Quando il sonno della ragione genera mostri
C’è voluto un film, qualche anno fa, per ricordare al pubblico mondiale la straordinaria e singolarissima figura di Ipazia, matematica e filosofa vissuta nella Grecia dei primi secoli dopo Cristo, resa martire dalla ferocia di una doppia intolleranza, quella verso il suo pensiero e quella contro il suo genere.
Ogni storia come la sua dovrebbe essere ripercorsa di tanto in tanto, soprattutto in tempi in cui vecchie e nuove intolleranze riemergono ad intorbidire le prospettive di una civile convivenza tra culture e convinzioni religiose differenti.
Ipazia era nata ad Alessandria d’Egitto intorno al 370, suo padre Teone era un filosofo e un matematico molto conosciuto, anche per aver salvato dall’oblìo gli “Elementi” di Euclide e per aver commentato e pubblicato l’“Almagesto” di Tolomeo.
Aveva osservato e descritto l’eclissi solare del 15 giugno 364 e per questo era stato nominato Rettore del Museo di Alessandria, il principale centro studi della città.
Personalità complessa ed insolita, aveva educato la figlia alle scienze e alla filosofia.
Nulla si sa su chi fosse la madre ed il fatto che i saluti rivolti a Ipazia e agli altri familiari nelle lettere del suo allievo Sinesio non la citino mai, fa ritenere che nel 402 ella fosse già morta. Si sa di un fratello di nome Epifanio, cui venne dedicato il Piccolo commentario alle Tavole facili di Tolomeo.
La ragazza fece il suo debutto nelle vesti di intellettuale al fianco del padre collaborando ad uno dei suoi libri.
Lo stesso Teone scrisse infatti che la sua edizione del “Sistema matematico di Tolomeo” era stata “controllata dalla filosofa Ipazia, mia figlia”.
Si tratta del volume che conteneva la ben nota teoria astronomica tolemaica, quella geocentrica destinata a restare in auge fino all’arrivo di Copernico. Di tale teoria Ipazia, peraltro, non fu mai convinta.
Nel giro di pochi anni la studiosa, come astronoma e matematica, finì per superare il suo stesso padre e maestro. Non sono arrivate a noi sue opere, se non forse attraverso pubblicazioni successive che le avevano inglobate, ma di alcune conosciamo i titoli: il “Commentario alla Aritmetica di Diofanto”, il “Commentario al Canone astronomico” e il “Commentario alle sezioni coniche d’Apollonio Pergeo”, che dai contemporanei fu considerato il suo capolavoro.
Ipazia aggiunse all’insegnamento delle scienze esatte quello della filosofia, fondendo in modo quasi inestricabile le due discipline e vennero considerati fondamentali i suoi commenti al pensiero di Platone, di Aristotele e dei filosofi maggiori.
Questi successi la portarono a prendere il posto di suo padre come capo della scuola alessandrina.
La giovane e bella matematica, filosofa ed astronoma aveva infatti dimostrato di avere tutti i titoli per succedergli nell’insegnamento di queste discipline.
Alessandria del resto vantava una tradizione intellettuale prestigiosa: basti pensare al glorioso Museo, che era stato fondato, quasi 700 anni prima dell’epoca di Ipazia, da Tolomeo I, generale di Alessandro Magno e primo re dell’Egitto ellenistico, perché fosse un centro di studi dedicato alle muse, divinità protettrici delle scienze e delle arti. Di quel centro faceva parte anche la Biblioteca di Alessandria, la più celebre biblioteca dell’antichità.
Anche se il vecchio Museo non esisteva più perché era andato distrutto al tempo della guerra condotta da Aureliano, la tradizione dell’insegnamento delle scienze mediche e della matematica era però continuata ad Alessandria, mantenendo intatto l’antico prestigio, come conferma anche Ammiano Marcellino.
Ipazia, secondo gli storici del tempo, già dal 393 era a capo della scuola alessandrina, fatto questo ricordato anche da Sinesio, giunto ad Alessandria da Cirene per seguirvi i suoi corsi.
Come Socrate, Ipazia insegnava anche a casa e per le strade e tra i suoi ammiratori si annoverava anche il prefetto romano Oreste, che spesso la consultava per le questioni di carattere pubblico.
La filosofia, nella sua concezione, non doveva essere distaccata dalla vita reale, semplice erudizione, ma uno stile di vita, una costante e disciplinata ricerca della verità.
Lo storico cristiano Socrate Scolastico scrisse che Ipazia era arrivata a vantare una cultura tale da superare di molto tutti i filosofi del suo tempo, tanto da dirigere la scuola platonica, riportata in vita da Plotino.
Era suo costume spiegare a chi lo desiderasse tutte le scienze filosofiche e per questo accorrevano da lei, da ogni parte, tutti coloro che desideravano pensare in modo filosofico.
Riguardo ai progressi che erano stati raggiunti nelle conoscenze ereditate fino ad allora e che potevano essere attribuiti a Ipazia, il suo allievo Sinesio nel 399 scriveva:
“Ipparco, Tolomeo e i successivi astronomi lavorarono su mere ipotesi, perché le più importanti questioni non erano state ancora risolte e la geometria era ancora ai suoi primi vagiti: ora (con lei) si era riusciti a perfezionarne l’elaborazione”.
Ipazia arrivò a formulare anche ipotesi sul movimento della Terra e molto probabilmente cercò di superare la teoria tolemaica secondo la quale la Terra era al centro dell’universo, teoria che i matematici e gli astronomi del suo tempo consideravano già una ipotesi superabile.
Ad Ipazia vennero addirittura attribuite le invenzioni dell’astrolabio, del planisfero e dell’idroscopio, lo strumento con il quale si può misurare il diverso peso specifico dei liquidi.
Su di lei Damascio scrisse:
“Per la magnifica libertà di parola e di azione che le veniva dalla sua cultura, accedeva in modo assennato anche al cospetto dei capi della città e non era motivo di vergogna per lei lo stare in mezzo agli uomini: infatti, a causa della sua straordinaria saggezza, tutti la rispettavano profondamente e provavano verso di lei un timore reverenziale”.
Divenuta un punto di riferimento imprescindibile per la città di Alessandria, Ipazia si trovò quindi a rivestire, suo malgrado, anche un ruolo politico, vivendo da protagonista il momento più caldo degli scontri interreligiosi tra le varie comunità di Alessandria, conflitti che si fecero particolarmente cruenti all’inizio del Quattrocento d.c..
Scoppiò infine una vera e propria guerra civile,
con i cristiani che assediarono il tempio di Serapide in cui si erano rifugiati i pagani.
Lo stesso imperatore Teodosio II, apertamente filo cristiano, fu costretto ad intervenire inviando una lettera al vescovo Teofilo in cui gli chiedeva di perdonare le eventuali offese recate dai pagani, concedendogli in cambio la distruzione del tempio e dell’annessa biblioteca.
Ipazia, da parte sua, se sotto il profilo filosofico restò neutrale nei confronti del cristianesimo, sotto il profilo politico e sociale non poteva che guardare alla nuova religione con diffidenza: come non vedere nel cristianesimo del suo tempo fanatismo, violenza, intolleranza?
I cristiani di Alessandria si erano già resi responsabili della distruzione di templi e di biblioteche e di continui assalti ad ebrei e pagani.
Nel 412 morì il vescovo Teofilo e nonostante l’opposizione di buona parte della comunità cristiana che lo considera troppo violento e intollerante, venne eletto al suo posto il nipote Cirillo.
Coetaneo di Ipazia, Cirillo, venerato oggi come santo, incarnava alla perfezione la tendenza di una Chiesa che dopo l’editto di Teodosio del 380, che aveva fatto del Cristianesimo la religione di Stato, iniziò a trasformarsi da perseguitata a persecutrice.
Cirillo assunse di conseguenza in città un potere molto maggiore di quanto ne avesse avuto suo zio: con il suo episcopato quello del vescovo di Alessandria diventa un ruolo politico a tutti gli effetti.
Aveva formato anche una vera e propria milizia suoi ordini, i cui membri venivano detti “parabolani”. Erano monaci eremiti del deserto che la vita ascetica aveva fatto diventare intolleranti e violenti: “più simili a belve che a uomini” scrisse lo storico cristiano bizantino Suida.
D’altra parte Alessandria era pur sempre una città in pieno fermento culturale e religioso dove si trovavano pagani di ogni culto e cristiani di ogni eresia, oltre che molti ebrei. Furono proprio questi ultimi, ritenuti i “deicidi’’ dal pensiero dei cristiani del V secolo, il successivo obiettivo di Cirillo.
Nel 414, durante un’assemblea popolare, alcuni ebrei denunciarono al prefetto Oreste il maestro cristiano Ierace, accusandolo di seminare discordie.
Si trattava del più strenuo sostenitore di Cirillo, il più attivo nel suscitare gli applausi nelle adunanze in cui il vescovo insegnava. Una sorta di fanatico capoclaque, insomma. Ierace venne arrestato e torturato provocando la ritorsione dei cristiani contro gli ebrei ed una conseguente controreazione da parte ebraica. Tutto si risolse ovviamente in reciproci massacri.
La reazione di Cirillo fu durissima: l’intera comunità ebraica venne assalita e cacciata dalla città, gli averi furono depredati e confiscati, le sinagoghe saccheggiate e distrutte.
Fu il primo pogrom di cui si ha notizia scritta.
Il prefetto Oreste, indignato, fece arrestare i responsabili degli attentati alle sinagoghe. A quel punto il resto dei cristiani, istigati dal Vescovo, si rivoltarono contro lo stesso prefetto e un gruppo di parabolani, giunti dal deserto, circondò il carro di Oreste, insultandolo, chiamandolo “sacrificatore ed elleno” e lanciandogli contro delle pietre.
Tra questi c’era un certo Ammonio che riuscì a ferirlo: il prefetto lo fece imprigionare e questi morì sotto tortura.
Cirillo prese la palla al balzo, costruendo per quel fanatico una reputazione da martire e onorandolo con solenni esequie.
Lo scontro era ormai aperto.
Oreste si appellò all’imperatore Teodosio che, anche a causa dell’influenza della sorella cristiana Pulcheria, si rifiutò di intervenire.
La situazione di conseguenza precipitò nel caos. Cirillo tentò a quel punto una riconciliazione con Oreste e questi chiese consiglio a Ipazia.
Non è stato mai riportato cosa abbia risposto Ipazia, ma il Vescovo Cirillo sembrava convinto che quella donna non avesse un buon ascendente sul prefetto. Ipazia era la più importante rappresentante del paganesimo, era donna ed intellettualmente era in grado di tener testa ad ogni uomo, smentendo la sostanziale inferiorità femminile predicata da tutti i padri della Chiesa.
La religione cristiana allora non accettava che la donna potesse avere ruoli importanti nella società, men che meno una posizione libera come quella di Ipazia, in grado di aprire le menti e di non inchinarsi dinanzi a nessun dogma.
Inoltre in un clima in cui si imponeva alle donne di girare velate e di restare chiuse in casa in posizione di subordinazione all’uomo, non poteva essere accettato che una donna formulasse ipotesi sul funzionamento del cosmo intero o che si occupasse dei problemi della città. Ipazia era dunque un simbolo importante e come tale il suo abbattimento avrebbe potuto e dovuto costituire una lezione per i contemporanei e per i posteri.
Si arrivò così all’8 marzo dell’anno 415, un lunedì di quaresima per i cristiani di Alessandria d’Egitto.
Ipazia stava tornando a casa. Probabilmente non era del tutto tranquilla perché, oltre ad essere una importante intellettuale della città, lei era divenuta, come si è detto, anche un punto di riferimento, non solo per i suoi studenti ma anche per le autorità politiche e religiose.
All’improvviso la sua lettiga venne circondata da un gruppo di monaci: erano dei fanatici cristiani guidati da Pietro, un lettore della chiesa di Cirillo che voleva dimostrargli con la ferocia il suo zelo.
La assalirono e la tirarono giù, la picchiarono.
Lei tentò di chiedere aiuto, ma il suo grido venne coperto da quello degli assalitori infervorati e soffocato dal suo stesso sangue.
La trascinarono fino al Cesareo, l’ex tempio di Augusto diventato la Cattedrale dei cristiani.
Qui le strapparono la veste, lasciandola nuda di fronte all’altare. Pietro la colpì con una mazza mentre gli altri raccoglievano dei cocci appuntiti iniziando a ferirla con questi.
Per centinaia di volte il suo corpo venne trafitto dai monaci in un’orgia mistica di sangue, preghiere e grida deliranti.
Anche dopo che il suo cuore aveva cessato di battere la furia di quegli invasati non si fermò: gli occhi le vennero cavati, la sua carne strappata, il suo corpo fatto a pezzi finché di ciò che era stata Ipazia d’Alessandria non rimase che una poltiglia di carne e sangue.
Allora, dopo aver esposto quei miseri resti nelle vie cittadine, bruciarono tutto, perché non restasse traccia di una delle donne più importanti della storia dell’umanità.
Quella di Ipazia è una storia che, come altre dello stesso segno, dovrebbe far riflettere anche oggi sul fatto che i dogmi, sia quelli religiosi che quelli ideologici, sono stati troppe volte, oltre che fonte costante di assurde discriminazioni, una delle quali è quella di genere, dei nemici mortali della libertà di pensiero e della sete di conoscenza,
i veri motori della civiltà umana.
Lino Predel non è un latinense, è piuttosto un prodotto di importazione essendo nato ad Arcetri in Toscana il 30 febbraio 1960 da genitori parte toscani e parte nopei.
Fin da giovane ha dimostrato un estremo interesse per la storia, spinto al punto di laurearsi in scienze matematiche.
E’ felicemente sposato anche se la di lui consorte non è a conoscenza del fatto e rimane ferma nella sua convinzione che lui sia l’addetto alle riparazioni condominiali.
Fisicamente è il tipico italiano: basso e tarchiatello, ma biondo di capelli con occhi cerulei, ereditati da suo nonno che lavorava alla Cirio come schiaffeggiatore di pomodori ancora verdi.
Ama gli sport che necessitano di una forte tempra atletica come il rugby, l’hockey, il biliardo a 3 palle e gli scacchi.
Odia collezionare qualsiasi cosa, anche se da piccolo in verità accumulava mollette da stenditura. Quella collezione, però, si arenò per via delle rimostranze materne.
Ha avuto in cura vari psicologi che per anni hanno tentato inutilmente di raccapezzarsi su di lui.
Ama i ciccioli, il salame felino e l’orata solo se è certo che sia figlia unica.
Lo scrittore preferito è Sveva Modignani e il regista/attore di cui non perderebbe mai un film è Vincenzo Salemme.
Forsennato bevitore di caffè e fumatore pentito, ha pochissimi amici cui concede di sopportarlo. Conosce Lallo da un po’ di tempo al punto di ricordargli di portare con sé sempre le mentine…
Crede nella vita dopo la morte tranne che in certi stati dell’Asia, ama gli animali, generalmente ricambiato, ha giusto qualche problemino con i rinoceronti.