Costantemente tesi ad offrire ai nostri lettori spunti di riflessione o di puro godimento che tengano d’occhio la qualità del materiale presentato, siamo orgogliosi di presentarvi un’altro breve racconto, premio speciale sezione narrativa nel 2003, scritto dalla nostra Francesca Suale.
In pochi tratti impreziositi di immagini poetiche, si possono trovare suggestioni e spunti di riflessione personali. Una storia dei nostri tempi e del tempo che scorre “portandosi” via a volte proprio ciò che più conta: le nostre radici.
Siamo certi del vostro apprezzamento.
Buona lettura.
Non era che una radura nel boschetto di aceri e betulle, vi dominava una quercia, secolare.
Il tronco tortuoso gravemente inciso si snodava imponente, rigonfio di vita fino alle radici che il suolo ospitava come ne fosse avvinto, intimamente preso da un amore viscerale, percorso negli anfratti più reconditi da un’anima tortuosa che ascende al cielo solo attraverso il varco aperto dalla linfa, nel tempo di una sapiente ascesa, paziente.
Quell’essere piantato al centro della radura, saldo ancoraggio ai venti e alle tempeste, suscitava stupore, il fascino di una creatura che aveva visto bambini crescere uomini e uomini invecchiare bambini.
Vi si recava mia nonna bambina, vi si recava mia madre bambina, e bambina mi aveva sentita arrampicarmi su per il tronco, ospite della sua chioma ombrosa, tra le braccia dei suoi rami.
Non vi erano favole che non avesse udito, fantasie di cui non fosse stata complice, pleniluni che non avessero giocato tra i suoi rami screziati d’argento, quando ci riunivamo seduti in circolo, complici di un gioco fantasioso… amici, bambini, uguali, diversi, fratelli.
Finché una sera d’estate decisi che avrebbe ospitato i nostri sogni, desideri e speranze, tutti quei “quando sarò grande” che tanto ci facevano sentire l’ascesa sapiente di linfa vitale, malinconici, esuberanti, cuori sognatori.
Ciascuno di noi da allora prese a scrivere i suoi desideri che, come bandierine leggere di carta arrotolata, venivano legati con nastri colorati ai rami della quercia secolare ed esposti al vento, alle intemperie, al sole cocente, alle raffiche di pioggia: alle stagioni della vita tutte.
Secolare la quercia restava, immobile, remota, saggiamente salda, con quella ricchezza debolmente appesa ai rami, un magnifico dono da significare al cielo… e se una raffica di vento, più forte delle altre, strappava un nastro, portandosi via con sé quel desiderio custodito in un brandello di carta, allora pensavamo tutti che si trattasse di un sogno talmente bello da essere condotto in cielo, per suggerire agli angeli una piccola gioia da regalare a un uomo triste.
Sapere che qualcuno avrebbe sorriso di un nostro sogno ci rendeva commossi e fieri, che quasi non ci accorgevamo che i nostri sogni non s’avveravano e che il nostro era divenuto l’albero delle chimere, complice il vento, complici le stagioni della vita tutte.
Vi fecero il nido le allodole, vi fecero il nido i cardellini e scambiarono quei desideri, debolmente appesi ai rami, per foglie diversamente colorate, confusero i nastri per virgulti flessibili ancora giovani.
Solo la quercia sapeva che ricchezza recava al cielo, solo la quercia immobile nel tempo ci guardava crescere, ma più crescevamo più i rami si spogliavano di sogni, finché l’albero rimase nuda quercia a dominare la radura.
Passate le chimere, volate via come le allodole dal nido, l’ultimo brandello di carta si era dileguato in una raffica di vento autunnale, recando con sé colori di foglie appassite e un vago sentore di rimpianto negli occhi dei bambini cresciuti uomini malinconici, esuberanti, dai cuori sognatori.
Non fu che il ricordo a legarmi a quei rami, conducendo i miei passi dopo anni di assenza verso la radura.
Dove la quercia un tempo dominava, ora sorgeva un villaggio turistico: negozi, villette, palazzine imbiancate, pulite linde levigate.
Un ordine geometrico di figure solide, dove il boschetto era stato abbattuto dalla mano di un bambino, cresciuto uomo senza sogni.
Mani così non esitano ad estirpare per edificare, mani così non hanno mai legato chimere ai rami di una quercia secolare.
Camminai il medesimo numero di passi che conducevano al centro della radura, ma il muro di cinta di una villa, imbiancato e anch’esso tanto pulito, lindo, levigato, mi fermò.
Bastò allora che alzassi lo sguardo oltre l’imponenza di quel muro perché i rami protesi della quercia sfiorassero la mia speranza, significando al cielo che ero tornata.
L’albero delle chimere era stato imprigionato dentro la rigida geometria di un muro, ridotto a un esemplare da giardino, nella villa del bambino cresciuto uomo senza sogni, che aveva estirpato per edificare un ordine apparente nel disordine del mondo.
Non potei fare altro che arrampicarmi su quel muro stringendo nel pugno il mio foglietto di carta legato a un nastro colorato di rosso e, allungando la mano verso il ramo più lungo che quasi sporgeva oltre quella prigionia dal senso inutile, riuscii debolmente a legare l’ultimo dei desideri pensando che forse sarebbe volato via per andare ad alleviare, con la mia piccola gioia, la tristezza dell’ uomo che costruiva muri ed estirpava per edificare un ordine senza fantasia, in un mondo senza chimere.
Cara Francesca.
Mi sembra che siamo amici su queste paginette (maledette). Avevo letto qualcosa di tuo, poesie, ahime’ odio la poesia, preferisco la Parola).
Mi dispiace di non averti incontrata di persona (insieme al tuo Jack Russel).
Sei senz’altro un’anima sofferente. Chi scive poesie deve ESSERLO! Altrimenti si dedica alla botanica, al limte alla pittura es/in/pressionista astratta (come io).
Complimenti per le foto! Il testo completo non l’ho letto, non ho tempo…..:)
Ciao Walter.