“Si può morire facendo il presidente/ si può morire scavando una miniera/ si può morire d’infarto all’osteria/ o per vendetta di chi non ha niente./
/ Si può morire uccisi da un regime/ si può morire schiacciati sotto il fango/ si può morire attraversando il Congo/ o lavorando in alto sul cantiere.”
“I Gufi si sciolsero nel 1969 perchè era agosto e faceva caldo…”. con questa battuta Roberto Brivio, nel 1993, ironizzava sulla fine di questo gruppo di cabaret che ha segnato la storia del teatro leggero italiano, spianando la strada al folk revival ed al genere demenziale degli Skiantos e di Elio e le Storie Tese.
“Iniziai scrivendo delle canzoni in siculo maccheronico– raccontava Brivio- per poi specializzarmi nel genere macabro con pezzi come “Vorrei tanto suicidarmi” o “Quando sarò morto”. La mia “Il cimitero è una cosa meravigliosa”, tradotta in inglese, è stata adottata da un’impresa di pompe funebri americana”.
Ma le canzoni macabre non erano solo una goliardata: nei primi anni Sessanta la radiotelevisione italiana operava una severa cernita degli argomenti da diffondere e così, fra le righe, i Gufi trovarono il modo di ironizzare e demitizzare subito il tabù ultimo: quello della morte, ottimo naturalmente anche per lanciar frecciate al clero che tratta da sempre l’argomento in modo esclusivo.
“È la tua nuova casa di riposo/ bisogna entrarci calmi col sorriso/ perché di lì si va in paradiso/ sol chi ha peccato può finire ancor più giù./
/ […] È confortevole, è tranquillissimo, è curatissimo, il cimiter!”
Il nero degli abiti di Brivio passerà a tutti e quattro i Gufi, ma in verità al cabaret quel colore giungeva dalla storia: è un fatto accertato che fosse già stato adottato dagli chansonniers francesi dopo la disfatta di Waterloo nel 1815!
“Allora, parlo del 1962, era difficile fare accettare alla gente questo genere di canzoni, per cui chiamai Gianni Magni, con cui avevo lavorato nei programmi di Mago Zurlì, perché mimandole le addolcisse un po’” continuava Brivio.
Ai due si unirono il jazzista Lino Patruno e Nanni Svampa, prima per formare i “Pipistrani”, per poi, nel 1964, debuttare al Derby come Gufi.
A queste note si aggiunga che l’ambiente culturale milanese del tempo era vivo e stimolante: negli stessi anni si muovevano su scena altri artisti che affondavano nella cultura popolare la loro ragion d’essere: si pensi, ad esempio, a Dario Fo ed Enzo Jannacci, presto affiancati da Giorgio Gaber, solo per citare i nomi che divennero più famosi.
I Gufi sono stati dunque un gruppo milanese e il loro genere musicale viene oggi catalogato come un mix di cabaret, di teatro e di canzone popolare. Il gruppo era un quartetto e, nonostante le litigate, i quattro s’intendevano benissimo, tanto che la formazione decollò felicemente nel panorama italiano. Al loro interno ognuno aveva un ruolo: Nanni Svampa era detto il cantastorie, poiché cantava di Milano; Lino Patruno il cantamusico, perché era di estrazione jazzista; Gianni Magni era detto il cantamimo, poiché discendeva da una famiglia circense ed era dotato di un’ottima mimica; Enrico Brivio era definito il cantamacabro, anche se era un grande appassionato di operette.
Il luogo dove si esibirono fin dal 1964, un locale qualificato come cabaret vero e proprio, fu il Derby Club, luogo di ritrovo dei maggiori artisti del capoluogo lombardo, nel quale avevano suonato jazzisti del calibro di John Coltrane e Quincy Jones.
Al gruppo non mancò l’occasione, tramite le loro canzoni, di fare satira politica, lanciando anche testi irriverenti o considerati poco ortodossi per l’epoca.
Alla fine degli anni Sessanta il loro successo era all’apice, tuttavia, come spesso accade, all’interno del gruppo si crearono malumori e incomprensioni, sino a quando Magni decise di abbandonare il quartetto.
Fu la rete televisiva privata Antenna Tre Lombardia, nel 1981, a riunire i quattro in una trasmissione dal titolo “Meglio Gufi che mai”, con ben quaranta puntate, dove i Gufi riproponevano i loro vari successi.
Si è detto che i Gufi furono tra i primi a valorizzare la canzone popolare, che nel loro repertorio si mischiò con canzoni macabre e d’epoca, nonsense e satira sociale. Quest’ultima costituiva la parte più cospicua delle loro canzoni, con spettacoli, come “Non spingete, scappiamo anche noi” e canzoni, come “Io vado in banca”, di satira politica che loro furono i primi a far passare attraverso le maglie strettissime della censura della Rai di Ettore Bernabei, che pure li aveva scritturati.
Ad un certo punto, usando l’escamotage del dialetto, osarono portare sotto i riflettori di mamma Rai alcune canzoni di Brassens, come “La prima tôsa” (La première fille), che narrava non del romantico primo amore, come il titolo farebbe intendere, ma di un primo rapporto sessuale vero e proprio, tra l’altro consumato con una prostituta.
Va ricordato però che nella prima parte dei pruriginosi anni Sessanta, la televisione mandava in onda, oltre che il teatro, i concerti, il cabaret e altri spettacoli non proprio nazionalpopolari, come si direbbe oggi, forse perchè allora i media dovevano avere anche una funzione educativa oltre a quella di svago. Va ricordato che questi erano anche gli anni di Alberto Manzi e della campagna contro l’analfabetismo.
I Gufi si scoprirono anche profetici con canzoni come “Socialista che va a Roma”, ad esempio.
“Rifacendoci a “Pellegrin che vien da Roma” – raccontava Svampa – si ironizzava sulla posizione dei socialisti che entravano e uscivano dal governo. I fatti ci hanno dato ragione, anche se è triste ammettere che, mentre noi ci sforzavamo a fare un discorso sulla cultura di una città, gli altri pensavano solo a rubare…”
Nel loro repertorio c’erano anche pezzi assai corrosivi che avevano come bersaglio la classe politica dell’epoca, il clero, la piccola borghesia e i finti miti dell’Italietta: famosa ancor oggi è la “Badoglieide”, che andava a scavare in quello che gli italiani facevano finta di non ricordare a proposito del Ventennio.
Per tutta la loro storia I Gufi alternarono gli spettacoli in piccoli locali notturni con quelli in teatro. Al loro primo spettacolo in teatro, che precedette l’esperienza al Derby, I Gufi avevano cantato due secoli di Resistenza. L’album relativo seguì di lì a pochi mesi e s’intitolava appunto “I Gufi cantano due secoli di Resistenza”. Per questo lavoro il gruppo attinse alle ricerche effettuate sino a quel momento da Svampa e da Brivio sui canti anarchici dell’Ottocento e sulle canzoni della resistenza partigiana.
I quattro si divertivano, la formula funzionava, gli spettacoli teatrali si moltiplicavano e il gruppo ormai si muoveva per tutta la scena nazionale.
Con lo scoppio del Sessantotto e della protesta pacifista, i Gufi portarono a teatro il loro spettacolo più politico, un lavoro che diventò presto un trentatré giri molto venduto: “Non spingete, scappiamo anche noi”. Lo spettacolo era un sarcastico viaggio nel corso dei secoli alla ricerca di miti patriottici e militari da annientare con una loro messa in ridicolo .
Nel 1969, come si è già detto, il gruppo poi si sciolse e ognuno dei componenti proseguì la propria carriera artistica, anche se con diversi risultati.
Occorre sapere che la scenografia del cabaret, anche quando si è a teatro, è sempre scarna, essenziale e le sue occasionali ridondanze estetiche sono smaccatamente parodistiche perché le situazioni trattate debbono sembrare surreali, deliranti, opposte alla logica comune. L’ elemento non-verbale, nella loro arte, era poi decisivo: non a caso il mimo si sposa così bene al cabaret. L’improvvisazione nelle loro esibizioni era la benvenuta, e non a caso nei primi cabaret era sempre presente il jazz. Riguardo al testo invece uno dei principali fini era la dissacrazione del reale, perché nel cabaret, oltre che far ridere bisogna far pensare.
Il cabaret italiano moderno, paradossalmente, emise i primi vagiti a Parigi e parlò francese! Fu infatti all’ombra della torre Eiffel che agli inizi del 1951 si costituì e impazzò il Teatro dei Gobbi, formato dagli attori Alberto Bonucci, Vittorio Caprioli e Franca Valeri.
L’origine di quel nome era singolare perché “Gobbo” – ricorda Virginia Caprioli in un suo saggio – in gergo teatrale è un insulto che vuol dire mascalzone, disgraziato, guitto, morto di fame, era il soprannome dispregiativo con il quale si era rivolto a loro un impresario teatrale che si rifiutava di pagargli le giornate di prova e che, ovviamente piantato in asso, li aveva inseguiti per gli Champs-Elysées urlando: “Gobbi che non siete altro, gobbi maledetti!”.
Al momento di dare un nome al nuovo sodalizio Vittorio, ricordandosi dell’episodio, aveva voluto che così si chiamasse”.
Tornati in Italia, i Gobbi portarono il loro stile minimalista, caustico e paradossale, sui palcoscenici nostrani.
E in direzione analoga andava un certo Paolo Poli, che raccontava:
“Negli anni ’60 c’era un clima di rinascita del teatro minore. Accanto ai nascenti teatri stabili c’era tutta una serie di piccole platee.
Io mi misi in proprio e cominciai a produrre i miei spettacoli; all’inizio si era in tre, quattro persone, ad esempio io, una ballerina e un chitarrista.
E fu chiamato cabaret. Ma non ero io solo a farlo. Accanto a me lavorava Laura Betti, che aveva fatto musicare certe poesie di letterati come Pasolini e Moravia da autori di valore come Fiorenzo Carpi e altri.
Poi c’era Giancarlo Cobelli, che nasceva più come mimo che come cantante e ballerino, ma che aveva fatto alcune cose come protagonista con Strehler… Facevamo degli spettacoli misti, in cui si alternavano poesie e canzoni estreme – o popolari, o molto intellettuali.
In Italia accadde che certe nostre cosucce furono assorbite dalla tv per ragazzi, in particolare da Cino Tortorella, il celebre Mago Zurlì.
Sua moglie infatti, Jacqueline Perrotin, ha scritto musiche per me.”
Quando dunque iniziarono l’esperienza in teatro, i Gufi avevano già avuto dei precursori nel cabaret teatrale: Dario Fo, Giustino Durano, i mitici fratelli De Rege negli anni ‘40, e i “Gobbi”, per non parlare del padre storico di tutti, un certo Ettore Petrolini, venuto fuori troppo presto e nel periodo meno adatto.
Fu lui il trait de union fra quello che da noi era l’avanspettacolo, o varietà da caffè-concerto, ed il cabaret vero e proprio.
Petrolini, a dire il vero, non guardava solo a Parigi ma forse e soprattutto al cabaret di Weimar.
Purtroppo verso la fine degli anni Settanta iniziò in Italia il declino del cabaret italiano. Annotava Lino Patruno:
“Quando il cabaret è entrato in televisione ha sì preso il posto del varietà, ma in realtà ne è stato contaminato al punto che è diventato uno pseudo-cabaret, annacquato e volgare. Il cabaret vero forse lo farà qualcuno in qualche cantina, per conto suo”.
In verità ci saranno alcuni artisti che effettueranno una “trasmutazione” del cabaret, prendendolo cioè come punto di partenza e usandolo per aprire nuove strade, come fece Gaber col Signor G di Gaber o Cochi e Renato con la loro comicità stralunata e finto-ingenua.
Si pensi anche alla feroce sostanza di Paolo Villaggio prima di diventare Fantozzi, alla Smorfia, gruppo nel quale Troisi e Arena, oltre che nell cabaret trovavano ispirazione anche nel Caffè Chantant e nel teatro partenopeo di Viviani e Scarpetta, fino alla mai troppo rimpianta Gabriella Ferri.
Vanno ricordati anche i caustici toscanacci dei Giancattivi, il primo Carlo Verdone e tanti altri che affollarono quello straordinario periodo di grande fermento che furono gli anni Sessanta del cabaret italiano.