La letteratura ha sempre celebrato gli amanti.
Mentre in “paese” si mormorava: “Quelli sono amanti”, schiacciati da uno stereotipo che li additava e giudicava, mantenendosi saldamente al di là dello spartiacque della “costruzione letteraria”, la Letteratura invece ha guardato agli amanti in profondità, oltre le apparenze, e li ha narrati usando le tinte più diverse, a volte dagli estremi opposti, muovendosi tra la disperazione e l’esaltazione del loro amore.
Di qualsiasi specie essi fossero, adulteri o clandestini, che fossero o no dello stesso sesso, che appartenessero a famiglie nemiche o che fossero di nazionalità diverse, consegnati al loro destino dal ruolo sociale, predestinati da volontà altre o dalle avversità, la Letteratura li ha ogni volta rispettati, assolti e riportati umani, restituiti alla dignità di un sentimento.
Ma chi siano davvero gli amanti e quale sia il loro mondo, il “paese” non lo sapeva allora, e ancora non lo sa.
E in fondo non lo sa nessuno.
Non lo sanno convenzioni e regole sociali, che si sono sempre occupate solo della negazione, e probabilmente non lo sanno neanche gli amanti, tanto sono sconosciuti persino a loro stessi quando per la prima volta si trovano davanti a ciò che sono, contro tutto ciò che gli è stato insegnato come buono e giusto.
È una parte di sé che si svela e si rivela, mai incontrata prima.
“Amante” è participio presente del verbo amare, niente altro, quale che sia l’amore e di qualsiasi specie esso sia.
Eppure è come se per il “paese” non si trattasse neanche di amore, ma solo della sua veste sconveniente, del suo peccato originario, col quale si coniugano altri verbi, in altri tempi, e si invoca rispetto, pudore, timore.
Quando non si gridi addirittura allo scandalo.
Allora gli amanti espiano la colpa di avere incontrato questo sentimento anche senza averlo cercato, senza averne mai avuta la consapevolezza, determinato solo dalla purezza del proprio sentire. Poco importa.
Espiano Paolo e Francesca, espiano Giulietta e Romeo, espiano Lancilotto e Ginevra, espia Madame Bovary l’illusione del suo amore e con lei Anna Karenina.
Persino lo scrittore Oscar Wilde espia il suo amore per lord Alfred Douglas, amore che si fa letteratura nelle sue lettere dal carcere:
“Il tuo amore giunge a me attraverso le sbarre della prigione e mi conforta, il tuo amore è la luce che illumina le mie ore. Coloro che non sanno cos’ è l’amore, scriveranno, lo so, se il destino ci sarà avverso, che io ho avuto una cattiva influenza sulla tua vita. Se lo scriveranno, tu dovrai scrivere a tua volta che non è così”.
Gli amanti pagano dunque la colpa di essere sconvenienti. A loro viene negato il diritto a un amore diverso tra diversi, che non trova dimora nel mondo così com’è, o meglio, come ci è stato imposto, voluto da coloro che hanno deciso cosa debba essere il mondo e soprattutto a chi va riservato un posto e a chi no.
Allora “Amante” diviene il participio di nulla.
Cancellato il verbo, gli amanti restano infelici di una felicità che non trova compimento. Il privilegio del loro amore unico è la colpa stessa.
Essi si struggono e distruggono, si cercano e si respingono. Sono divenuti isole sconosciute nel mare del normale, dove tutti navigano sulle onde delle abitudini e del perbenismo rassicurante dei precetti che rendono il viaggio regolare, col biglietto pagato e il posto riservato.
Gli amanti invece sono clandestini a bordo, nascosti nella stiva, che non sanno nemmeno quale sia la meta del viaggio. Si sono imbarcati per un chissà dove, convinti di arrivare prima o poi in un porto, ma non sanno quale.
Sono sospinti da onde imprevedibili e su di loro incombe l’imprevidibilità di dover scendere a una qualsiasi fermata. Di essere scoperti, accusati e condannati.
Sarà per questo che si stringono le mani al buio, sempre come fosse l’ultima volta, si cercano l’uno negli occhi dell’altro e ad ogni sguardo corrisponde una conferma, un: “Tu esisti, perché sei importante per me”. Tra loro è un dirsi, tra le righe, ciò che resta sospeso nell’ineluttabilità dei loro destini: “Non so cosa sia questo viaggio, ma non vorrei mai scendere senza di te”.
Ecco perché gli amanti sono infelici di felicità, vivono nella promessa di domani, si nutrono di un mondo nel quale ciascuno attinge al mondo dell’altro, trovando un compromesso con la propria realtà così che insieme si riscrivono una vita; più sono ostacolati, più il loro amore si rinsalda, più sono incompresi, più cercano comprensione nel proprio mondo, quello che si inventano ogni giorno.
Il loro viaggio è tutto un cercarsi che finirà dove si incontreranno, volendo citare William Shakespeare :
“I viaggi finiscono laddove s’incontrano gli amanti”.
Un incontro alla fine del viaggio se lo figura perfettamente Irene Nemirovsky, quando nel libro intitolato “Suite francese”, nell’episodio che ha per titolo “Dolce”, l’ufficiale tedesco pronuncia il seguente discorso alla sua amata Lucille:
«Signora, dopo la guerra ritornerò. Mi permetta di tornare. Tutti i nostri contrasti tra Francia e Germania saranno vecchi… dimenticati… per almeno quindici anni. Una sera suonerò alla sua porta. Lei mi aprirà e non mi riconoscerà, perché sarò in abiti civili. Allora io dirò: “Sono… l’ufficiale tedesco… si ricorda? Ora c’è la pace, la felicità, la libertà. La porto via con me”. Partiremo insieme. Le farò visitare molti paesi. Io naturalmente sarò un compositore famoso, e lei sarà bella come adesso…»
E Lucille, donna sposata, che per di più si ritrova a vivere l’amore verso un soldato nemico, contro ogni convenzione sociale, non desidera altro che essere lasciata in pace:
“Ma lui non è più responsabile di me! Non è colpa nostra. Che ci lascino in pace.. che ci lascino stare! (…) Com’era dolce, mio Dio, quell’amicizia fra lei e il tedesco, quel segreto rubato, quel mondo nascosto nel cuore della casa ostile!”
Gli amanti, nonostante la propria difficoltà, riescono a superare anche l’assurdo della realtà più cruda e più drammatica, quanto può esserlo una guerra, si vivono i propri istanti di felicità, pur restando infelici dell’incompiutezza loro, e si promettono una vita nuova.
“Rinchiudere l’universo in un armadio. Questo è il sogno di ogni collezionista. E siccome questo sogno è irrealizzabile, i veri collezionisti, come gli amanti, anche nella felicità vengono colti da tristezza infinita. Sanno che non potranno mai chiudere a chiave la terra intera, mettendola in una vetrina. Da qui viene la loro profonda malinconia”, scrisse Anatole France, premio Nobel per la letteratura nel 1921, lasciandoci questa metafora molto suggestiva.
Certo è che nessuno, e meno che mai gli amanti, potrà rinchiudere la terra intera in un armadio e, probabilmente coloro che pensano di possedere le chiavi di questo armadio, i custodi del nulla, sono condannati a restare i più infelici. Più infelici degli infelici amanti, e non lo sanno.
Fino a poco tempo fa mi sono nascosta dietro l’eteronimo di Nota Stonata, una introversa creatura nata in una piccola isola non segnata sulle carte geografiche che per una certa parte mi somiglia.
Sin da bambina si era dedicata alla collezione di messaggi in bottiglia che rinveniva sulla spiaggia dopo le mareggiate, molti dei quali contenevano proprio lettere d’amore disperate, confessioni appassionate o evocazioni visionarie.
Oggi torno a riprendere la parte di me che mancava, non per negazione o per bisogno di celarla, un po’ era per gioco un po’ perché a volte viene più facile non essere completamente sé o scegliere di sé quella parte che si vuole, alla bisogna.
Ci sono amici che hanno compreso questa scelta, chiamandola col nome proprio, una scelta identitaria, e io in fin dei conti ho deciso: mi tengo la scomodità di me e la nota stonata che sono, comunque, non si scappa, tentando di intonarmi almeno attraverso le parole che a volte mi vengono congeniali, e altre invece stanno pure strette, si indossano a fatica.
Nasco poeta, o forse no, non l’ho mai capito davvero, proseguo inventrice di mondi, ora invento sogni, come ebbe a dire qualcuno di più grande, ma a volte dentro ci sono verità; innegabilmente potranno corrispondervi o non corrispondervi affatto, ma si scrive per scrivere… e io scrivo, bene, male…
… forse.
Francesca Suale
In genere alle persone piace complicarsi la vita oppure è la vita che sceglie per noi. Da sempre il genere umano si interroga sull’amore, il rispetto, la lealtà, le regole e il loro eventuale mancato rispetto. Amicizia e amore a volte vengono idealizzate, magari per una esigenza o una insicurezza, per un bisogno e a volte si potrebbero prendere impegni o fare promesse che poi non si possono mantenere. A volte si desidera ciò che non si può avere o ottenere, non so se questo è amore. Non si può imporre a nessuno chi o cosa amare o desiderare o sognare, a volte è difficile impedire a se stessi di desiderare qualcosa che non si potrà avere. L’arte è emozione e spesso celebra l’infelicità oppure il sogno o l’attesa o un progetto anche difficile. La comunicazione in genere celebra e racconta la stranezza o un fatto insolito. Non è certo vero che i viaggi finiscano la dove si incontrano gli amanti. I viaggi, le avventure, i progetti continuano come la nostra vita e le mete cambiano in base alle stagioni. Ci sono tante gioie o amori molto più forti e importanti, verso un figlio o un genitore o un compagno/a fedele che durano oltre la vita anche se non vengono celebrati dall’arte perché sono la vita