Contro Silvia Romano, la ragazza rapita in Kenya il 20 novembre 2018 e liberata in Somalia sabato scorso, già da domenica, al suo arrivo in Italia, è sorta una campagna di odio, per aver dichiarato di essersi convertita spontaneamente all’Islam.
Tutto ciò non ci smentisce affatto, poiché nel nostro Paese, da tempo immemore, si diffonde il virus della presunzione che fa il paio con quello dell’odio.
Entrambi questi virus, che agiscono in simbiosi o quasi, si servono oramai di un veicolo di contagio molto efficace e veloce, alla portata di tutti:
quello dei social.
È così che, a tempo di record, un consigliere comunale di un paese in provincia di Treviso, pubblica su facebook la foto di Silvia con su la scritta: “impicchiamola”, e altri fanno il coro, ciascuno a pontificare, giudicare, accusare, insultare. I titoli di alcuni giornali poi non fanno che rincarare la dose, Silvia è “l’islamica”, “l’ingrata”, “quella tornata col velo”, e via di male in peggio, sino ad arrivare al Parlamento dove un deputato leghista azzarda, dall’alto del suo scranno: “Silvia neo-terrorista”.
Per fortuna, dico io, siamo un Paese con una bella Costituzione, il cui articolo 19 sancisce la libertà di culto religioso in maniera inequivocabile; ma forse questa meravigliosa Costituzione è il baluardo ultimo delle vestigia di una nazione che rovinosamente frana dai pulpiti degli adepti di una nuova religione di facile consumo: quella dei “so tutto e tutto giudico”, stando comodamente seduto a casa mia, da grande conoscitore di ogni vicenda umana altrui, con la potente arma della tastiera.
E poi, se conversione vi è stata e la condizione in cui é maturata, saranno un problema di Silvia, di quelli che si affrontano con se stessi e non con un pubblico berciante di opinionisti, sguinzagliati come cani da caccia che fiutano la preda.
Resta comunque l’unico fatto davvero importante, che la ragazza è tornata a casa viva, restituita ai suoi affetti, dopo 18 mesi di sequestro.
La privazione della libertà è cosa seria e dolorosa, non di meno lo è quando viene oltraggiata da coloro che gridano allo scandalo e additano le scelte altrui per attizzare l’odio, sventolando per lasciapassare la presunzione di esercitare il diritto alla propria libertà.
Che si trovi un vaccino, prima di subito!
Fino a poco tempo fa mi sono nascosta dietro l’eteronimo di Nota Stonata, una introversa creatura nata in una piccola isola non segnata sulle carte geografiche che per una certa parte mi somiglia.
Sin da bambina si era dedicata alla collezione di messaggi in bottiglia che rinveniva sulla spiaggia dopo le mareggiate, molti dei quali contenevano proprio lettere d’amore disperate, confessioni appassionate o evocazioni visionarie.
Oggi torno a riprendere la parte di me che mancava, non per negazione o per bisogno di celarla, un po’ era per gioco un po’ perché a volte viene più facile non essere completamente sé o scegliere di sé quella parte che si vuole, alla bisogna.
Ci sono amici che hanno compreso questa scelta, chiamandola col nome proprio, una scelta identitaria, e io in fin dei conti ho deciso: mi tengo la scomodità di me e la nota stonata che sono, comunque, non si scappa, tentando di intonarmi almeno attraverso le parole che a volte mi vengono congeniali, e altre invece stanno pure strette, si indossano a fatica.
Nasco poeta, o forse no, non l’ho mai capito davvero, proseguo inventrice di mondi, ora invento sogni, come ebbe a dire qualcuno di più grande, ma a volte dentro ci sono verità; innegabilmente potranno corrispondervi o non corrispondervi affatto, ma si scrive per scrivere… e io scrivo, bene, male…
… forse.
Francesca Suale