Il dibattito in Italia sulla trattativa del recovery found sembra sottovalutare la reale posta in gioco, cioè il destino futuro dell’Europa.
La maratona sulle modalità ha concentrato l’attenzione sulla quantità di miliardi e sulle condizioni da rispettare, offuscando il tema di fondo: cambiare il profilo politico dell’Europa.
Di un’Europa che non si limiti più solo a vigilare sulla stabilità monetaria, facendo rispettare parametri di bilancio comuni, ma che governi anche l’economia, la finanza (per ora molto parzialmente) e un domani anche la politica fiscale.
Il fine di queste operazioni è chiaro: trasformare l’Unione in un soggetto capace di potersi confrontare con Stati Uniti, Russia e Cina.
Tre stati egemoni nello scenario mondiale, i cui governi oggi, non a caso, cercano di disgregare la UE come potenza politica, la Nato quale potenza militare e l’Occidente quale patria dei diritti delle minoranze.
Ancora una volta, come nel 1992 per il trattato di Maastricht, i protagonisti sono la Francia e la Germania.
Ieri Khol e Mitterand, oggi Merkel e Macron.
Come sappiamo, a mettere in moto questo radicale cambiamento è stata l’epidemia che, sconvolgendo l’economia di alcuni paesi, sta imponendo un riequilibrio a favore dei più deboli pena la crisi anche dei più forti.
Ciò rende necessario pensare a un’Europa che agisca come uno Stato che si finanzia sul mercato (gli eurobond) per aiutare i paesi in difficoltà e s’impegna a pagare il debito anche emettendo tasse (su carbone, plastica e digitale). Una svolta impensabile solo sei mesi fa, quando il pensiero sovranista innalzava muri in ogni confine nazionale e le multinazionali si muovevano come nel cortile di casa.
Al termine della trattativa tra i capi di governo europeo quante di queste finalità sono state perseguite?
Alcuni punti forti, come appunto l’emissione degli eurobond e la possibilità di emettere euro tasse, sembrano dare un segno politico positivo alla svolta preconizzata.
Ma ci sono anche sono punti deboli, come il non essere riusciti a imporre alla Polonia e all’Ungheria il rispetto dei diritti e della separazione dei poteri.
E infine ci sono punti di “pareggio”, come il contorto controllo sulla governance sui fondi, per cui un singolo paese può chiedere la sospensione temporanea dell’erogazione della tranche del finanziamento, lasciando però il giudizio finale alla maggioranza qualificata del Consiglio.
Ancora un’arma in mano al singolo paese ma abbastanza spuntata perché è stata superata la gabbia della precedente unanimità.
L’esito finale degli accordi è la somma di una serie di compromessi che ogni nazione ha dovuto fare.
Da una parte l’indubbia necessità di un segnale di svolta, dall’altra il problema del consenso interno. E la via scelta è stata quella di piantare alcune bandierine per recuperare parte del potere sovrano ceduto a questa nuova Europa. Solo così si possono spiegare posizioni che appaiono contradditorie se non viste nell’ottica di una “tutela” del consenso interno.
Pensiamo all’olandese Rutte, campione in patria dell’europeismo, che ha vestito i panni del nemico della nuova Europa; o all’Italia, che non vuole accettare condizioni sulla spesa, anche se le riforme richieste sono le stesse che lei stessa ritiene necessarie; o, infine, ai paesi del gruppo Visegrad, che non intendono subordinare l’intervento finanziario al rispetto dello stato di diritto.
In ogni modo, questo primo importante round si è concluso. Adesso per accedere ai fondi sarà necessario presentare piani nazionali che saranno soggetti a controlli, come è giusto che avvenga per evitare che vengano utilizzati magari per finanziare operazioni elettorali, tipo la nostra quota 100 (per inciso, l’arma brandita dai paesi frugali contro di noi…).
Molti paesi hanno già presentato i piani.
Noi italiani siamo ancora impegnati a nasconderci dietro vessilli ideologici (flat tax, Mes, contratti nazionali o aziendali, giustizialismo e garantismo) che rischiano di far perdere di vista i nostri obiettivi:
un piano con proposte fra loro compatibili e non giustapposte, capace di far funzionare la macchina Stato, di innalzare il livello dell’istruzione e della ricerca, di operare una riforma della giustizia civile che dia certezze di giudizio a chi investe.
La speranza è che i soggetti decisori si sfidino su questo terreno, anziché cavalcare il disagio sociale così da lucrare magari qualche vantaggio in termini di consenso, ma al prezzo del crollo dell’Italia.
Marcello Ciccarelli, in pensione, attivo solo cerebralmente. Una volta docente e amministratore. Ancora appassionato di matematica e politica.