Miklòs Radnòti: assassinio di un poeta

Radice

Nella radice guizza la forza,
beve la pioggia, vive di terra
e il suo sogno è bianco, di neve.

Di sotto terra urge alla superficie,
si arrampica ed è furba,
ha le braccia come funi.

Sulle sue braccia dorme il verme,
ai piedi della radice siede il verme,
il mondo così imputridisce.

Ma la radice continua a vivere sottoterra,
non si cura del mondo,
ma solo dei suoi rami frondosi.

Lei li ammira, li nutre,
sapori buoni gli invia,
sapori dolci, celestiali.

Sono anch’io una radice, adesso,
vivo tra vermi, io,
e qui preparo questi versi.

Ero fiore, sono diventato radice,
buia e pesante la terra su di me,
la mia sorte è compiuta,
una sega piange sulla mia testa.

(Lager Heideman, Zagubica, 8 agosto 1944)

Alla fine di giugno del 1946, sulla riva del fiume Rábca vicino alla località ungherese di Abda, venne riaperta una fossa comune nella quale erano stati gettati i corpi di una serie di deportati, trucidati sul posto con un colpo alla nuca il 4 novembre del 1944.
Nell’impermeabile di uno dei cadaveri fu trovato un taccuino. In una delle sue prime pagine c’era formulata una preghiera, scritta in cinque lingue: ungherese, serbo, tedesco, francese e inglese. Si chiedeva di riconsegnare le liriche del poeta ungherese Miklós Radnóti al professor Gyula Ortutay dell’Università di Budapest. Quel quadernetto che le conteneva venne denominato il Taccuino di Bor.

Il poeta, detenuto nel lager di Bor in Serbia, tra il 22 luglio e il 31 ottobre del 1944 vi scrisse dieci componimenti. Quando il taccuino fu ritrovato, i primi cinque erano già stati quasi del tutto rovinati dalle infiltrazioni d’acqua, fortunatamente però erano stati messi in salvo per un’altra via. Gli altri cinque erano presenti e rintracciabili solo nel libretto.

Ma chi era il poeta morto in circostanze così tragiche?

Nato a Budapest il 5 maggio del 1909, Myklos Radnoti, il cui cognome originario, di chiara origine ebraica, era Glatter, venendo al mondo perse subito un gemellino e sua madre, morta di quel parto plurimo. Nel 1911, il padre si risposò con Ilona Molnár ed ebbe un’altra figlia, Ágnes; il bambino visse sereno in quel nucleo ricomposto.
Quando nel luglio 1921 anche il padre morì, solo allora Radnòti apprese dei passati drammi familiari e venne a sapere del suo vero grado di parentela con quella che credeva sua madre, Ilona, e con la sorellastra.
Occorsero molti anni a Miklós per elaborare quei lutti familiari.

Budapest 1900 circa

La matrigna, trovandosi quasi immediatamente in difficoltà economiche, affidò il ragazzo allo zio Dezső Grósz, che provvide al suo sostentamento fino agli anni Quaranta.
Radnoti, crescendo, si appassionò alla lettura scoprendo di conseguenza il fascino dello scrivere. Si applicò con costanza allo studio delle lingue divenendo padrone del latino, del greco antico, dell’inglese, del francese e del tedesco, lingua quest’ultima, che praticò anche in veste di traduttore. Nel 1930 iniziò gli studi di lettere e filosofia all’Università di Szeged, dove dovette spesso subire angherie e soprusi da parte di bande di studenti antisemiti.

Nel 1929 uscirono le sue prime poesie: figuravano in una antologia di nove giovani autori intitolata “Bontà”.

Appena ventunenne pubblicò la prima raccolta,“Saluto pagano’’, un titolo che intendeva sottolineare sia una sorta di orientamento controcorrente, che l’apprezzamento per la poesia dell’antichità, non certo una distanza dal cristianesimo, religione che su di lui, ebreo, esercitò sempre un forte fascino.

Fin da quell’esordio Miklos scelse di firmarsi col cognome Radnóti. Nella sua poesia emergeva, oltre ad un forte accenno di carattere espressionista, anche una tendenza bucolica che ne stemperava i toni. Tra i temi ricorrenti nei suoi versi, forte e alto era quello amoroso, rivolto alla compagna di tutta una vita.
Altrettanto presente nella sua poetica era il senso della morte, onnipresente e fatale: una compagna con cui conviviamo dal momento della nascita e della quale non si può avere paura.

“Canti di pastori moderni’’, la sua seconda raccolta, uscita nel 1931, riprendeva fin dal titolola consueta inclinazione bucolica. L’intenzione dello scrittore, il senso del suo lavoro venne però completamente travisato e la raccolta fuquindi confiscata. Radnoti venne addirittura denunciato per oltraggio al pudore e alla religione e fu condannato, ma la sentenza (otto giorni di detenzione) venne sospesa per l’intervento di alcuni amici.

Nel 1934 si laureò, ma in virtù di leggi discriminatorie, essendo ebreo non poté esercitare la professione d’insegnante.
L’11 agosto del 1935 si sposò con Fanni Gyarmati, con la quale era fidanzato già dal 1926.

Miklos Radnoti con la moglie Fanni

Nel 1937, grazie al Premio Baumgarten,che aveva ottenuto per la sua raccolta ‘‘Cammina pure, condannato a morte!’’,poté visitare Parigi con Fanni. Nella capitale francese prese parte a manifestazioni antifasciste e alla Esposizione Universale ammirò Guernica, l’opera con cui Picasso commemorava la città omonima, bombardata da fascisti e nazisti nell’aprile 1937, nel corso della Guerra Civile Spagnola. In questo periodo Radnoti scrisse anche l’ode dedicata a Garcia Lorca,ucciso da poco dai franchisti. Miklòs si rese conto che la missione di ogni poeta è di essere  “profeta e martire della verità”.

Con il progressivo inasprirsi delle restrizioni antiebraiche fu perseguitato e rastrellato molte volte per eseguire lavori forzati in appoggio all’esercito.
Nel marzo del 1942 un decreto «sull’impiego degli ebrei per esigenze di guerra», istituì anche formalmente dei contingenti cui fu imposto il nome di «battaglioni di lavoro».
La prima coscrizione coatta intervenne nell’ultimo trimestre del 1940 e una seconda si applicò a partire dal 3 luglio 1942 per terminare a fine aprile 1943.

Queste, che erano vere e proprie detenzioni, comportarono umiliazioni e torture e solo una raccolta di firme promossa dai suoi amici riuscì a porvi fine. Appena liberato si convertì ufficialmente al cattolicesimo e venne battezzato. Lo fece pur sapendo che sul piano delle persecuzioni non ne avrebbe tratto alcun vantaggio,ma era un passo che aveva compiuto per fede, non per calcolo.

Il giorno dopo l’arrivo dei tedeschi a Budapest, avvenuto il 19 marzo 1944, Radnóti mise in salvo in una biblioteca i manoscritti delle sue poesie e dei suoi diari,  ma si rifiutò di imboccare la via di fuga servendosi di documenti falsi.

Il 20 maggio 1944 fu deportato nella zona mineraria di Bor, in Serbia, e rinchiuso a Heidenau, uno dei sette campi di concentramento presenti in quell’area.

I tedeschi avevano una sorta di supervisione nella gestione del campo, ma essendo prevalente il numero degli ungheresi, la sorte dei prigionieri era spesso nelle mani dei nazisti magiari, certo non meno tremendi di quelli germanici. Capitava addirittura che gli ungheresi fossero spietati al punto da costringere i tedeschi a intervenire per mitigarne la ferocia, anche al fine di non logorare inutilmente la loro forza-lavoro.

Il lager di Heidenau era al comando di un tenente moderato e relativamente umano, Antal Szál. I detenuti avevano la possibilità  di riunirsi la sera, così attorno al poeta si formò il Radnóti-kör, il Circolo Radnóti, in cui, secondo la testimonianza di un sopravvissuto, si leggeva, si faceva un po’ di musica, si dibattevano tematiche culturali ed esistenziali e si leggevano poesie.

Nell’estate del 1944, in seguito all’incalzare dell’armata sovietica e dei partigiani di Tito, vennero evacuati cinque dei sette campi della zona di Bor. Circa cinquantamila detenuti, tra i quali il poeta e i suoi compagni, furono costretti a percorrere, di corsa e con i famosi zoccoli anti-fuga ai piedi, i trenta chilometri che separavano il campo dalla città di Bor. Chi si attardava o cadeva veniva ucciso sul posto. 

Due settimane dopo, il 15 settembre del 1944, i prigionieri furono separati in due gruppi destinati ad una ulteriore deportazione in Ungheria e Germania. Radnóti venne assegnato al secondo, ma un ufficiale compiacente lo fece spostare nel primo.
Per una estrema beffa della sorte, fu proprio il secondo gruppo, che partì il 29 settembre, ad essere liberato dai partigiani di Tito: di esso faceva parte il sociologo Sándor Szalai. L’uomo era colui al quale Radnóti aveva affidato la trascrizione delle poesie che aveva composte durante la detenzione, perché le portasse a sua moglie Fanni, insieme a sue notizie, e perché potessero arrivare ad un professore suo amico.

Per il primo di quei due scaglioni invece, quel trasferimento coatto assunse i caratteri di una marcia della morte. Strada facendo alcuni contingenti tedeschi si unirono alle truppe ungheresi e le stragi di prigionieri divennero a quel punto quotidiane.

Radnóti riuscì in qualche modo a sopravvivere, scampando a varie esecuzioni di massa. Nella cittadina di Écs, in un soprassalto di umanità, gli aguzzini decisero di consegnarlo, insieme con ventuno compagni, anch’essi malati e inabili alla marcia, alle cure dell’ospedale di Győr, struttura che però li respinse. A quel punto il comandante del drappello, che avrebbe dovuto consegnare quei prigionieri, decise di andare per le spicce, liberandosi di quei poveracci: li trucidò tutti nei pressi di Abda, e ne gettò i corpi in una fossa comune, fatta scavare a loro stessi.

Nel giugno 1946, nel corso della riesumazione, grazie ai documenti rimasti nell’impermeabile, il corpo numero 12 fu identificato per quello di Miklós Radnóti. Le spoglie del poeta trovarono poi una definitiva sepoltura nel cimitero ebraico di Győr.

La matrigna di Radnòti, Ilona, e la sorellastra Ágnes, anche lei autrice di poesie e di un romanzo, morirono in quello stesso anno ad Auschwitz.

Fu la moglie di Radnoti, Fanni, un personaggio divenuto leggendario in Ungheria, a coltivare fino alla fine la memoria di suo marito e della sua opera.La donna si è spenta a ben 102 anni di età il 15 febbraio del 2014.

Edith Bruck ha scritto che Myklós Radnóti “rappresenta un caso unico nella storia della letteratura ebraica: il solo poeta che è riuscito a comporre anche all’interno del campo di concentramento dove era rinchiuso.”

Una delle principali traduttrici di Radnòti, Cecilia Malaguti, ha così riassunto il pensiero del poeta: “Conscio della intenzione dei nazisti di disumanizzare, depersonificare i prigionieri, l’intellettuale nel lager si raccoglie in se stesso. Il soggetto lirico, rinserrato in questa sua autonomia, è sospeso in uno spazio astratto, quasi ideale, tanto da sembrare distillare la propria esperienza e la realtà tutta, trasferire la propria parola sul piano di una conversazione e contemplazione che sfiora il sublime’’.

L’ultima poesia di Radnòti venne trovata scritta su un foglietto nascosto nella tasca del suo impermeabile.
Descriveva l’uccisione di un suo compagno, un violinista, morte che lasciava presagire al poeta la sua stessa fine.

Gli crollai accanto, il corpo era voltato,
già rigido, come una corda che si spezza.
Una pallottola nella nuca – Anche tu finirai così –
mi sussurravo – resta pure disteso tranquillo.
Ora dalla pazienza fiorisce la morte –
(…)
“Der springt noch auf” (si agita ancora) suonò sopra di me.
E fango misto a sangue si raggrumava nel mio orecchio

Heidenau sulle montagne di Zagubica (luglio 1944).

Lino Predel non è un latinense, è piuttosto un prodotto di importazione essendo nato ad Arcetri in Toscana il 30 febbraio 1960 da genitori parte toscani e parte nopei.
Fin da giovane ha dimostrato un estremo interesse per la storia, spinto al punto di laurearsi in scienze matematiche.
E’ felicemente sposato anche se la di lui consorte non è a conoscenza del fatto e rimane ferma nella sua convinzione che lui sia l’addetto alle riparazioni condominiali.
Fisicamente è il tipico italiano: basso e tarchiatello, ma biondo di capelli con occhi cerulei, ereditati da suo nonno che lavorava alla Cirio come schiaffeggiatore di pomodori ancora verdi.
Ama gli sport che necessitano di una forte tempra atletica come il rugby, l’hockey, il biliardo a 3 palle e gli scacchi.
Odia collezionare qualsiasi cosa, anche se da piccolo in verità accumulava mollette da stenditura. Quella collezione, però, si arenò per via delle rimostranze materne.
Ha avuto in cura vari psicologi che per anni hanno tentato inutilmente di raccapezzarsi su di lui.
Ama i ciccioli, il salame felino e l’orata solo se è certo che sia figlia unica.
Lo scrittore preferito è Sveva Modignani e il regista/attore di cui non perderebbe mai un film è Vincenzo Salemme.
Forsennato bevitore di caffè e fumatore pentito, ha pochissimi amici cui concede di sopportarlo. Conosce Lallo da un po’ di tempo al punto di ricordargli di portare con sé sempre le mentine…
Crede nella vita dopo la morte tranne che in certi stati dell’Asia, ama gli animali, generalmente ricambiato, ha giusto qualche problemino con i rinoceronti.

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