Sailing 3, venti agitati

Il porticciolo e le case del paesino si stavano allontanando velocemente, il “Complesso di Edipo” se ne distanziava con la forza della sua scia di spuma e d’acqua gorgogliante.

Omar Tressette, appena imbarcato, salutati i presenti ed indossato che ebbe il suo celebre costume Anni Venti, si diede subito a girellare naso a terra, con la fronte aggrottata, fiutando ogni angolo del grande yacht come un cane da caccia.
Doveva pur esserci qualcosa di irritante in quell’oceano di serenità navigante, che so, due paia di sgraziati sandalacci teutonici occultati in qualche cabina, o più esemplari di canottiere iridescenti dell’Università Quacchera di Appaloosa.
L’operazione, però, ebbe a registrare un imprevisto esito positivo, perché l’omino bizzoso, non solo non ebbe nulla da ridire, ma parve addirittura quasi soddisfatto di ciò che aveva visto.

Rasserenato, decise allora di ritirarsi nella cabina assegnatagli, un locale doppio, con due cuccette, che avrebbe dovuto cioè dividere con un altro signore, un certo Taruffi.
Qui cominciarono i problemi: quell’ambiente si presentò a Tressette già completamente taruffizzato, e l’impressione che se ne riceveva era viva e avvolgente: una corrente greve mandava in affanno tutti i sensi possibili, li metteva duramente alla frusta, impregnando la cabina.
Mucchi di stracci luridi che a stento avrebbero potuto essere chiamati indumenti, giacevano sul pavimento o pendevano come cadaveri da ogni possibile arredo; sul letto del cronista vagavano incarti colorati di merendine e snacks ad alta tossicità.
Taccuini e penne varie, armi professionali da giornalista d’altri tempi, sparpagliate qua e là, davano l’ultimo tocco all’originalità di quell’ambiente.

Ma era soprattutto il famoso odore di muschio taruffiano il problema principale: un lezzo d’epoca, quasi materiale lo si sarebbe potuto definire, si era impossessato dell’aria della cabina, appesantendola come una caverna del paleolitico, posandosi, come una pestilente pelle aggiuntiva, su ogni singolo muro, su ogni mobile, ma anche sul più piccolo degli oggetti presenti.

A Tressette, in un lampo, parve addirittura di vedere un coronavirus di un metro e settanta di altezza scivolare veloce sotto il letto, nascondendovicisi.
Dalla bocca di Omar fuggì disperato un mezzo nitrito e l’ometto si precipitò come una furia ad aprire l’oblò che Taruffi, in tutti quei giorni, probabilmente non aveva nemmeno notato, spalancandolo.
Ne vennero dentro una potente ventata di mare e qualche benefico spruzzo d’acqua, un pulviscolo di gocce salate che diedero a Tressette un gran senso di sollievo.
Smise di ansimare e attese che l’aria facesse il suo lavoro.
Fu in grado di respirare solo dopo mezzora dall’apertura dell’oblò, quando l’atmosfera della cabina si era in parte alleggerita dei miasmi taruffiani e dopo che un po’ dell’umidità marina, spruzzo dopo spruzzo, aveva bagnato una spicchio di pavimento.

Ancora qualche minuto e, prima ancora che si fosse organizzato per sistemare il suo striminzito bagaglio, Tressette venne raggiunto in cabina da Taruffi in persona che, accorgendosi di colpo della presenza di un oblò in quell’ambiente, e di più aperto, si immobilizzò stupefatto, dandosi a fissare il mare attraverso di esso.
Si smarrì all’istante guardandolo, entrando in uno stato quasi ipnotico.
Colpito da una goccia d’acqua salata, il cronista con un piccolo balzo tornò alla realtà: si toccò la guancia con aria preoccupatissima, e si massaggiò la pelle ispessita e sporca, chiedendosi quali danni fisici potesse arrecargli quell’impatto liquido.
Tressette era rimasto a bocca aperta per l’apparizione di Taruffi, sudicissimo, peloso e bestiale nel suo costumone azzurro elettrico.
Si persuase che, oltre al puzzo da belve feroci che si era ormai diradato, il paleolitico, in quella situazione, avesse trovato un altro e ben più pericoloso fuoriuscito.
Tremò.

Cercò qualche parola meditata per calmare il cronista, che ancora stazionava con la mano incollata alla guancia, mentre una profonda riga di tensione gli tagliava in due la fronte.
Il grande intollerante, per una volta almeno, si allarmò: non conosceva bene quell’uomo poco rassicurante, ma di sicuro pareva un grizzly psicopatico, pronto a divorare uomini, tigri dai denti a sciabola e laterizi in cemento.
“Tu scusare me – provò Tressette a dire, per una volta cautissimo, parlando come i pellerossa nei film – io trovare un pochino di disordine: non essere però colpa sua eh, sia chiaro, ma qui gravare caldo, molto caldo (si sventolò platealmente con la mano per suggerire l’idea al selvaggio) e avvertire un leggero odore di cadavere. Avere quindi pensato che non te non dispiace se…”:

“No guardi, non si faccia alcuna colpa – replicò Taruffi, timissimo – entrando ho avuto anch’io la sensazione di aver un po’ trascurato le pulizie…”
Un gabbiano di passaggio sentendo questa affermazione, prese a ridere come un matto, tanto che quasi incocciò di testa lo yacht.
Si riprese dallo spavento e volò a raccontare la storiella ai colleghi pennuti.
“Comunque – proseguì mitemente Taruffi, facendo levitare il sollievo di Tressette come un tibetano centenario, – io sono passato solo per raccattare le mie cose: vorrei infatti trasferirmi in sala macchine con Mastro Pippa, per proseguire la mia intervista con lui, calandomi così anche nel quotidiano del nostro leggendario motorista ed ex onanista.
Non glielo ho detto ancora ma sono un giornalista, un collega di Lallo.
Sistemi pure con tutta calma il suo bagaglio: mi duole davvero, ma devo lasciarla senza compagno di cabina. Mi scusi ancora”.
Le note poderose e maschie dell’Halleluja di Haendel attraversarono assordanti il cervello di Omar Tressette, un tributo di gratitudine agli Dei del Caso Fortunato (ma lui lo definì con un altro vocabolo).
Tornò quindi a parlare normalmente.
“Mi rincresce moltissimo – rispose quindi l’ometto di solito stizzoso, mentendo, e flautando senza alcun pudore – avrei tanto voluto conoscerla meglio, ma capisco perfettamente il suo scrupolo: si sa, quando il dovere ci si mette di mezzo… “.
“Grazie, mille grazie, lei è davvero un tipo comprensivo. Allora, se non le dispiace, io raccatterei il mio bagaglio e…”
“Ma si figuri – esclamò sincero l’esultante Tressette – faccia pure, ci si vede in giro”.

Omar Tressette in costume da bagno

Quando, libera dagli stracci immondi del precedente ospite, la cabina tornò a sprigionare la consueta aria romantica, Omar si gettò radioso sul suo letto per saggiarne la morbidezza, ed incredibilmente il miracolo si ripetè: ancora nulla da obiettare, diavolo di un Cervellenstein, il materasso era comodissimo!
Taruffi intanto, scendendo nella pancia del “Complesso di Edipo”, aveva raggiunto la sala macchine in cerca di Mastro Pippa.
Strano: il marinaio, da sempre incollato in quei locali angusti e rumorosi, brillava per assenza.
Il cronista allora gettò le sue cose alla rinfusa, un po’ dove capitava, si scelse una cuccetta e, in attesa della ricomparsa di Mastro Pippa, si diede a fantasticare su Dorotea Santonorè, la signora delle pulizie che occupava i suoi sogni dal giorno felice del loro primo incontro, avvenuto in un grande centro commerciale quando per potergli misurare la febbre, gli avevano dovuto ripulire un tassello di pelle sulla fronte.

Dorotea Santonorè

Per un’oretta buona immaginò, arricchendola di particolari “giusti”, una ipotetica quanto fantastica seratina intima, con cena a due da organizzare nell’elegante cornice della trattoria “Da Arfio lo Schifoso”.
Nel suo sogno ad occhi aperti lui, in un tentativo riuscito di perfezione, tirava fuori dal frigo il suo miglior paio di pantaloni, in precedenza portato al massimo una trentina di volte, mentre Dorotea gli appariva bella come se l’avesse davanti in carne ed ossa, strizzata a dovere in un abito da sera che ne metteva in rilievo le seducenti burrosità.
Riscossosi infine da questa meravigliosa trance, Taruffi, non vedendo ancora traccia di Mastro Pippa, risalì sul ponte, sperando che il marinaio fosse impegnato in qualche manovra col Professor Cervellenstein, valente timoniere.
Girellò per ogni angolo della grande barca incontrando tutti tranne chi cercava, poi, di botto, in un lembo di prua adibito a solarium, incappò in una visione che a prima vista scambiò per un’allucinazione, e che gli fece fare un sobbalzo: stesa a pancia all’aria su un telo da bagno vistosissimo, con l’immagine di Pancho Villa stampata sopra, coi baffoni, le cartuccere sul petto e tutto il resto, prendeva il sole, completamente nuda, una donna piuttosto anziana, secca come un chiodo.
Non era messa malissimo per l’età che aveva, certo il viso la denunciava con mille rughe, ma si vedeva che fisicamente si prendeva molta cura di sé, al di la del fatto che fumava come una ciminiera, a dar un’occhiata al quantitativo di cicche che tracimavano dal piccolo portacenere che si era messa accanto.

La signora Cleofe prende il sole

“Beh? Anche lei ora? Ma guarda che faccia che fa!! Lei mi sembra un opossum sorpreso a rubare calzini! Possibile che una poveretta non possa prendere il sole in santissima pace senza che gli arrivino tra i piedi dei tizi buffi che strabuzzano gli occhi come se non avessero mai visto in vita loro una bella donna sgusciata? Prima quel vecchio ramarro rinsecchito coi capelli bianchi che si è messo a fare versi, ora mi piomba addosso lei che dovrebbe solo gettarsi nella calce viva per sperare di disinfettarsi e che…”
“Mi scusi signora, ero solo un po’ sorpreso di vederla così…così.. così molto..”
“Così molto nuda, vuol dire, bel tomo?”
“Ehm sì, appunto, piuttosto senza vestiti, intendevo… mi scusi ancora, davvero. Ma ha detto per caso di aver visto il motorista poco fa, o mi sbaglio? Sa, quel signore anziano che ha nominato ora”
“Chi, quel vecchiaccio? Certo che l’ho beccato”, strillò Cleofe (perché naturalmente era lei l’amante della tintarella integrale) con una certa dose di sfacciataggine, visto che Mastro Pippa era di almeno dieci anni più giovane di lei.

Mastro Pippa

“Quando mi ha vista – riprese la originalissima segretaria del Professor Cervellenstein – gli occhi gli si sono sganciati dalle orbite, perché, modestia a parte, faccio ancora la mia porca figura, poi sono schizzati su su, fino al pianeta Gonggong, portandovi scompiglio.
Non so cosa gli sia preso, ma, non bastandogli quella faccia da gufo, fotografata l’attimo prima di essere impagliato, ha anche emesso una specie di forte barrito doloroso, come quello di un elefante quando viene a contatto con un brano di Lindo Ferretti.
Poi è letteralmente fuggito, come una furia, tenendosi stretta la patta dei calzoni: un pazzo, glielo dico io!”.

A Taruffi, che sotto la crosta facciale avvampava di imbarazzo, non restò che congedarsi dalla tremenda signora, farfugliando ancora le sue scuse, e spostarsi a prua per chiedere direttamente di Mastro Pippa al suo comandante.
Cervellenstein in quel momento stava servendo ai suoi ospiti un Banafsky, un cocktail stimolantissimo di sua invenzione, fatto con abbondante spruzzata di seltz, tre parti di tamarindo svizzero, due di aguardiente di montagna e una di cartucce per la caccia al rinoceronte.

Il celebre Banafsky, ideato dal Professor Cervellenstein


Quando Taruffi gli chiese se sapesse dove si fosse rintanato Mastro Pippa, lo psicologo si rabbuiò: il suo motorista abbandonava la sua sala macchine solo per bisogni urgentissimi.
Quando poi venne a sapere dal cronista che l’ex incallito onanista, ormai riabilitato da anni, si era trovato dinanzi, senza essere adeguatamente preparato, le nudità della sua segretaria ottantenne, Cervellenstein si fece sfuggire un sommesso sospiro di preoccupazione, quasi un lamento:

“Santo Iddio: vuoi vedere che dopo tantissimo tempo ci è ricascato? – pensò angosciato – ma porca miseria, Cleofe, pure tu ti ci metti!”.

Lallo Tarallo, giovane sin dalla nascita, è giornalista maltollerato in un quotidiano di provincia.
Vorrebbe occuparsi di inchieste d’assalto, di scandali finanziari, politici o ambientali, ma viene puntualmente frustrato in queste nobili pulsioni dal mellifluo e compromesso Direttore del giornale, Ognissanti Frangiflutti, che non lo licenzia solo perché il cronista ha, o fa credere di avere, uno zio piduista.
Attorno a Tarallo si è creato nel tempo un circolo assai eterogeneo di esseri grosso modo umani, che vanno dal maleodorante collega Taruffi, con la bella sorella Trudy, al miliardario intollerantissimo Omar Tressette; dall’illustre psicologo Prof. Cervellenstein, analista un po’ di tutti, all’immigrato Abdhulafiah, che fa il consulente finanziario in un parcheggio; dall’eclettico falsario Afid alla Signora Cleofe, segretaria, anziana e sexy, del Professore.
Tarallo è stato inoltre lo scopritore di eventi, tra il sensazionale e lo scandaloso, legati ad una poltrona, la Onyric, in grado di trasportare i sogni nella realtà, facendo luce sulla storia, purtroppo non raccontabile, di prelati lussuriosi e di santi che in un paesino di collina, si staccavano dai quadri in cui erano ritratti, finendo col far danni nel nostro mondo. Da quella faccenda gli è rimasta una sincera amicizia col sagrestano del luogo, Donaldo Ducco, custode della poltrona, di cui fa ampio abuso, intrecciando relazioni amorose con celebri protagoniste della storia e dello spettacolo.
Il giornalista, infine,è legato da fortissimo amore a Consuelo, fotografa professionista, una donna la cui prodigiosa bellezza riesce ad influire sulla materia circostante, modificandola.

Lallo Tarallo è un personaggio nato dalla fantasia di Piermario De Dominicis, per certi aspetti rappresenta un suo alter ego con cui si è divertito a raccontarci le più assurde disavventure in un mondo popolato da personaggi immaginari, caricaturali e stravaganti

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