Anche gli animali, nella fattispecie di cui parliamo, un gatto, possono divenire protagonisti della Storia, e ciò accade soprattutto quando essi scelgono di accompagnarsi a personaggi che non possono in nessun modo passare inosservati.
Divertente, curioso e commovente, il micio Bébert può essere considerato a pieno titolo uno dei personaggi degli ultimi romanzi del controverso scrittore francese Louis Ferdinand Céline.
Lo vediamo apparire in diverse sue opere, in “Nord”, in “Da un castello all’altro” e in “Rigodon”
Bébert in questo modo accompagna il lettore, pur rimanendo rinchiuso nella magica e misteriosa dimensione dei gatti
“Un gatto è l’incantesimo stesso, la delicatezza nell’onda…”
dichiarava Céline.
E Bébert, un enorme ed elegante gatto tigrato, dalla straordinaria intelligenza, tanto ingordo e brontolone quanto fedele, non era certo un gatto ordinario.
Abbandonato dal suo primo padrone, l’attore di cinema Le Vigan, dopo un lungo vagare a Montmartre durante l’occupazione tedesca, venne raccolto da Céline e da sua moglie Lucette.
Da quel momento in poi condivise le loro peregrinazioni, la loro miseria, il loro esilio.
Era una bestiola di dimensioni ragguardevoli, capace, nonostante la mole, di acrobazie alla Scaramouche; trovatello, era di carattere scaltro come un picaro, uno scudiero ad altissimo tasso di fedeltà.
A Montmartre visse una gioventù bohèmienne, da vero vagabondo, errante sui tetti, lungo le grondaie ed i marciapiedi di Parigi.
Frequentò star del cinema, romanzieri, poeti e drammaturghi nel corso di un’esistenza decisamente incredibile per un micio!
Durante la guerra Bebert riuscì a sfuggire alle persecuzioni di chi credeva che vi fosse una razza eletta perfino nel regno animale.
Sgusciò attraverso la Germania prossima all’Anno Zero, incrociando gerarchi in fuga, collaborazionisti allo sbando, tutto un microcosmo di ex tribuni, giornalisti collusi, maitresse al seguito, parecchi bastardi e qualche poveraccio.
Sempre accanto a Louis-Ferdinand Céline, lo scrittore, il genere di padrone più scomodo per un gatto del Novecento.
A più di mezzo secolo dalla morte del Dottor Destouches (il vero nome di Céline) in Francia rispuntano ancora vecchie polemiche e fioccano nuove biografie.
E’ tornata in libreria anche la singolarissima biografia del gatto di Céline, uscita nel 1976 per l’editore Grasset.
L’aveva scritta Frédéric Vitoux, critico, romanziere, pioniere negli studi céliniani, nonché titolare della poltrona numero quindici dell’Académie Française.
Raccontare gli uomini illustri attraverso gli animali che ne accompagnarono l’esistenza è diventato in seguito un filone fortunato, ma il libro di Vitoux dribblava le blandizie della moda perché era stato concepito in tempi non sospetti e perché non restava intrappolato nella sola dimensione dell’aneddotica.
Ma come si era giunti ad una pubblicazione così singolare?
Negli anni Settanta, in tempi in cui parlare di Celine era scomodo, l’editore francese Grasset chiese a Frédéric Vitoux, critico, romanziere, accademico di Francia e attento studioso di scrivere una biografia dello scrittore.
Vitoux però non aveva né la voglia né il coraggio di buttarsi in un’avventura del genere, così rilanciò proponendo per scherzo di scrivere la biografia del gatto che aveva accompagnato Céline per parecchi anni e per molti romanzi.
L’editore Grasset, che non scherzava mai, gli commissionò il libro, che uscì nel 1976 in Francia.
D’altronde Bébert non era un comprimario qualunque nella vita di Céline, anzi, in anni cruciali e tremendi, diventò per lo scrittore “modello, specchio, alter ego. Personaggio a pieno titolo degli ultimi romanzi”.
“Lo vediamo infatti apparire in Nord e Da un castello all’altro, fino a Rigodon”, rammentava anche Vitoux, ma era già apparso in “Feèrie“, “Pantomima”, il romanzo nel quale il suo padrone portò la lingua e la sintassi francesi agli estremi limiti.
Bébert era il contrasto che svelava le grandi incoerenze di Céline, che ne lacerava e demistificava allucinazioni e paranoie:
“Quando il gatto entra in scena, nella scrittura riaffiora un minimo di verità. Appena si allontana, tornano deliri e menzogne” scrisse Vitoux a proposito di “Feèrie”.
Il gattone era un randagio della regione centrale parigina, raccolto dalla Protezione Animali e messo in vendita nel famoso magazzino La Samaritaine.
Ad acquistarlo, nel 1935, fu Robert Le Vigan, che fu un divo del cinema francese negli anni tra le due guerre.
Accanto a Jean Gabin girò film quali Il porto delle nebbie o La bander e divenne in seguito uno zelante collaborazionista dei tedeschi occupanti. L’attore fece dono del gatto a Tinou, una figurante algerina conosciuta sul set e che sarebbe diventata sua moglie.
Nel giro di pochi anni la coppia crollò, come pure la Francia: i nazisti sfondarono e si presero tutto.
Misero su il governo fantoccio di Vichy e nel frattempo il tigrato, ignaro dei grandi sconvolgimenti della storia si ritrovò, come tanti profughi, solo e abbandonato.
“O almeno così credevo” racconta Frédéric Vitoux. “Quando il libro era di nuovo in vendita, venni contattato da Tinou, l’ex di Le Vigan. Era furente: siccome avevo scritto che trent’anni prima s’era sbarazzata del gatto, voleva trascinarmi davanti alla giustizia”!
Non lo fece, ma tanto basta per confermare che Bébert era di quegli animali che catalizzano le passioni.
Céline e sua moglie Lucette Almansor, insegnante di danza classica, lo adottarono nel 1942, quando abitavano al numero 4 di rue Girardon, proprio di fronte al Moulin de la Galette.
Mezzo domestico e mezzo girovago, il gatto assisteva agli allenamenti di Lucette in calzamaglia, passeggiava coi padroni sui boulevard, riprendeva peso.
Il nome che Lucette gli diede era lo stesso di un nipote della loro portinaia, Bebert, colpito da una grave forma di tifo, che Celine tentò in ogni modo di salvare: “Gli adulti possono ben morire, i bambini no”.
Per il gatto però, ancora una volta, la pacchia durò poco.
Nel 1944, alla vigilia dello sbarco alleato in Normandia, per Céline le cose iniziarono a mettersi male.
Gravida nei suoi confronti di minacce di vendetta, Parigi gli si stringeva al collo come un cappio.
Lui non era mai stato un collaborazionista, non aveva denunciato nessuno né fatto mai alcuna delazione, a differenza dei tanti galoppini sul libro paga dei tedeschi – come più tardi verrà falsamente dichiarato da Jean-Paul Sartre.
Negli anni Trenta, tuttavia, aveva scritto brutali pamphlet razzisti che nel clima da repulisti della liberazione imminente, potevano costargli caro: il carcere o, ancora peggio, la fucilazione.
Céline antisemita? Sì e no, ricordava Vitoux:
“Eppure nei romanzi non c’è traccia di ebrei stereotipati come, ad esempio, in Simenon o Mauriac”.
Anzi, fino a poco tempo prima lo scrittore aveva avuto un’amante ebrea, una insegnante di ginnastica e studiosa di psicanalisi, nata a Vienna e da tempo trapiantata in Francia, una donna di condizione alquanto altolocata. Del resto, reduce traumatizzato e pluridecorato della Grande Guerra, il dottor Destouches “detestava i tedeschi. Il suo ideale era l’Inghilterra”,
la Londra dei bassifondi promiscui e libertari.
Céline avrà ben presto sulle scatole anche Hitler, il Reich e i loro complici francesi “dalle mani sporche di sangue”, e non risparmierà bordate a nessuno.
Nel ’44 però queste erano patetiche sottigliezze.
Il 17 giugno Céline e Lucette saltarono su un treno alla Gare de l’Est, destinazione la Germania.
Il gatto era con loro, chiuso in una sporta e munito di passaporto sanitario rilasciato dai veterinari della Wehrmacht all’Hotel Crillon.
Era un’esile protezione per il micione, perché, ma nessuno lo sapeva ancora, al di là della frontiera il Reich morente aveva decretato la soppressione di tutti gli animali “non di razza e inabili alla riproduzione”. Ora Bébert era a tutti gli effetti un bastardino e, dopo le scorribande libertine per Montmartre, era stato pure sterilizzato.
Era quindi una sorta di sans-papiers.
“In realtà” precisa Vitoux, “Céline e Lucette non volevano rifugiarsi in Germania, ma da lì raggiungere la Danimarca dove avevano messo da parte dell’oro”.
Il transito durò addirittura dieci mesi diventando quel viaggio allucinante che fu fonte di deliri e poesia negli ultimi romanzi céliniani.
Louis-Ferdinand, Lucette e Bébert: il terzetto rimbalzava, scappava da Baden-Baden a Berlino, da Lipsia ad Augusta.
A Ulm, gatto e padroni assistettero ai funerali di Rommel.
Ad Hannover zigzagarono sotto un’alluvione di bombe ed uno scoppio scaraventò lontano la borsa con dentro Bébert: il gatto ne uscì stordito, ma incolume.
Il vero zenith dei guai si ebbe a Sigmaringen, la cittadina del Baden-Wuttemberg nella quale i nazisti avevano stipato i vertici e i manutengoli della Francia filo-hitleriana: oltre duemila persone.
Da Pétain a Laval, passando per l’ideologo Doriot e tutti gli altri gregari dei tedeschi.
Sigmaringen era la Salò del collaborazionismo francese.
Céline la ritrasse senza la ferocia di Pasolini “ma con toni infernali, grotteschi alla Bosch, o Bruegel”.
Scrisse: “Diresti un’operetta (…) città leccata, un po’ bomboniera, mezza-pistacchio (…) tutto in stile barocco-crucco”.
Di quel ridicolo, Destouches fu cronista, crudele con i gerarchi che lo sfottevano perché si era presentato all’Apocalisse col gatto.
Lui abbozzava e curava malati.
Bébert era diventato un cencio e miagolava a caccia di cibo.
Gli diedero rape invece dei wurstel, perché quelli se li pappavano i capi.
A fine marzo ‘45, coniugi e gatto giunsero in Danimarca dove Céline venne arrestato.
Passò in prigione un anno e mezzo.
In galera, di riflesso si ammalò anche il gatto, che stava male al punto che gli asportarono un tumore.
Se la cavò, come Céline del resto, che tornò libero ma confinato, con moglie e felino, in una baracca sul mar Baltico.
Dopo qualche tempo lo scrittore fu prima condannato in contumacia, poi amnistiato per le sue benemerenze di combattente della Grande Guerra.
Cèline rientrò così in Francia, nel 1951.
Dopo la lunga carcerazione i due randagi, Céline e Bebert, con la dolce Lucette, tornarono dunque a casa, in Francia, nella loro Parigi.
Quello stesso anno il gatto subì un intervento chirurgico: di nuovo il cancro, stavolta generalizzato.
La malattia ne fece una creatura sfinita, “a corto di respiro e di speranza, sdentato e inappetente”.
Vivevano tutti nell’eremo di Meudon, alle porte di Parigi e fu in quella sede che Bebert morì di consunzione nel 1952 e quella fu una delle poche circostanze in cui Celine confessò di aver pianto
Scrisse: “È morto qui, dopo tanti di quegli incidenti, nascondigli, bivacchi, ceneri, tutta l’Europa… ma è morto agile e aggraziato, impeccabile”.
D’altronde, fra le macerie della Storia aveva sempre mantenuto una sola priorità: l’igiene. Nel mezzo della catastrofe si leccava, perché:
la toilette, avant tout.
Era stato così importante per Céline che lui e Lucette, lo avevano trascinato con loro nell’orrore bellico, su treni blindati e sotto piogge di fuoco.
Il gattone viaggiò dentro uno zaino per mezza Europa. “Per 18 giorni e 18 notti non si è mosso, non ha fatto un solo miao. Si rendeva conto della tragedia. Abbiamo cambiato treno 27 volte. Tutto perduto e bruciato per strada, tranne il gatto. Ci ha accompagnato per 35 chilometri a piedi, da un esercito all’altro, sotto dei fuochi peggio che nel ’17”.
In Céline non c’era alcuna umanizzazione dell’animale: Bébert rimase sigillato nel mistero, “nell’irriducibile estraneità dei gatti”, osserva Vitoux. Davanti ai grandiosi monoloqui dello scrittore, il tigrato rappresentava il silenzio, l’eleganza muta, l’antitesi, cioè, del linguaggio.
Per Destouches, che pure smitragliava parole a raffica,
“le parole sono il massimo della miseria. Sono veicolo di malvagità e bugie. Solo il gatto è sincero. Non parla, dunque non mente”.
Ciò detto, restano tutte da raccontare le vite, le reazioni e le emozioni degli animali durante le guerre moderne.
Nel suo mirabile “Storia naturale della distruzione”, W.G. Sebald riferisce degli elefanti in fiamme che sotto il bombardamento dello zoo di Berlino, lanciavano alti barriti e si squagliavano tra ossa e frattaglie.
Nel film “Underground”, Kusturica ha mostrato le scimmie e i pachidermi impazziti nel fuoco dello zoo di Belgrado.
Ma quanto è accaduto nel bioparco di Saddam, o ultimamente tra i leoni e gli ippopotami di Gheddafi, aspetta ancora una parola.
Magari alla Céline, il quale nel 1952, dedicava l’imperdibile “Feèrie” (“Pantomima per un’altra volta”), “Agli animali, ai malati, ai prigionieri”.
Bèbert un gattone curioso, intrepido, scorbutico, perspicace.
Un tipo pulito e fedele al proprio amico e salvatore.
Più di un etologo sarebbe pronto a sostenere che dal gatto o dal cane, si può capire molto del padrone.
Il suo padrone, quello che lo fece diventare uno dei gatti più celebri della letteratura, Louis-Ferdinand Céline, fu anche lui un tipaccio, burbero, intrattabile, fedele solo a pochi, trasandato ma altrettanto ossessionato del gatto dall’igiene.
Leggendo la vita del felino eroico e devoto, si rileggeva quella dello scrittore innovatore e nichilista.
Insieme, randagi entrambi, attraversarono la Francia collaborazionista, la Germania in fiamme e la Danimarca ipocrita.
Lino Predel non è un latinense, è piuttosto un prodotto di importazione essendo nato ad Arcetri in Toscana il 30 febbraio 1960 da genitori parte toscani e parte nopei.
Fin da giovane ha dimostrato un estremo interesse per la storia, spinto al punto di laurearsi in scienze matematiche.
E’ felicemente sposato anche se la di lui consorte non è a conoscenza del fatto e rimane ferma nella sua convinzione che lui sia l’addetto alle riparazioni condominiali.
Fisicamente è il tipico italiano: basso e tarchiatello, ma biondo di capelli con occhi cerulei, ereditati da suo nonno che lavorava alla Cirio come schiaffeggiatore di pomodori ancora verdi.
Ama gli sport che necessitano di una forte tempra atletica come il rugby, l’hockey, il biliardo a 3 palle e gli scacchi.
Odia collezionare qualsiasi cosa, anche se da piccolo in verità accumulava mollette da stenditura. Quella collezione, però, si arenò per via delle rimostranze materne.
Ha avuto in cura vari psicologi che per anni hanno tentato inutilmente di raccapezzarsi su di lui.
Ama i ciccioli, il salame felino e l’orata solo se è certo che sia figlia unica.
Lo scrittore preferito è Sveva Modignani e il regista/attore di cui non perderebbe mai un film è Vincenzo Salemme.
Forsennato bevitore di caffè e fumatore pentito, ha pochissimi amici cui concede di sopportarlo. Conosce Lallo da un po’ di tempo al punto di ricordargli di portare con sé sempre le mentine…
Crede nella vita dopo la morte tranne che in certi stati dell’Asia, ama gli animali, generalmente ricambiato, ha giusto qualche problemino con i rinoceronti.