al centro di un’immane discarica sorta ai margini della capitale Dušanbe.
Cervellenstein sgranocchiava gli incredibili datteri di Amid, dolcissimi, e lanciava sguardi di miele a Miriam, una con la quale sembrava far sul serio stavolta.
Era già la seconda volta che si frequentavano, un record per un tipo incostante come l’illustre psicologo.
Del resto Miriam si era rivelata pane per i suoi denti: faceva l’arredatrice ed era quindi una donna dalla immane forza mentale.
Non era semplice quindi per Cervellenstein misurarsi con una che riusciva a persuadere ricche signore a demolire completamente casa per farne un immenso open space all’interno del quale si poteva girare con una minicar elettrica, e a mettervi al centro la vasca per i coccodrilli!
La mezzanotte, rivelata dalla tradizionale salva di botti, aveva sorpreso la bella compagnia mentre ascoltava rapita Omar Tressette raccontare delle sue idiosincrasie spettacolari, vere e proprie falle che si aprivano nella sua testa balzana, alcune delle quali Cervellenstein era riuscito a tappare. Quella che al momento destava le maggiori preoccupazioni era una violenta intolleranza di natura liturgica.
Tressette infatti era un frequentatore seriale di messe domenicali. Per lui, che si dichiarava “agnostico come un tortello di zucca”, assistere alla messa domenicale, anzi, al maggior numero di messe domenicali possibile, era un fatto compulsivo, non riusciva proprio a farne a meno.
Era divenuto una specie di collezionista di benedizioni di cui poi non sapeva che fare.
Una volta entrato si sedeva e se ne stava lì buono buono, indifferente alla cerimonia.
Alzava lo sguardo verso gli alti soffitti delle chiese, perquisiva con lo sguardo del rapace prima dei pasti, le loro cappelle laterali, ricche di stucchi, di affreschi, di dorature, di quadri e altari, e taceva.
Tutto insomma filava liscio fino a quando il sacerdote non pronunciava le fatidiche parole: “Scambiatevi un segno di pace”.
Immediatamente il poveretto veniva aggredito dalla mesta cordialità dei devoti, accerchiato da mani che gli si offrivano, che cercavano di afferrare le sue, di visi che gli mostravano un sorriso spento, ma per lui tutt’altro che rassicurante.
A quel punto Tressette usciva di testa: pur ristretto dal lungo banco, faceva balzi in ogni direzione, come a proteggersi da quegli aggressivi assalti di pace, e strillava:
“Non mi toocchi! Non vi permettete di toccarmi, capitooo! Non mi toccate cazzoooo!!”.
E spostando i banchi rumorosamente e facendo cadere i messali, fuggiva correndo via dalla chiesa.
La fine del suo racconto coincise con l’echeggiare nel quartiere del primo, tremendo botto.
Charcot, l’opulento gattone di Cervellenstein, fuggì a razzo nel suo rifugio antiatomico, posto sotto il lettone del padrone e a quel punto tutti, brevemente, si scambiarono auguri, brindisi e baci.
Tarallo che ancora era turbato dal flusso d’amore che lo attraversava, si era staccato per un momento dalla stramba compagnia, rifugiandosi su quel balcone.
L’ultima eco dei botti vibrava nella molle umidità della notte.
Lallo spingeva lo sguardo nelle nebbie, sparse dense nel cielo notturno, lo portava oltre le luci delle strade, oltre gli interni delle case vicine che attraverso finestre aperte vedeva affollate di gente che si abbracciava, beveva e rideva, talvolta sgangheratamente.
In un appartamento del palazzo antistante, al quarto piano, un gruppo di ottuagenari e di anziane signore agghindate, più rubizze di un barattolo di conserva, stava facendo il trenino brasiliano.
Sembravano ossessi al rallentatore, in preda ad un divertimento funebre. Tarallo allora si spinse a guardare più lontano che gli fosse possibile e trovò pace.
Pensava alla sua Consuelo, insperato miracolo nella sua vita dopo anni e anni di muta adorazione. “Il tempo nega e il tempo dà”, pensò, intenerendosi di nuovo.
I suoi occhi, scavalcando i panorami urbani, cercavano ormai nell’orizzonte inchiostrato di nero uno sbocco ai sentimenti che lo pressavano accarezzandolo.
Si chiese perché le grandi gioie, percorrendo un itinerario dolce nella mappa ignota delle emozioni, vadano spesso a invadere il regno delle malinconie, dandoci sensazioni intrecciate, sfumate: dolci e un pizzico amare, come certi piatti di moda.
Una terrificante esplosione spezzò il corso delle sue riflessioni: altro che un petardo era stato! “Deficienti” pensò, guardando stormi di uccelli fuggire atterriti, e fu a quel punto che sentì sulla spalla il tocco lieve della mano di Consuelo. La ragazza gli sorrise e più di una nebbia si diradò.
“E se ce ne andassimo a fare un giro in Portogallo?” disse dolcissima l’oggetto del suo amore.
“In Portogallo? – replicò Tarallo, sorpreso – Perché in Portogallo?”.
“Mah, non so bene, – disse ancora Consuelo – credo che sia un bel posto, con tantissime cose belle da vedere, forse più tranquillo e meno feroce di qui, un posto in cui so che si trova lavoro più facilmente: è un luogo in cui si potrebbe addirittura andare a vivere”.
Lallo pensò che l’avrebbe seguita ovunque e che perfino la bolgia primordiale della miniera d’oro di Sierra Pelada in Brasile gli sarebbe apparsa meno disumana in sua compagnia.
Le prese la mano e mormorò: “Perché no? Pensiamoci, in prospettiva potrebbe anche essere”.
E subito immaginò la redazione di un giornale a Oporto o Coimbra, con un più sopportabile Frangifluttos Da Silva a dirigerla. Rientrarono in casa in silenzio, sorridendo, mano nella mano, tornando verso i loro amici.
Sentirono la voce di velluto di Miriam sussurrare a Omar Tressette:
“Non voglio sostituirmi come terapeuta al nostro Illustre Professore, ma lei Omar, ha mai pensato di combattere le sue idiosincrasie prendendole di petto?
Quella della chiesa per esempio: perché non mettersi in casa una autentica panca di chiesa, lunga, elegante, tutta di vero legno, con tanto di targa della famiglia donatrice?
Io, tra l’altro, ho un amico che ne vende di bellissime, tutte provenienti dalla sconsacrazione della Chiesetta di San Sassofono Martire a Montecuccodisotto, fatta chiudere per probabile eresia.
Piazzarla in soggiorno intanto la abituerebbe al pensiero del culto, a quello di quel momento, per lei così delicato, del rito, capisce?
Potrebbe allenarcisi con un amico che fa da prete e che mille volte le dice del segno di pace, no?
E poi una panca di quelle arreda in un modo straordinario, mi creda…”