Continuò così per diversi giorni l’inutile attesa, con la locandiera che arrivava puntualmente in piazza a ragguagliare su tutti gli sviluppi, ma lo straniero per lo più se ne restava chiuso nella stanza dove consumava persino i pasti, usciva solo di buon mattino che appena albeggiava, lui diceva per una salutare passeggiata e lei, la locandiera, non sapeva dove si recasse né a far cosa, certo è che per scoprirlo avrebbe dovuto pedinarlo, o come si dice in gergo poliziesco: “metterglisi alle calcagna”…
Ma ce l’avreste vista lei, una donna sola e per di più attempata, arrischiarsi in quest’impresa, e poi a quell’ora del mattino che nessuno si incontra per la via, quando il paese appena comincia a schiudersi dal sonno?
Sarebbe bastato un luogo isolato per farla sparire, ucciderla o tramortirla per derubarla… nascondere il cadavere o simulare un incidente giù dai faraglioni, un qualsiasi accidente e…
addio locandiera!
Non sarebbe stata una grave perdita per la cittadinanza, che a dirla tutta la locandiera non era simpatica a nessuno, ma il fatto è che era impensabile un delitto su quell’isola dove non erano più accaduti fatti di sangue da oltre un secolo, cioé da quando gli ultimi pirati s’erano convertiti a una vita onesta e timorata.
Dopo aver fatto razzia di tutto ed essersi impadroniti dell’isola, cacciando via gli oriundi, i pirati, antenati degli attuali abitanti dell’isola, avevano trasformato i loro vascelli in pescherecci, s’erano per così dire fatti una famiglia, e le successive generazioni erano divenute pacifiche e stanziali.
Pressapoco queste erano le piratesche origini che accomunavano gli isolani, di cui poco si parlava e ancora di meno si sapeva, poiché la natura scontrosa del loro carattere li rendeva restii a raccontare di questo e di altre leggende che s’erano diffuse attorno all’isola.
Tornando alla locandiera, tanto fece e tanto enfatizzò, mimando addirittura quel delitto –il suo– che riuscì a insinuare nell’animo degli isolani il dubbio, vago atroce e paventato, che costui –lo straniero– altri non fosse che un malintenzionato, un galeotto in fuga, un serial killer, un sicario sbarcato per preparare un’azione delittuosa…
mandato da chi?
Non si sapeva… forse lavorava in proprio, forse per la mala organizzata, magari era soltanto un folle, un esaltato, un terrorista, un falsario, un bombarolo di quelli che si fanno saltare in aria quando meno te l’aspetti con una valigia bomba. E perché non una valigetta di pelle nera, mediamente logora, con la serratura?
Per dirla in una parola sola:
sospetta.
In tutto questo parapiglia l’unica che avrebbe dovuto avercela con lo straniero era la bimba del castello di sabbia, che ogni mattina da diversi mesi si adoperava in quell’occupazione con pazienza e ostinazione, ma tutte le volte un’onda improvvisa, un temporale a ciel sereno, o una tempesta di vento di quelle che sollevano la sabbia come nel deserto, giungeva a distruggere il suo lavoro.
In ultimo ci si era messo pure lo straniero che sul più bello aveva travolto tutto senza nemmeno farci caso, chiedere scusa o darle una mano a recuperare tra le rovine una parvenza di bastione, un ponte levatoio o, che so io, anche un accenno di mura.
La bambina, dopo il malumore del momento, non aveva serbato alcun rancore e l’indomani mattina era tornata in spiaggia, sicura e baldanzosa, con il secchiello rosso e la paletta.
Così, vuoi per un caso o per un altro, chi ti rivede a passeggiare?
Un uomo con un soprabito scuro e una valigetta nera, le scarpe decisamente meno tirate a lucido di prima, già tutte screziate di rena, i capelli al vento, l’aria assorta e un che di triste – amaro nello sguardo.
Ci mise un po’ a realizzare che si trattava del signore che il giorno prima aveva distrutto il suo lavoro e così, con fare minaccioso, gli si parò davanti con la paletta in mano, frapponendosi tra quello e il suo castello, e con un piglio altero e tutta l’aria di volergli assestare un severo rimprovero, gli intimò:
“alt, lavori in corso!”
Lo straniero trasalì, la guardò e quasi gli scappò da ridere – perché naturalmente si trattenne – poi con un mezzo inchino fece ammenda e non mancò di complimentarsi per la bellezza dell’architettura, la robustezza delle mura, l’armonia delle torri e dei bastioni.
La bambina soddisfatta disse che era presto per decidere com’era venuto, l’opera era incompiuta, mancava ancora qualcosa ma non sapeva cosa, e avrebbe scavato un fossato e costruito poi un ponte levatoio che neanche un architetto avrebbe saputo fare di meglio.
Insomma, c’era molto ma molto da fare e, se pure non ci fosse stato molto da fare, sarebbe tornata in spiaggia, perché un castello si costruisce in fretta ma altrettanto in fretta va in rovina, ci basta poco e ti ritrovi a dovere fare tutto dapprincipio.
Lo straniero rimase pensoso, le scarpe immerse per metà nella rena, intanto la bambina correva e riempiva il secchiello d’acqua, andava, tornava, bagnava la sabbia e la plasmava con le manine paffute, pur tuttavia graziose, e sempre con l’aria di avere da compiere una missione, propria di chi assolve un compito pensando che l’importante sia finire eppure, quando ci sta quasi, si accorge tutto a un tratto che è molto più importante saper ricominciare che finire.
Nell’osservarla lo straniero pensava queste cose e ne provava un certo giovamento, una specie di sollievo, tanto che da allora in poi gli piacque tornare ogni mattina sulla spiaggia solo per contemplare da una certa distanza, con la dovuta discrezione, il miracolo di quella ricostruzione.
Intanto le notti di plenilunio trascorrevano nell’inutile attesa che lo straniero si mostrasse, e poi, quando la luna divenne calante, l’isola parve rassegnarsi a una presenza che poteva considerarsi quasi assenza e, se non fosse stato per l’ombra minacciosa d’un omicidio, anche se solo ventilato, gli abitanti avrebbero potuto dormire sonni tranquilli… ma la locandiera tanto ci godeva a seminare il panico e il sospetto, e quando qualcuno l’accusò, perché comunque ospitava lo straniero e s’intascava il suo denaro, ella gridò che lo faceva solo per dovere e si accalorò sostenendo di correre un grave pericolo sacrificandosi nell’interesse del paese, e che se non l’avesse alloggiato – essendo le sue stanze tutte libere, data la penuria di turisti – quello si sarebbe insospettito con chissà quali conseguenze.
In breve lei era l’unica a rischiare e ci sarebbe voluto ben altro che quel denaro per ricompensarla quando avesse dato l’allarme, non appena fiutato il pericolo.
E così fece.
La solita vita ritirata, la solita passeggiata mattutina, finché la vecchia impicciona notò la sabbia sul tappeto nell’atrio dell’albergo.
La sua era una modesta pensione, anzi una locanda, ma quanto a pulizia teneva a precisare che ci si sarebbe potuti specchiare persino sull’impiantito, tanto da poterci anche mangiare, sicché la rena sul tappeto non poteva passare inosservata.
Due belle impronte in vista.
Non v’era più dubbio, lo straniero all’alba se ne andava in spiaggia… ma a fare cosa?
Certamente attendeva lo sbarco dei suoi complici, anche se non poteva affermarlo con certezza, perché avrebbe dovuto seguirlo, anzi precisamente pedinarlo (come si dice in gergo poliziesco)…
ma ce l’avreste vista voi una vecchia tener dietro a un tale pezzo d’uomo?
E poi a quell’ora che le vie erano deserte e bastava un posto isolato e … zac!
Addio locandiera!
Si erano fatti avvezzi gli isolani a simili racconti mimati enfatizzando, ciò nonostante la paura si faceva breccia, per quanto si sforzassero di mantenere la calma, tanto aborrivano l’idea della violenza, ma capita che a furia di ascoltare infauste predizioni, per quanto assurde e immotivate siano, qualcuno, che pure non ci crede, vuoi per uno scrupolo, o per prudenza, o per cavarsi ogni remora, finisca comunque per crederci, suggestionato da una paura atavica nell’uomo, che dicono sempre sia pronta a riprendere una sembianza…
e meglio di quella di uno straniero quale?
Ciò che è consueto non spaventa, è l’abitudine che fa la differenza, basta però una faccia nuova, un abito diverso, una valigetta, persino un modo di guardare, a rinverdire l’antica questione della difesa strenua del proprio territorio, che poi è lo stesso che sorvegliare i confini alla propria abitudine. Abituarsi ha richiesto già uno sforzo enorme, ma capirsi è pure peggio, e allora… .
Quando il paese prese la decisione, ufficialmente lo fece in nome delle abitudini, della vita tranquilla di un tempo, della necessità di scongiurare un male peggiore, in testa la locandiera col forcone, appresso tutti gli altri armati di bastoni, zappe, vanghe, pale.
Un esercito di paesani inferociti e certi d’avere ragioni da vendere, senza saperle punto enunciare se non ricorrendo a parole quali: contro l’invasione, ognuno a casa sua, difendiamo la nostra pace e la nostra isola… prima gli isolani!
Erano tutte parole sconnesse eppure legate insieme da un solo filo di paura,
uno straniero porta cattive nuove, altri costumi, sicuramente violenza e sprezzo delle nostre regole, malattie e calamità, si mangia il nostro pane, quindi: carestia.
E poi dopo di lui ne sarebbero giunti tanti e tanti ancora, tutti con quella valigetta (sospetta) e quelle scarpe di città.
Giunsero alla spiaggia dove l’uomo pericoloso (secondo l’opinione diffusasi tanto in fretta) sedeva sulla duna guardando verso il mare, un po’ più giù, dove una ragazzina, vicino a un castello di sabbia, sedeva pronta a ricostruire ogni tentativo d’erosione delle onde che lambivano i contorni della sua costruzione, perfetta come può sembrarlo un equilibrio, ma talmente fragile da richiedere un continuo cambiamento per adattarsi e superare le avversità.
Tutti s’accorsero così che quel castello mutava ogni momento forma, che l’erosione comportava compromessi, l’adattamento della struttura alla mutevolezza delle maree, al perseverare dell’incrinatura che ogni onda gettava sulla sua superficie e che questa era l’unica possibilità al perpetuarsi di una convivenza tra la sabbia e il mare.
Qualche forcone cadde di mano, le pale pure… un filo di vergogna si fece strada persino tra i più animosi, il senso del ridicolo serpeggio invece, insieme alla vergogna, solo nella coscienza dei più intelligenti.
Eppure la locandiera non si capacitava e indicava ancora quella valigetta che, di lì a poco, sarebbe certamente esplosa.
A quel punto lo straniero si voltò e, con un sorriso semi-amaro, con gesto improvviso, fece scattare la serratura.
Trasalì la locandiera e un fremito di paura percorse gli astanti.
Lo straniero allora trasse fuori dalla valigetta un manoscritto di pagine tutte bianche, immacolate, solo sul frontespizio appariva nitido in corsivo:
Vivere è costruire castelli di sabbia
e sotto, scritta di suo pugno, questa frase:
E’ proprio dove l’erosione sembra avere tolto forma all’esistenza
che tutto si trasforma e si rafforza il senso della Vita.
Vivere significa cambiare, se non lo facciamo noi, lo farà la vita che ci pone davanti scelte, modifiche cvhe non sempre sappiamo comprendere o accettare. Chi non accetta il cambiare del tempo, delle stagioni o semplicemente lavoro, negozio o strada vive rinchiuso nelle sue paure del nuovo, quindi della vita e di se stesso. Chi non ha consapevolezza delle sue capacità ha paura di tutto e vorrebbe rinchiudere il tutto in una non vita immutata e fotografata. Se l’uomo non avesse sperimentato, osato o vissuto non avrebbe scoperto. La paura dello straniero è semplicemente il riflesso delle proprie paure, viltà, colpe degli errori che non si sono metabolizzati. I bambini per natura sono curiosi e sperimentano quindi non hanno paura del nuovo. Anzi ne accettano pure il male o il dolore o la delusione proprio perché stanno imparando a vivere. Il castello rappresenta un progetto di vita che, crescendo, diventerà più forte, stabile e sicuro, ma senza abbandonare il gioco o la curiosità e la capacità di rischiare che un’onda o qualche altre elemento ce lo possa mettere in discussione o distruggerlo. Sapendo che il giorno dopo il sogno e il progetto ricominceranno più forti e concreti