Il più antico poema della storia del mondo

La guerra, lo si sa purtroppo, implica una serie di conseguenze tremende sulla vita delle genti e delle cose nelle zone che ne sono toccate.
Lutti e distruzioni, naturalmente, sono quelle più gravi.
Un danno accessorio, ma comunque puntuale e pesante tra quelli che le guerre producono, è costituito dai sistematici e sfrenati saccheggi del patrimonio storico artistico di intere regioni.
Ciò che si perde in queste situazioni è quasi sempre irrecuperabile, i vuoti lasciati nella dotazione culturale di aree importanti nella storia dell’umanità, spesso non sono colmabili.

Di questi malaugurati fenomeni vi sarebbero fin troppi esempi da fare.
A volte, molto raramente, capitano comunque episodi che fanno sì che da un grave danno si producano effetti positivi insperati.

Nel 2015, nell’area del Kurdistan iracheno, il Museo di Slemani ha recuperato dalle mani di contrabbandieri di reperti storici, acquistandolo per 800 dollari, un ricco patrimonio di oggetti dal grande valore archeologico.
Tra questi reperti vi erano ottanta tavolette di argilla, una delle quali, antichissima, conteneva un frammento ancora inedito del primo poema epico della storia del mondo: “L’Epopea di Gilgamesh”.

La tavoletta recentemente scoperta

Ben venti versi, mai letti fino a quel momento e scritti a caratteri cuneiformi, sono stati immediatamente tradotti, mentre si discuteva ancora sull’esatta loro datazione.
E’ risultata subito evidente l’importanza del contenuto di quella tavoletta perché in essa prosegue la narrazione delle gesta dei due protagonisti del poema in un frammento dall’alto valore letterario, in cui viene descritto in modo vivissimo l’ambiente in cui essi si muovono.

E’ un paesaggio, la Foresta dei cedri, nel quale, in una radura tranquilla, si sente risuonare il frinire delle cicale e di uccelli rumurosi, mentre le scimmie urlano e gridano tra gli alberi.
Conviene ricordare a questo punto la storia di questo poema in relazione a ciò che rappresenta, ovvero il nascere, in epoche remotissime, di uno dei generi di scrittura che fu poi tra i più cari all’umanità.

Dal punto di vista letterario, infatti, “L’epopea di Gilgamesh” è fuori di dubbio il più antico ed importante tra i testi mitologici babilonesi ed assiri che ci siano giunti, oltre che, naturalmente, il primo esempio di poema epico.

𒉈𒂵𒈩 (Gilgamesh in sumero)
𒄑𒂆𒈦 (in accadico)

A suo tempo, ovvero nell’antichità remota, l’opera aveva goduto di una immensa e diffusa popolarità nel nostro vicino oriente, un successo ed un’influenza paragonabile a quella che per la nostra civiltà hanno avuto i poemi omerici, composti molto più tardi, o i Veda, anch’essi successivi, per quella indiana.

Di quella grande diffusione sono infatti valida testimonianza le diverse versioni che ci sono giunte.
Oltre a quella che forse è la più nota, conservata nel British Museum di Londra, opera che apparteneva alla Biblioteca del re Assurbanipal (669-628 a.c.), ne sono state recuperate diverse altre.
Ne possediamo una frammentaria, ma più antica, versione assira, una ittita e una hurrita, più altri testi che, oltre a testimoniare, come si è detto, la diffusione dell’opera, ne determinano la grandissima antichità: alcune scene dell’Epopea sono state ritrovate su alcuni sigilli cilindrici risalenti addirittura al terzo millennio avanti Cristo.

Sigillo reale mesopotamico risalente al III Milennio a.C.

Anche se il poema di Gilgamesh ci si presenta come un’opera coesa, con una storia omogenea e coerente, con tutta probabilità esso risulta da una fusione di racconti che in origine erano stati composti indipendenti l’uno dall’altro, come fu per quelli che confluirono poi nell’Iliade e nell’Odissea.
Certamente avevano dovuto avere una lunga diffusione orale prima che la mano di un grande poeta li fondesse, tenendo al centro della narrazione l’unico personaggio della tradizione in grado di raggrupparli, di renderli omogenei: il mitico re Gilgamesh.
Documenti su Gilgamesh sono stati trovati un po’ ovunque, e non solo in Mesopotamia, la terra tra i due fiumi, l’attuale Iraq, culla di origine del complesso di quelle leggende, ma sono emersi anche, appunto nell’Anatolia che fu degli ittiti, e in Palestina.
La scoperta delle tavolette con l’Epopea di Gilgamesh avvenne nel diciannovesimo secolo, e fu la conseguenza degli scavi di un inglese, Austen Henry Layard, che permisero il ritrovamento di due antichissime città: Ninive e Nembrod.

In quella circostanza venne alla luce una grandissima biblioteca di tavolette, densamente vergate in scrittura cuneiforme: la cosiddetta Biblioteca di Ninive.

Austen Henry Layard

Sempre nel corso dell’Ottocento, altri scavi, organizzati da archeologi tedeschi, ci restituirono le rovine dell’antica città di Uruk, il regno mitico di Gilgamesh, trovando in quel luogo celebre un’altra serie importante di tavolette.
Questo patrimonio di argilla venne accresciuto in seguito dagli americani che alla fine del secolo diciannovesimo eseguirono scavi nella città di Nippur, mettendo insieme circa 40.000 tavolette.
Il contenuto del poema, con la sua collezione di leggende, mostra sorprendenti affinità con alcuni dei miti più famosi dell’antichità, soprattutto quelli biblici legati al Diluvio Universale, alla creazione dell’uomo con l’argilla ed alla tentazione di Adamo da parte del serpente.
Alcune delle sue storie anticiperanno anche molti dei temi che si ritrovano in alcuni dei più celebri e successivi miti greci, e non solo.

“Di colui che vide ogni cosa voglio narrar al mondo
di colui che apprese e fu esperto in tutte le cose
Di Gilgamesh, che raggiunse la più profonda conoscenza
che apprese e fu esperto in tutte le cose
Egli esplorò ogni paese
ed imparò la somma saggezza
Egli vide ciò che era segreto, scoprì ciò che era celato
e riportò indietro storie di prima del diluvio…”

Questa, tratta dalla tavoletta n°1, è la presentazione iniziale dell’eroe, Gilgamesh, che dà l’avvio alla narrazione.
Gilgamesh viene descritto come un re potente, più di chiuque in Oriente, sovrano che dominava su Erech (Uruk), la città della Mesopotamia, un essere per due terzi divino e per un terzo umano.
Non potendo alcuno prevalere su di lui, era imbattuto in combattimento.
Governava gli abitanti con pugno di ferro, prendendo tutti i giovani al suo servizio e facendo sua ogni donna, a suo capriccio.

La Mesopotamia

Gli abitanti di Erech, sfiniti dalle sue sopraffazioni, chiesero l’aiuto della dea Aruru, la stessa che in tempi remotissimi, aveva creato l’uomo plasmandolo dall’argilla.
Autorizzata dal Signore del cielo, la dea impastò dell’altra argilla e creò Enkidu, una creatura mostruosa, un dio della battaglia coperto di peli, dalle abitudini e dalle compagnie animali.
Il solitario e spaventoso Enkidu che passava il suo tempo con le bestie, venne un giorno avvistato da un cacciatore che, terrorizzato corse ad avvertire Gilgamesh.
Il potente re ordinò che fosse inviata a Enkidu la prostituta sacra Shamkhat, affinchè, seducendolo con le sue grazie, lo conducesse ad una condizione umana.
La trama del re ebbe successo: la creatura selvaggia, ammaliata dalle sue ben esposte grazie, per una settimana si accompagnò con la ragazza e quando cercò di nuovo la compagnia degli animali, questi non lo riconobbero più come loro pari.
Fu così che Enkidu, che aveva anche mutato aspetto, ingentilendosi, si rese conto di essere divenuto un uomo e di aver voglia della compagnia degli altri uomini.
Nella seconda tavoletta si narra che Enkidu giunse a Uruk, convinto dalla giovane Shamkhat a metter fine al crudele regno di Gilgamesh.
L’occasione di uno scontro tra i due colossi giunse presto: come voleva la consuetudine da lui imposta, a Gilgamesh spettava lo ius primae noctis sulle spose novelle, cosa che era causa delle maggiori lagnanze del popolo.
Enkidu sbarrò al re la porta della casa in cui avrebbe dovuto entrare per consumare quell’ingiusto diritto.
Gilgamesh riconobbe nel contendente l’incarnazione di più di un presagio avuto in sogno e comprese di aver trovato un uomo di forza pari alla sua.
La lotta terribile tra i due fece tremare la città e si protrasse fino a quando i due si resero conto che nessuno tra loro poteva prevalere sull’altro.

La lealtà con la quale si erano combattuti si mutò presto in un’amicizia destinata a divenire eterna.
Subito Gilgamesh, in cerca di avventure, convinse Enkidu a penetrare con lui nella misteriosa foresta dei cedri, sorvegliata da un mostro tremendo, Khubaba.
La preparazione della spedizione, con vari interventi di divinità contrarie o favorevoli all’impresa dei due, occupa molte delle tavole successive, che raccontano come, dopo varie peripezie, Gilgamesh e Enkidu prevalsero sul mostro, ottenendo un grande bottino dagli alberi sacri, tagliati e trasportati ad Uruk.
Successivamente i due si abbandonarono a libagioni sfrenate e Gilgamesh, del quale si era invaghita la dea dell’amore, Ishtar, rifiutò brutalmente le sue proposte, offendendola e uccidendo, insieme con Enkidu, un toro celeste, inviato da lei per rivalsa contro la città di lui, sulla quale quella bestia si era abbattuta come una calamità.

La dea Ishtar

I ripetuti sacrilegi da parte dei due amici sdegnarono però gli dei che decisero di punirli, ma non potendo toccare Gilgamesh, che per due terzi era di natura divina, colpirono Enkidu facendolo ammalare di una malattia insanabile che lo fece infine morire, per la disperazione del suo amico.
Addolorato, inconsolabile, Gilgamesh si chiese se sarebbe toccato anche a lui raggiungere il regno dei morti e tentò di avere risposta alle sue domande sull’oltretomba.
Altre avventure sul sentiero della sua ricerca portarono poi l’eroe a varcare il fiume che divide il regno dei vivi da quello dei morti, con l’aiuto del traghettatore Urshanabi.
Il suo scopo era quello di farsi rivelare il segreto della vita eterna da un suo antenato, Utnapisthim, che era stato reso immortale dagli dei per essere stato l’unico uomo scampato al grande diluvio che aveva colpito la terra in un epoca già remota.
L’antenato non fu in grado di rivelargli alcun segreto sulla vita eterna: lui aveva rappresentato un caso unico per essere riuscito a scampare al diluvio, ed era stato favorito da una decisione del Consiglio degli dei, un atto divino che non sarebbe mai stato replicato.
Nella tavoletta n° 11, viene narrato di come Utnapishtim raccontò a Gilgamesh del grande diluvio e di come lui fosse riuscito a sopravvivergli.

La tavoletta n°11 detta “Del Diluvio”

Nonostante tutto, Gilgamesh provò a sottoporsi ad una prova che convincesse il consiglio degli dei a rendere anche lui immortale.
Fallì la prova, che era quella di riuscire a cadere in un sonno prolungatissimo, addormentandosi.
Tempo dopo una pianta che gli aveva donato il suo antenato, un ramo in grado di rendergli la massima vigoria fisica, gli fu rubata e divorata da un serpente nell’unico momento in cui l’aveva lasciata incustodita.
Sconfitto, Gilgamesh, comprese di dover accettare il suo destino di mortale, comune a tutta l’umanità.
Nel prosieguo della storia ci sarà anche una fugace riapparizione di Enkidu, resuscitato e presto reso definitivamente un defunto.
Intanto le sofferenze patite avevano reso Gilgamesh un uomo saggio, e come tale, al contrario di come aveva agito in precedenza, guidò la città di Uruk rettamente, compiendo opere che quando morì lo resero degno dell’unanime compianto.
Come la trama dell’epopea rivela chiaramente, nel poema appaiono temi destinati ad essere al centro della letteratura che gli uomini hanno prodotto lungo il corso del tempo.

Enkidu e Gilgamesh

Sono motivi attuali: nati in un’epoca per noi remotissima, sono rimasti fino ad oggi decisivi e ricorrenti quesiti, di quelli che sempre appassioneranno o tormenteranno l’uomo.
Si è già sottolineato come non possono non cogliersi nel peregrinare di Gilgameshi, precisi riferimenti ad episodi biblici affini, come quello del Diluvio Universale o del serpente traditore.
Altrettanti di quei temi saranno ripresi da Omero, soprattutto nell’Odissea, erede dell’epopea del re di Uruk nel raccontare un viaggio avventuroso verso la consapevolezza ed il riscatto.

Anche Dante, grande e sapiente conoscitore degli antichi miti, rielaborerà da par suo il motivo dei viaggi verso la conoscenza del nostro destino di uomini.
Come Gilgamesh, il nostro massimo poeta verrà condotto nell’Ade, traghettato da Caron dimonio, pronipote dell’Urshanabi babilonese.

Gilgamesh e il traghettatore Urshanabi

Piermario De Dominicis, appassionato lettore, scoprendosi masochista in tenera età, fece di conseguenza la scelta di praticare uno sport che in Italia è considerato estremo, (altro che Messner!): fare il libraio.
Per oltre trent’anni, lasciato in pace, per compassione, perfino dalle forze dell’ordine, ha spacciato libri apertamente, senza timore di un arresto che pareva sempre imminente.
Ha contemporaneamente coltivato la comune passione per lo scrivere, da noi praticatissima e, curiosamente, mai associata a quella del leggere.
Collezionista incallito di passioni, si è dato a coltivare attivamente anche quella per la musica.
Membro fondatore dei Folkroad, dal 1990, con questa band porta avanti, ovunque si possa, il mestiere di chitarrista e cantante, nel corso di una lunga storia che ha riservato anche inaspettate soddisfazioni, come quella di collaborare con Martin Scorsese.
Sempre più avulso dalla realtà contemporanea, ha poi fondato, con altri sognatori incalliti, la rivista culturale Latina Città Aperta, convinto, con E.A. Poe che:
“Chi sogna di giorno vede cose che non vede chi sogna di notte”.

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