Cos’è la musica concentrazionaria?
A questa domanda si può rispondere che è quella musica che fu espressione della creatività in condizioni estreme, che fu composta o eseguita cioè a dispetto delle restrizioni fisiche, della violenza anche psicologica e degli stenti che erano caratteristiche tipiche dell’universo concentrazionario.
La musica divenne così l’espressione ultima della dignità umana.
Credo sia impossibile anche solo immaginare condizioni più estreme di quelle di un campo di concentramento come quello di Theresienstadt, ad esempio, una piccola località rurale nei pressi di Praga.
Qui fu deportato Viktor Ullmann nel 1942, prima di essere poi spostato ad Auschwitz dove fu assassinato in una camera a gas, nel 1944.
Theresienstatd (Terezín) costituì una delle più grandi e tristemente famose mistificazioni del regime nazista nei confronti della comunità internazionale, perché questo lager fu fatto passare per una specie di “ghetto felice” per una “città degli artisti”.
Nel 1944 un’ispezione della Croce Rossa non diede esiti negativi, perché l’amministrazione del campo riuscì in poco tempo a trasformare l’orribile luogo di morte e orrore in una virtuale cittadina modello, in cui addirittura si poteva assistere all’esecuzione dell’opera “Brundibar”, scritta dal compositore Hans Krása.
Col tempo ebbe a finire la suprema ipocrisia di Theresienstadt, luogo in cui dal febbraio del 1942 all’ottobre del ’44 avevano avuto luogo seminari e conferenze sulla musica da camera, produzioni e rappresentazioni teatrali, operistiche e concertistiche.
Il campo nel quale la propaganda nazista di Goebbels aveva girato il documentario dal titolo “Il Führer dona una città agli ebrei”, girato con la regia di un ebreo del ghetto, in realtà, nella sua breve esistenza, mandò 87.000 persone alle camere a gas, conquistandosi il titolo di anticamera di Auschwitz e sterminandone direttamente, in loco, altre 33.430 morte di stenti, fame e malattie.
Dei 15.000 bambini che passarono attraverso Theresienstadt, soltanto 93 sopravvissero.
Alcuni dei compositori più dotati d’Europa furono rinchiusi a Theresienstadt: i compositori Pavel Haas, Gideon Klein, Hans Krasa, Viktor Ullmann e il direttore d’orchestra Karel Ancerl.
Ci sono opere che è impossibile dissociare dalla loro epoca e dal destino dei loro creatori, “Der Kaiser von Atlantis” di Viktor Ullmann è certamente una di queste. Scritta e mai messa in scena nel campo di Terezin, quest’opera è un grido possente, venuto dal cuore dell’inferno, un grido per la pace e per la fratellanza.
Il libretto era di Peter Kien, anch’egli prigioniero a Terezin e possedeva la poesia di certi incubi alla Kubin.
Opera visionaria, il “Kaiser von Atlantis” era ricco di citazioni e di rimandi che ai prigionieri di Theresienstadt suonavano di esplicita denuncia, come ad esempio l’accenno alla Sinfonia in Do minore op. 27 del compositore ceco Josef Suk, trasmessa dalla radio cecoslovacca dopo la morte del suo primo Presidente della Repubblica, Masaryk, due anni prima dell’invasione di Praga da parte dei nazisti o come la dissacrante parodia dell’inno nazionale tedesco “Deutschland über alles”.
Discepolo di Schönberg, amico di Berg e ammiratore di Mahler, Viktor Ullmann produsse durante il proprio soggiorno a Tèrezin, durato venticinque mesi, altrettanti lavori, dei quali ne sopravvissero 23.
Sono sonate per pianoforte, quartetti d’archi, interi cicli vocali, romanze da camera isolate, l’abbozzo di un’opera su Giovanna d’Arco e l’opera già citata, “L’imperatore di Atlantide”, (ossia l’abdicazione della morte).
Opera infarcita di metafore dal sapore espressionista “Der Kaiser von Atlantis” era la rappresentazione allegorica del combattimento tra il Kaiser Overall (certamente rappresentava Hitler, ma si riferiva anche ad ogni altro potere dittatoriale) e la Morte, protettrice della Vita.
La storia iniziava con l’altoparlante che rendeva noto che i vivi non ridevano più e i morenti non morivano più: era iniziata una grande guerra di tutti contro tutti, proclamata dall’imperatore Overall.
Harlekin, Arlecchino, incarnazione della vita, era disperato perché vedeva solo orrore intorno a sé. Avrebbe voluto morire ma la morte non glielo permetteva: sentendosi anzi strumentalizzata dal conflitto, essa non faceva più morire nessuno, né in guerra, né per malattia.
E mentre Harlekin parlava della sua misera vita, priva di felicità e di speranza, Der Tod (la Morte) gli si avvicinava e assieme, seduti su una panca, si rammaricavano della loro cupa esistenza, un mondo in cui nessuno dei due trovava più posto.
Arlecchino avrebbe voluto farla finita, ma la decisione della Morte rendeva impossibile il suo insano desiderio e allora lei provava a spiegare quanto più tragica fosse la sua vita, sfinita da un millenario mestiere ed estranea ad un mondo in cui gli uomini non la rispettavano più.
La vicenda giocava sul paradosso del rifiuto della Morte ad uccidere: “C’è un epidemia di vita”, annunciava l’altoparlante all’imperatore, in uno dei dialoghi deliranti tra il Kaiser e l’altoparlante, che alludevano alla estraniazione da ogni umanità da parte dei dittatori.
Questa battaglia non troverà conclusione finché non si deciderà che il primo a morire sia proprio l’imperatore, lasciando così la Morte soddisfatta e pronta a riprendere la sua opera d’equilibrio dell’ordine naturale delle cose.
Molte interpretazioni hanno fatto notare come fosse ineluttabile l’imposizione della Morte all’Imperatore affinché lui fosse il primo a morire, mentre altre accennano ad una scelta consapevole con cui, “prodigiosamente, l’Imperatore si avvedeva dei propri crimini” e per “permettere alla Morte di salvare milioni di persone dall’agonia di una vita senza morte… si immolava come prima vittima”.
Purtroppo il finale dell’opera ci è arrivato in varie versioni, e per di più incomplete, così che non sapremo mai quali fossero le ultime volontà del compositore e del librettista.
Ullmann scrisse una musica ricca di citazioni che vanno da Brahms, a Mahler, fino ad Hindemith, citando persino Bach.
Ma la sua struttura timbrica era indissolubilmente legata alle sonorità del Novecento tedesco: su tutto troneggiava lo stile espressionista, ed in particolare lo spirito marcatamente sarcastico di Kurt Weill, proponendo una orchestrazione che, per quanto compresa nei limiti oggettivi delle disponibilità di un lager, era ricca e vicina ai suoi tempi.
Sebbene si fossero tenute delle prove a Terezín nel marzo del 1944, con il direttore d’orchestra Rafael Schächter, l’opera non venne mai rappresentata sul palcoscenico della Sokolhaus di Theresienstadt, perché la censura nazista ritenne che il personaggio principale, l’imperatore Overall (anglismo per Über Alles), fosse la satira di un sovrano totalitario! (sic!)
Allan Kozinn, critico del New York Times, ha scritto che Ullmann utilizzò ‘un linguaggio musicale onnivoro che attinge sia dallo stile popolare che da quello classico’.
L’opera era strutturata in quattro quadri, con un prologo durante il quale erano presentati i personaggi e i leitmotiv che li contraddistinguevano, ed infine un epilogo.
La partitura era suddivisa in venti brevi sezioni e durava circa cinquanta minuti.
Alcune parti erano danzate ma erano presenti anche lunghi episodi parlati.
L’orchestrazione del 1943 era scritta per un ensemble da camera formato da tredici strumenti, gli unici disponibili a Terezín, e sette cantanti.
Prima del suo trasferimento ad Auschwitz, Ullmann affidò i suoi manoscritti, i saggi e ogni altro documento in suo possesso all’amico e compagno di cella, il Dottor Emil Utitz, bibliotecario presso il campo, poi scampato allo sterminio.
Lo spartito del “Kaiser” venne consegnato ad un altro sopravvissuto, il Dottor Hans Günther Adler, salvatosi anch’egli, dopo la guerra si trasferì a Londra.
La partitura, ritenuta per decenni perduta, venne ritrovata nel 1972 dal direttore d’orchestra Kerry Woodward che ne completò alcune parti che erano pervenute incompiute.
Il 16 dicembre 1975, presso il Bellevue Centre di Amsterdam, la Nederlande Opera presentò in anteprima mondiale “Der Kaiser von Atlantis” sotto la direzione di Woodward.
Un’ulteriore ricostruzione della partitura originale ebbe luogo tra il 1992 e il 1998, con Ingo Schultz, Karel Berman (il basso-baritono nella parte della Morte a Terezín) e Herbert Thomas Mandl (che fu violinista nelle opere musicali di Ullmann a Terezín) a capo della ricerca musicale. Successivamente si aggiunse al gruppo di lavoro Paul Kling, primo violino alle prove di Terezín.
Per la prima volta, quindi, vennero coinvolti in una produzione dell’opera i musicisti sopravvissuti a Theresienstadt.
Uno studioso di musica concentrazionaria ha scritto che: “Con quest’opera è possibile far conoscere la Shoah attraverso l’arte e la cultura: la musica diventa così salvazione contro le violenze perpetrate dai nazisti nei Ghetti e nei Lager.
La musica di Viktor Ullmann riuscì a sopravvivere alle violenze, come salvazione, come antidoto, come modo di resistere alle sofferenze e alle torture, ma anche come testimonianza di una funzione sua propria di dare forza, raccontare fatti, testimoniare eventi, trasmettere emozioni”.
Infatti, come raccontò nel suo diario lo stesso Ullmann: “Devo sottolineare che Theresienstadt è servito a stimolare, non a impedire, le mie attività musicali; che in nessun modo ci siamo seduti sulle sponde dei fiumi di Babilonia a piangere; che il nostro rispetto per l’Arte era commensurato alla nostra voglia di vivere. Ed io sono convinto che tutti coloro, nella vita come nell’arte, che lottano per imporre un ordine al Caos, saranno d’accordo con me”