“Hai mai provato a frequentare qualcuno della tua età, Bartolomeo? Non ti sei fatto degli amici nel corso di tutto il tuo percorso scolastico?
Di solito è in quel periodo che si stringono amicizie forti, di quelle che durano tutta la vita: hai dei ricordi di quegli anni, ora che è trascorso un decennio? Un qualsiasi ricordo?
Raccontami di qualcosa o qualcuno a cui hai pensato spesso: coraggio lasciati andare”.
Il Professor Samuele Cervellenstein tacque e approfittò di quell’istante di silenzio sospeso, per asciugarsi la fronte: mestieraccio!
La mascherina con Tom & Jerry, regalo di Consuelo, fortunatamente era così ben fatta che non dava caldo nè l’impressione di farti respirare a metà. Raccolse le idee per qualche minuto.
Quando, come nel caso di Bartolomeo Vecchiaromagna, si doveva metter mano ad un problema psicologico complicato, di solito Cervellenstein, da bravo luminare, si preparava coscienziosamente, con metodo.
Andava a riprendere in mano tutto l’incartamento che riguardava il paziente, un grosso blocco di appunti accumulatisi nel tempo, da cui traeva i punti salienti; poi cercava di impostare la seduta, insistendo su qualche aspetto al quale aveva attribuito particolare importanza, valutando l’impatto che poteva avere sulla psiche dei suoi picchiatelli.
Essendo tuttavia quella in corso la prima seduta del paziente, la situazione, nel caso di Vecchiaromagna, era ovviamente del tutto diversa.
Il Professore non potendo fare affidamento su alcun appunto precedentemente raccolto, doveva necessariamente contare, in primis, sulle poche note di accompagnamento scritte dal medico di famiglia che gli aveva spedito il cliente, poi avrebbe dovuto puntare sulla sua riconosciuta abilità professionale.
Per quel ragazzo si ipotizzava un impiccio assai spinoso, riguardante la sfera emotiva, soprattutto in relazione al pieno raggiungimento di una sua compiuta maturità sessuale: aveva ventotto anni ma non era mai stato con ragazze della sua età.
Certo, la timidezza giocava il suo ruolo in questa difficoltà, un impaccio relazionale che il Prof. Cervellenstein faceva risalire al fatto che Bartolomeo era stato abbandonato alla nascita dalla madre.
La donna infatti, dopo nove mesi di stop obbligato, imposto dalla WBA nei casi di gravidanza, avendo serie possibilità di vincere la corona europea dei superwelter, non aveva voluto rinunciare alla sua carriera pugilistica.
Suo padre, un tenore piuttosto scarso, poco tempo dopo che Bartolomeo era stato concepito, se l’era portato via una crisi depressiva seguita ad una operazione di tonsille.
Lo sfortunato infante aveva così passato i suoi due primi anni vegetando e producendo bavette e inquietanti ruttini presso l’Istituto religioso “Pie Sorelle del Divino Cinismo”, nel quale per due anni consecutivi, venne impiegato anche come bambinello nel presepio vivente.
Infilato subito dopo dalle Pie Sorelle, che disperavano di disfarsene, nel carrello delle seconde scelte, tra le “occasioni del giorno”, il piccolo Bartolomeo fu infine adottato da una coppia di signori, due astigmatici già parecchio avanti con gli anni.
Il nostro illustre psicologo lo andava sostenendo da tempo: non si dovrebbero affidare i bambini a persone di una certa età, soprattutto se esse hanno già subito più di tre furti in casa..
Nel caso del suo paziente, in effetti, vivendo immersi in un costante e angoscioso stato di allarme e di apprensione, i due genitori adottivi gli avevano assicurato un oceano di affetto e, contemporaneamente, un trattamento carcerario simile a quello che ricevette il compianto ergastolano Papillon prima di decidersi ad evadere dalla sua galera nella Guyana francese.
Ora, a ventotto anni di vita, la biografia messa insieme dal suo paziente, già magrolina e malmessa, a causa di quelle tragiche premure, era stata dirottata fuori dai binari della sanità psichica e aveva preso una direzione anomala.
Sì, ma quale? Bisognava scoprirlo subito.
Il suono esitante e timido della voce di Vecchiaromagna, riportò Cervellenstein sul pezzo: “Sì, di amici ne ho avuti due: Rutilio ed Ernani. Non erano miei compagni di scuola, perché io a scuola non ci sono mai andato: i miei genitori mi iscrivevano ai vari esami in veste di privatista ed in casa mia, sin da quando ero piccolo, veniva ad istruirmi una anziana precettrice, la signora Cleofe.
”Bartolomeo a questo punto tacque, esitando come se fosse molto preoccupato da quello che avrebbe dovuto raccontare.
Lo psicologo sobbalzò, gli era venuta in mente una possibilità assurda che non poteva essere però verificata sul momento, perché Cleofe, la sua segretaria, non era presente quel giorno: aveva chiesto il permesso speciale che sfruttava periodicamente per sottoporsi al suo capillare restauro estetico.
Era un lavoro articolato e complesso che veniva effettuato ogni sei mesi in una raffinata clinica della bellezza, situata fuori città, nella quiete di una campagna verde e sorridente.
Ogni volta, la signora Cleofe, ottantenne pluriormonata, ne usciva con dieci anni di meno e con lo sguardo leggermente ansante da predatrice in cerca di vittime fresche.
“Prosegui Bartolomeo, prosegui: raccontami di questa tua precettrice”, lo incoraggiò, un po’ da paraculo, Cervellenstein.
“Sono stato istruito da lei, dai dieci anni di età fino ai diciassette.
Mi faceva studiare tanto, ma era divertente farlo, perché lei inventava un mucchio di cose per aiutarmi ad imparare: aveva molta fantasia e non sembrava così vecchia.
Io non avevo molti amici, come le ho detto, solo Rutilio ed Ernani, e li potevo frequentare solamente perché erano figli di due coppie di amici dei miei genitori.
Ci incontravamo sempre a casa mia e passavamo il tempo in compagnia dei giochi che mi avevano regalato i miei, cose molto vecchie, come il Gioco dell’Oca , “L’allegro chirurgo” e tante scatole di “Sapientino”.
Anche quei due bambini erano molto protetti, e, come me, avevano il permesso di guardare in tivvù solo i canali seri, quelli che trasmettevano documentari sulla natura e sulla storia.
Al contrario di me, però, i miei amici andavano alla scuola pubblica: avevano dei compagni di classe, ma uscivano di casa di rado e solo con le loro tate, che però erano giovani.
Loro ne erano innamorati, ma io non li capivo bene quando, tutti rossi, me ne parlavano.
Non sapevo nemmeno come fossero fatte delle giovani vere, perché queste tate non le ho mai viste, lasciavano Rutilio ed Ernani sul portone e loro due poi salivano da soli a casa mia.
Ecco qua… E’ tutto… Io questo volevo dire… questo qua”, bofonchiò il ragazzone.
Bartolomeo sembrava recalcitrante a proseguire, ma il Professore sapeva che c’era dell’altro: il grosso del bubbone psichico non era ancora stato espulso.
Il tempo della seduta stava finendo, l’amico Tarallo incombeva, ma lui voleva assolutamente chiarire quella cosuccia: “Finisci di raccontarmi dei tuoi rapporti con la tua precettrice, Bartolomeo, è importante che siano chiariti completamente. Su, dai, niente paura, prosegui”
“Ecco… Cleofe era divertente, mi faceva imparare le cose ridendo.
Si faceva un po’ di chiasso di pomeriggio, tanto i miei, che partecipavano al rosario karaoke nell’ala opposta della casa, non potevano sentire assolutamente nulla.
Io intanto crescevo.
Verso i diciassette anni mi cominciavano a venire strane idee, non capivo neanche quali.
Mi veniva di colpo caldo, non so da dove: so che vedevo solo i miei e Cleofe, che allora era sulla settantina, ma era una matta tosta, che non si stancava mai.. Più crescevo io e meno vecchia mi sembrava lei: ridevamo insieme.
Poi.. un giorno.. un pomeriggio di quelli…
”Vecchiaromagna si inceppò e deglutì, mentre il volto gli si colorava del rosso acceso di un cardinale a fine pasto.
“Su, prosegui – lo incalzò Cervellenstein – cosa avvenne quel pomeriggio? Stai tranquillo: io ho il segreto professionale da rispettare e quel che dici resterà tra te e me. Su, dai..”.
“Quel… quel pomeriggio ci… ci siamo rotolati dal ridere sul tappeto, scontrandoci: era il giorno del mio diciottesimo compleanno.
Ci siamo scontrati, venuti addosso e… non so cosa mi prese.. ci prese.. so solo che facemmo certe.. quelle cose.
Il giorno dopo Cleofe si licenziò e non sentii mai più l’odore delle sue terribili sigarette”…
Il professore sbandò.
“Io l’ho sempre rimpianta.
Ancora oggi ci penso, e comunque, da quel famoso pomeriggio, io ho capito che a me non piacciono le ragazze.
Ne acquisii la definitiva certezza dopo che mi capitò un altro fatto.
La prima volta che fui io ad andare a casa di Ernani, un evento unico, lui mi presentò sua sorella Delfina, una biondina in calzoncini corti.
Sapevo che era considerata carina, molto carina, e corteggiatissima, ma io con una scusa, mi feci presentare sua nonna Guglielma, ottant’anni suonati.
Viveva in quella che era la casa di suo figlio, il padre di Ernani, un appartamento enorme.
Lei era tondetta, non come Cleofe che era tutta secca e scattante, e aveva i capelli azzurrini.
Ernani e Delfina erano rimasti nella cameretta del mio amico a guardare un vecchio sceneggiato in bianco e nero, “Anna Karenina”.
Nonna Guglielma fu molto gentile: stavamo in cucina e lei mi preparò uno zabaione.
Era buonissimo, chissà cosa ci aveva messo dentro, perché non so che mi prese subito dopo averlo bevuto: mi avvicinai a lei, mi ci buttai addosso e la abbracciai.
Oramai sapevo cosa fare.
Lei si stupì sulle prime, poi pensò evidentemente che la stessi ringraziando e che fossi un ragazzo molto infelice.
Fu così che si intenerì e, affettuosamente, mi strinse a sé.
Si accorse tardi di quello che stava succedendo, tardi per impedirlo. Troppo tardi, in ogni caso.
Fu così che anche con lei feci quelle cose.
Guglielma, che dopo la baruffa si era accesa un Havana, tirando fumo verso il soffitto, mi disse che non gli capitava di fare “le cose” dal giorno del terremoto dell’Irpinia.
Ci siamo salutati e io ho raggiunto Ernani in tempo per vedere quella purga della Karenina buttarsi sotto un treno.
Ogni tanto ci rivediamo con Guglielma, quando Ernani non c’è, e stiamo anche benino”.
Ormai Bartolomeo sembrava un altro, si era liberato, era palese: lo sguardo si era fatto vivo e andava via a raccontare, filando come un treno.
“Da qualche tempo i miei genitori, prima mia madre, poi mio padre, sono andati un po’ in vacanza con la testa: ora sono libero, ed essendo io il loro tutore, dispongo di buone sostanze.
Posso uscire, fare e vedere chi voglio, se voglio.
Ma io non voglio le ragazze, non le ho mai volute: quelle di adesso, poi, mi stressano solo a vederle, tutte tatuaggi e piercing, e oltretutto non capisco la lingua.
Così tutte le mattine mi metto elegante, vado all’INPS, faccio la fila per finta e attacco bottone con le nonnine, per rimorchiarle.
E’ il mio terreno di caccia prediletto, e spesso mi va anche bene, ma negli ultimi tempi tutto si è fatto più difficile con la storia del distanziamento e delle mascherine.
Maledizione, con quelle pezze sulla faccia non riesco a vedergli nemmeno una ruga…”.
Stop: ora terminata.
Ci sarebbe stato parecchio da fare, era evidente.
Il Professor Cervellenstein, più stranito di quanto gli fosse mai capitato prima, congedò Bartolomeo Vecchiaromagna dandogli appuntamento per la settimana successiva.
Omar e Lisippo Tressette ormai gli parevano dei rassicuranti normotipi.
Il ragazzo si ficcò una mascherina vecchia e logora, ed uscì giusto mentre nell’atrio dello studio comparivano Lallo e Abdhulafiah, debitamente bardati.
Cervellenstein li accolse a braccia aperte: “Tarallo, mi devi assolutamente raccontare com’è andato il rientro in redazione da Strappoli: Frangiflutti che dice,? E Rapallo, si è ripreso dalla destituzione? Sono curiosissimo: accomodatevi in studio che ho un intervallo di un’ora, e Dio solo sa se ce n’è bisogno!”.
“In redazione ci siamo solo io e Taruffi, gli altri sono tutti a casa, positivi al 100% al covid 19”.
Così, sinteticamente, rispose Tarallo.
“Che!!?? Tutti positivi?? – sbalordì Cervellenstein – Accidenti ma è una cos… Ma, Abdhulafiah, ti senti bene?”
Mentre parlava, il Professore si era accorto di colpo dell’espressione svanita e dolente che sostava sul volto del consulente finanziario ambulante.
Colpiva quell’aria stralunata in uno che solitamente era un mostro di lucidità e prontezza, un tipo capace di avvertirti se in seguito a una rinite allergica dell’AD dell’Eurofurting S.p.a. il prezzo delle loro azioni privilegiate avrebbe ceduto il 3% del suo valore, provocando un’onda anomala di suicidi a Singapore.
Abdhul sembrava essere altrove e stentò a rispondere.
Lo fece Lallo al suo posto: “Nulla di tremendo Professore, semplicemente Abdhulafiah si è innamorato a prima vista!”.
Lallo Tarallo, giovane sin dalla nascita, è giornalista maltollerato in un quotidiano di provincia.
Vorrebbe occuparsi di inchieste d’assalto, di scandali finanziari, politici o ambientali, ma viene puntualmente frustrato in queste nobili pulsioni dal mellifluo e compromesso Direttore del giornale, Ognissanti Frangiflutti, che non lo licenzia solo perché il cronista ha, o fa credere di avere, uno zio piduista.
Attorno a Tarallo si è creato nel tempo un circolo assai eterogeneo di esseri grosso modo umani, che vanno dal maleodorante collega Taruffi, con la bella sorella Trudy, al miliardario intollerantissimo Omar Tressette; dall’illustre psicologo Prof. Cervellenstein, analista un po’ di tutti, all’immigrato Abdhulafiah, che fa il consulente finanziario in un parcheggio; dall’eclettico falsario Afid alla Signora Cleofe, segretaria, anziana e sexy, del Professore.
Tarallo è stato inoltre lo scopritore di eventi, tra il sensazionale e lo scandaloso, legati ad una poltrona, la Onyric, in grado di trasportare i sogni nella realtà, facendo luce sulla storia, purtroppo non raccontabile, di prelati lussuriosi e di santi che in un paesino di collina, si staccavano dai quadri in cui erano ritratti, finendo col far danni nel nostro mondo. Da quella faccenda gli è rimasta una sincera amicizia col sagrestano del luogo, Donaldo Ducco, custode della poltrona, di cui fa ampio abuso, intrecciando relazioni amorose con celebri protagoniste della storia e dello spettacolo.
Il giornalista, infine,è legato da fortissimo amore a Consuelo, fotografa professionista, una donna la cui prodigiosa bellezza riesce ad influire sulla materia circostante, modificandola.
Lallo Tarallo è un personaggio nato dalla fantasia di Piermario De Dominicis, per certi aspetti rappresenta un suo alter ego con cui si è divertito a raccontarci le più assurde disavventure in un mondo popolato da personaggi immaginari, caricaturali e stravaganti