I versi del poeta preromantico francese Jean-Pierre Claris de Florian erano contenuti nella novella in prosa “Célestine, nouvelle espagnole”, la terza delle “Six nouvelles” di Florian, pubblicate nel 1784.
Jean-Pierre Claris de Florian, era nato il 6 marzo 1755 a Sauve (Gard) e apparteneva a una famiglia nobile e con antiche tradizioni militari.
Jean-Pierre trascorse la giovinezza nel castello di Florian (Cevenne).
Sua madre, di origine spagnola, morì quando Jean-Pierre era bambino.
Fu lui , dunque, l’autore delle parole di questa celebre canzone che, sebbene sia stata scritta nel XVIII secolo e risenta del clima illuminista del periodo in cui fu composta, è stata interpretata anche in epoche moderne e arrangiata in molteplici forme musicali.
E’ stata eseguita dai più grandi cantanti di ogni tempo, e tra le varie esecuzioni sono rimaste celebri le interpretazioni di Yvonne Printemps nel 1931, di Marianne Faithfull nel 1965, di Joan Baez nel 1968 e di Nana Mouskouri nel 1997.
Tante altre se ne contano, tra cui quelle di Brigitte Bardot, Barbara Hendricks, Mirelle Mathieu, Eddy Mitchell e Franco Battiato…
L’autore della chanson aveva incontrato Voltaire nella sua residenza di Ferney quando aveva dieci anni.
Suo zio aveva infatti sposato una nipote del filosofo e fu lui a presentarlo a Voltaire, che lo prese in simpatia.
Più tardi Florian entrò a far parte, come paggio, del servizio del Duca di Penthièvre e pochi anni più tardi fu ammesso alla Scuola reale di artiglieria di Bapaume.
Terminati gli studi, servì per breve tempo come ufficiale nel reggimento dei dragoni di Penthièvre.
Resosi conto di non amare la vita militare, ottenne di essere congedato conservando il grado di ufficiale: ciò gli permise di frequentare il duca di Penthièvre ad Anet e a Parigi e di dedicarsi interamente alla poesia
Il Duca di Penthièvre, che gli aveva dato il titolo di “gentilhomme ordinaire”, rimase suo amico e protettore per tutta la vita.
Nel 1788 l’Accademie Française gli aveva aperto le porte.
Incoraggiato da Voltaire, che gli aveva fatto scoprire “Les Fables” di La Fontaine, Florian si consacrò alle lettere e divenne un grande autore di fiabe e novelle.
Costretto, in quanto nobile, a lasciare Parigi durante la Rivoluzione francese, si rifugiò a Sceaux, nell’Alta Senna.
Nonostante il sostegno del suo amico François-Antoine de Boissy d’Anglas, fu arrestato nel 1794 perchè l’aver dedicato, otto anni prima, il romanzo “Numa Pompilius” alla regina, lo aveva reso sospetto al Comitato di sicurezza generale.
Rimesso in libertà il 27 luglio 1794, grazie a Boissy d’Anglas, morì improvvisamente poche settimane dopo, a soli trentanove anni di età, probabilmente per gli stenti patiti durante la detenzione.
Autore di novelle, pièces teatrali e di fiabe e la sua opera, nella quale abbondano buon gusto e sensibilità, ha fatto dire a La Harpe che:
“la delicatezza e la finezza, che non escludono il naturale, distinguono e fanno amare le piccole commedie di Florian e che tutto lo spirito che vi si nota non è che un connubio molto felice di buon cuore, di buon senso e di buon umore”.
Gli amanti della letteratura francofona conoscono bene le sue “Comédies” (1784), il suo romanzo pastorale “Estelle et Némorin” (1788) e le sue “Fables” (1792). Tra le sue opere troviamo anche le “Six Nouvelles”, scritte agli inizi del 1780 su imitazione di quelle di Miguel de Cervantes, e che saranno seguite più tardi da altre novelle.
Come si è detto è proprio in una di queste “six Nouvellees”, “Célestine”, che figura la canzone “Plaisir d’Amour ne dure qu’un moment…”, che nella novella era così declamata:
“…Ella udì dal fondo della grotta il suono di un flauto campestre, stette ad ascoltare e subito una dolce voce, ma senza cultura, cantò su un’aria queste parole”.
Affascinato da questo testo, il compositore Martini lo mise in musica.
Jean Baudrais, autore della “Petite bibliothèque des Theatres…” pubblicò per la prima volta nel 1785 questa canzone nelle sue “Etrennes de polyminie, recueil de chansons, romances, vaudevilles…, gravés avec de la musique nouvelle“
Conosciuta prima sotto il nome di “Romance du Chevrier”, fu più tardi, verso la prima metà del diciannovesimo secolo, che prese il nome dal suo incipit “Plaisir d’amour” ed il suo successo fu tale che Hector Berlioz la orchestrò per piccola orchestra nel 1859.
Louis van Waefelghem ne trascrisse la melodia per viola e pianoforte nel 1880, al punto che, divenuta famosa nel giro di pochi anni, entrò nei Cafés-Concerts alla moda alla fine del diciannovesimo secolo e l’inizio del ventesimo, poi con l’avvento del disco fu registrata dai più grandi interpreti del tempo.
Ma se la storia ha conservato i nomi di Florian e Martini come autori di “Plaisir d’Amour”, sarebbe ingiusto dimenticare quello di Ange-Etienne-Xavier Poisson de La Chabeaussière, dato che l’edizione del 1785 lo cita come co-autore della musica di questa piccola “Romance”, al pari di Martini.
Di certo tra le canzoni preferite di Maria Antonietta spiccava senza dubbio la dolce e melanconica Plaisir d’amour e si racconta che ai tempi della Rivoluzione francese, i parigini potessero sentire la regina cantarla durante la prigionia, mentre la sventurata sovrana attendeva di essere ghigliottinata dopo il processo in cui era stata condannata.
L’autore della musica di questo pezzo immortale si chiamava sì Johann Paul Aegidius Martini, ma di italiano aveva solo il cognome, essendo nato a Freystadt, in Germania, nel 1741. La sua carriera iniziò spostandosi dalla Baviera alla Francia dove morì nel 1816.
Non era nemmeno imparentato con il ben più noto padre Martini, compositore e teorico bolognese, anzi, per differenziarlo da quest’ultimo, con il quale veniva spesso confuso, venne soprannominato “Martini il tedesco”.
Dopo gli esordi come organista nella chiesa francescana di Friburgo, la vera svolta nella carriera artistica di Martini avvenne con il trasferimento in Francia dove divenne uno dei più acclamati musicisti ed esecutori del momento, tanto che le sue prestazioni erano contese dalle maggiori corti del paese, dal ducato di Lorena al principato di Condé, fino a quello d’Artois.
La consacrazione avvenne con la nomina a sovrintendente musicale presso la corte reale.
Negli anni ’70 e ’80 del ‘700 diede alle scene parecchie opere di successo tra cui “L’amoureux de quinze ans”, lavoro che toccò un alto grado di popolarità, influenzando il gusto corrente e indirizzandolo verso un genere musicale gradevole, sereno e privo di troppe complicazioni intellettuali.
Fu “emarginato” durante la Rivoluzione francese, salvo poi riprendere quota col regime napoleonico quando ottenne la cattedra di composizione al Conservatorio di Parigi.
Questo non gli impedì poi, con la restaurazione, di tornare fra le braccia dei rincasati Borboni, che lo assunsero come “sovrintendente della musica di corte”.
Il punto massimo della sua carriera lo raggiunse poco prima di morire, nel 1816, con un “Requiem” scritto in onore di Luigi XVI ed eseguito nel giorno anniversario della decapitazione del re.
Tutto sommato la Rivoluzione intaccò solo minimamente la carriera di Martini, che ebbe un’esistenza movimentata e costellata di riconoscimenti.
Ma il suo nome non sarebbe giunto fino a noi se non fosse anche stato l’autore di quella canzone che ha superato i secoli e che continua ad essere amata, citata, eseguita, riproposta e arrangiata all’infinito: “Plaisir d’amour”.
Fin dalla sua nascita attorno al 1785 questo breve componimento, scritto su parole del poeta de Florian, dilagò a macchia d’olio in ogni ambiente, fra il popolo minuto come fra l’aristocrazia, conquistando il cuore di tutti in Francia e all’estero.
Maria Antonietta, come si è detto, buona esecutrice d’arpa e clavicembalo, ne era talmente infatuata che non mancava mai di eseguirlo durante i suoi pastorali pic-nic al Trianon, immersi in quella finta vita di campagna che veniva chiamata “Arcadia”.
E’ indubbio che la fama di Plaisir d’amour, fu ulteriormente esaltata dal prodigioso arrangiamento di Hector Berlioz che fece accrescere ancora di più la celebrità della romanza nei suoi oltre duecento anni di vita.
Effettivamente lo stile misurato e aggraziato di questa musica sembrava fatto apposta per solleticare i sentimenti più intimi e teneri.
Ad ogni generazione la canzone è stata riproposta e la storia dell’infedele Silvie che fa soffrire il suo innamorato e gli dice “ti amerò” mentre si appresta a tradirlo, torna a vivere e ad espandersi sulle ali del suo afflato preromantico.
Fare la storia di tutte le interpretazioni è quasi impossibile, tanto sono state numerose. Durante l’intero Ottocento la canzone non mancò mai in nessun salotto, arrivando anche negli ambienti più vasti e prestigiosi, cioè le sale da concerto, per merito della versione di Hector Berlioz del 1859.
Non ci fu mai un cantante capace di sottrarsi al fascino di interpretarla. Tradotta in varie lingue, aveva notorietà in Russia come a Costantinopoli, a Vienna come a Londra, negli Stati Uniti come in Australia.
Nel Novecento tutti i tenori più famosi, come Beniamino Gigli, Tito Schipa, Caruso e Pavarotti, hanno fatto a gara per darne magistrali interpretazioni.
Nel 1949 Montgomery Clift, nel film “L’Ereditiera”, seduceva Olivia de Havilland cantandole, accompagnandosi al piano, “The joys of love” cioè la versione inglese di Plaisir d’amour e per questa performance il compositore americano Aaron Copland fece un arrangiamento così valido che gli valse il premio Oscar nel 1950 per la miglior colonna sonora.
Intorno al ritornello di questa celebre romanza musicata da Martini sono state realizzate più di 200 versioni, e come si è già accennato, vi si sono dilettate le voci della lirica e della musica leggera, Bocelli e Battiato, oltre ovviamente a una serie di cantanti francesi e no, tra cui l’inconfondibile voce ammaliatrice di Charles Aznavour e la grande cantante greca Nana Mouskouri.
Già nel 1939 troviamo la canzone al cinema, in “Love affair”, il mancato appuntamento sull’Empire State Building più famoso di sempre, per un film strappalacrime.
E poi c’era la mitica versione di Elvis Presley, che mantenne la musica pur cambiando le parole e diventando la famosissima “Can’t help falling in love” del 1961, e neppure la versione più rock di Bruce Springsteen è riuscita a togliere a questa canzone quella sua ultima vena di tristezza che la fa interpretare, modificare e cantare da più di 200 anni.
“Chagrin d’amour” di Hermann Hesse era la leggenda scritta dallo scrittore tedesco nel 1907 per celebrare “Plaisir d’amour”, che riteneva una delle canzoni d’amore più tristi e tenere nello stesso tempo della storia della musica.
Hermann Hesse immaginava che la romanza fosse stata scritta da un oscuro trovatore provenzale, Marcel, per celebrare l’amore, non corrisposto, per la bella regina Herzeloyde. I nomi della storia erano tratti dal poema epico medievale Perceval, del tredicesimo secolo, di Chretien de Troyes.
Quando i cavalieri combattevano non solo per vincere ma perché:
“Se non la posso vincere, posso però combattere per lei e sanguinare per lei e soffrir per lei sconfitta e dolore. Mi è più dolce morire per lei che viver bene senza di lei”!
Concludeva la novella Hesse:
“Terminato il canto, Marcel lasciò il castello, dalle cui finestre lo inseguiva il chiaro splendore dei ceri. Non fece ritorno alle tende, ma uscì di città in un’altra direzione, inoltrandosi nella notte, per condurre, non più cavaliere, una vita senza patria come suonatore di liuto.
Il suono delle feste si è spento e le tende sono marcite, il duca Brabante, l’eroe Gachmuret e la bella regina sono morti da parecchie centinaia d’anni, nessuno sa più di Canvoleis e del torneo per Herzeloyde.
Nel corso dei secoli di loro non è restato nulla tranne i nomi, che al nostro orecchio suonavano estranei e antiquati, e i versi del giovane cavaliere. Questi li si canta ancor oggi”.
Lino Predel non è un latinense, è piuttosto un prodotto di importazione essendo nato ad Arcetri in Toscana il 30 febbraio 1960 da genitori parte toscani e parte nopei.
Fin da giovane ha dimostrato un estremo interesse per la storia, spinto al punto di laurearsi in scienze matematiche.
E’ felicemente sposato anche se la di lui consorte non è a conoscenza del fatto e rimane ferma nella sua convinzione che lui sia l’addetto alle riparazioni condominiali.
Fisicamente è il tipico italiano: basso e tarchiatello, ma biondo di capelli con occhi cerulei, ereditati da suo nonno che lavorava alla Cirio come schiaffeggiatore di pomodori ancora verdi.
Ama gli sport che necessitano di una forte tempra atletica come il rugby, l’hockey, il biliardo a 3 palle e gli scacchi.
Odia collezionare qualsiasi cosa, anche se da piccolo in verità accumulava mollette da stenditura. Quella collezione, però, si arenò per via delle rimostranze materne.
Ha avuto in cura vari psicologi che per anni hanno tentato inutilmente di raccapezzarsi su di lui.
Ama i ciccioli, il salame felino e l’orata solo se è certo che sia figlia unica.
Lo scrittore preferito è Sveva Modignani e il regista/attore di cui non perderebbe mai un film è Vincenzo Salemme.
Forsennato bevitore di caffè e fumatore pentito, ha pochissimi amici cui concede di sopportarlo. Conosce Lallo da un po’ di tempo al punto di ricordargli di portare con sé sempre le mentine…
Crede nella vita dopo la morte tranne che in certi stati dell’Asia, ama gli animali, generalmente ricambiato, ha giusto qualche problemino con i rinoceronti.