Molti anni fa, dopo infinite estati trascorse, da infante e adolescente, tra sabbia e mare, subii l’inizio di una crisi di rigetto per la balneazione.
Saranno stati forse i tormentoni pseudocaraibici che mi foravano le orecchie ipersensibili, le lambade, le macarene e le altre schifezze musicali a disgustarmi, sarà stato forse l’iperconsumistico approccio alle spiagge degli umani d’occidente, zeppo di riti e di defilee, fatto sta che il mio tradizionale e fresco entusiasmo per il mare, declinò velocemente.
Giunse dunque l’ultima estate in cui ebbi contatto col mare, forzato a passare controvoglia una decina di giorni in spiaggia.
Decisi di difendermi dall’orda macarenante, per me fastidiosissima, ricorrendo ad una delle mie passioni primarie, che del resto, fino a qualche anno prima, era stato un passatempo piuttosto diffuso in spiaggia: la lettura.
I libri mi avrebbero garantito la difesa dai vuoti obblighi del balneaggio: mi sarei chiuso nei loro svariatissimi mondi, evadendo dal poco seduttivo mondo di quei giorni.
Trascorsi quel breve periodo seduto su una sdraio, schivando un sole rapace sotto il provvido riparo dell’ombrellone, leggendo i libri scelti, quelli che da tempo mi ero ripromesso di affrontare.
Leggevo, leggevo e leggevo, poi, mi alzavo per tuffarmi e dopo un bagno veloce, tornavo all’ambita ombra con un libro in mano.
Un sacrificio iniziale da lettore, fu ripagato ampiamente da un paio di scoperte fondamentali.
Quel sacrificio fu in realtà frutto della mia ostinazione: volevo leggere qualcosa di nuovo del Settecento inglese dopo Swift, Defoe e Sterne e, non so con quali speranze, mi tirai appresso “Pamela” di Richardson.
Me l’ero cercata.
Per quattrocento pagine mi costrinsi a seguire le ritrosie e gli espedienti conservativi della virtù della svenevole protagonista, impegnata per tutto il romanzo a far un’unica cosa: non “darla”, o almeno, di non farlo mai prima di farsi sposare.
In sostanza, quella era tutta la trama dell’opera: pochino davvero, ma esageratamente arredato.
Fortunatamente, tra i libri che avevo scelto c’erano anche quelli di due scrittori che non avevo ancora mai letto: l’allora quasi sconosciuto Andrea Camilleri e l’ebreo americano Chaim Potok, del quale mi aveva parlato un’amica.
Di Camilleri quei giorni lessi il favoloso “Birraio di Preston”, uno dei suoi romanzi storici, uno dei migliori in assoluto, me lo avrebbe confermato personalmente, anni dopo, il suo stesso autore.
Il libro mi diede subito la misura delle sue capacità, legate allo stile, alla lingua, alla struttura narrativa ed alla sua sottile ironia.
Mi conquistò per sempre.
Per Potok, che lessi subito dopo, ebbi una folgorazione: aggredii il suo romanzo “Il mio nome è Asher Lev” senza staccare quasi mai gli occhi dalle sue pagine.
La spiaggia e i suoi rumorosi occupanti sparirono, e più andavo avanti a leggere e più mi chiedevo come fosse possibile che uno scrittore di quella statura non fosse molto conosciuto da noi.
Mi si apriva di colpo un mondo sconosciuto, quello delle comunità ebraiche ortodosse, chassidiche in particolare, che dall’Europa orientale avevano trasportato nel nuovo mondo, nella Brooklyn newyorchese soprattutto, l’intero bagaglio della loro fede e della loro cultura.
Scoprii in seguito, leggendo gli altri romanzi di Potok, che il tema di quel libro era lo stesso che stava alla base dell’intera opera dello scrittore: il difficile rapporto tra fede e libertà individuale, tra le tradizioni e le inclinazioni personali.
Un tema del genere, a dirlo, può dare l’impressione che il romanzo sia pesante, noioso, troppo serio.
La verità, al contrario, è che, soprattutto per come l’argomento viene reso narrativamente, per la storia che vi si dipana e per l’eccezionale qualità della scrittura, il libro appassiona, è di quelli che , appunto, ti tengono attaccato alle sue pagine dall’inizio fino alla fine.
Asher Lev, bambino ebreo chassidico di Brooklyn, nasce con un immenso talento per la pittura, dono che si scontrerà con la tradizione religiosa e le sue apparenti chiusure al mondo moderno e alla libertà individuale.
La sua strada sarà da subito accidentata, tormentata.
Mi colpì moltissimo scoprire i percorsi attraverso i quali in quelle comunità ebraiche si tramandano fede e tradizioni.
Mi resi conto di come nelle yeshivah, le scuole religiose, si insegnino certamente i dogmi e le scritture, ma lo si fa stimolando nel contempo, anzi pretendendola, una forte attività critica, confutatoria.
Le precedenti interpretazioni dei testi religiosi debbono essere quasi obbligatoriamente confutate, criticate, migliorate.
La dialettica tra scolari e scritture risulta così serratissima e le parole sacre costantemente interpretate e reinterpretate, si mantengono così vive.
L’impressione che ricavai leggendo il mondo descritto da Potok, è che con questi metodi di trasmissione, pur riscontrandosi nell’insegnamento un peso fortissimo della tradizione religiosa e della sua cultura di riferimento, attraverso l’incoraggiamento di questa libertà di costante confutazione teorica, si realizzi un’impressionante allenamento dell’intelligenza.
Spronando chi deve apprendere, ad usare tutte le sottigliezze alle essa quali può ricorrere, mi parve di capire dal romanzo che, in fin dei conti, questo metodo porti ad un rafforzamento piuttosto che ad uno smagliamento di principi dalla durata millenaria.
Come ho già detto, tornato da quella strana maratona di letture balneari, mi affrettai a procurami gli altri libri di Chaim Potok, testi che mi confermarono pienamente l’idea che mi ero fatto in merito alla qualità letteraria del loro autore.
Mi regalarono puntualmente la stessa furia di leggerli, di andare avanti nella trama.
Più che divorarli, insomma, fui divorato io da quei romanzi, e come sempre cercai di sapere qualcosa di più su chi li aveva scritti.
Herman Harold Potok nacque a New York, nel Bronx, il 17 febbraio del 1929 da una famiglia di ebrei provenienti dalla Polonia.
Il nome ebraico Chaim Tzvi, che i genitori gli diedero rispettando la tradizione, nome che significa “vita”, fu quello che poi lo scrittore adottò anche come pseudonimo.
L’educazione che ricevette comprese sia l’ovvia e forte base religiosa, con lo studio attento del Talmud, che il vasto complesso della cultura secolare.
Cominciò presto a scrivere, aveva appena 16 anni, e inviò subito un suo manoscritto alla rivista Atlantic Monthly, lavoro che seppur non pubblicato, indusse l’editore in persona a complimentarsi col ragazzo.
A vent’anni, nel 1949, alcune sue storie apparvero sulla rivista letteraria della Yeshiva University.
In quello stesso ateneo Potok, nel 1950, si laureò con lode in Letteratura Inglese.
Subito dopo si dedicò allo studio della letteratura ebraica conseguendo un master poi, dopo quattro anni di studi allo Jewish Theological Seminary, fu ordinato rabbino.
Ebbe nel tempo vari incarichi legati alla sua carica e per oltre un anno fu anche cappellano in Corea durante la guerra.
Nel 1958 sposò Adena Sara Mosevitsky dalla quale ebbe tre figli.
Parallelamente alla carriera religiosa, Potok si dedicava costantemente al lavoro letterario.
La svolta della sua vita avvenne nel 1967, con l’uscita del romanzo “The Chosen”, da noi tradotto col titolo di “Danny l’eletto”, che ebbe un successo straordinario: rimasto nelle classifiche dei best sellers per trentanove settimane, vendette in uscita 3.400.000 copie.
In effetti la storia dell’amicizia tra Reuven e Danny, ragazzi di due comunità ebraiche in contrasto teologico tra loro, figlie della stessa fede ma diverse e rivali, e delle loro lotte con padri assai ingombranti per arrivare a vivere secondo le proprie inclinazioni, era materia vivissima e appassionante.
Appagante soprattutto perchè maneggiata da uno scrittore di grande bravura e sensibilità.
Alla vicenda personale dei protagonisti dava spessore anche l’eco dei gravi fatti storici che gli facevano da sfondo: le guerre, l’antisemitismo e la Shoah, vicende che seppure si originavano in Europa, non potevano non avere enormi riflessi in America.
La notorietà che quel romanzo concesse al suo autore fu accresciuta anche da una trasposizione cinematografica realizzata parecchi anni dopo, nel 1981.
Nel 1969 Potok pubblicò “The Promise”, da noi tradotto “La scelta di Reuven”, un romanzo che riprendeva e concludeva la vicenda di quello precedente. Anche questo libro, che era godibilissimo seppur un po’ meno riuscito del primo, ebbe un grandissimo successo.
Nel frattempo lo scrittore era diventato l’editore di “Conservative Judaism” e della “Jewish Publication Society”.
Nel 1970 si trasferì con la famiglia a Gerusalemme, rimanendo a vivere in Israele per sette anni.
In quel periodo scrisse e pubblicò “My name is Asher Lev”, il libro cui facevo cenno all’inizio di questo scritto, quello che mi fece conoscere Potok, più un altro romanzo di formazione, “In the beginning”, “In principio”.
Nel 1978, evadendo per una volta dal campo narrativo, scrisse anche un saggio sulla storia degli ebrei.
In quello stesso anno fece definitivo ritorno negli Stati Uniti, a Philadelphia.
Ormai ogni suo libro poteva contare su una numerosa schiera di lettori devoti, costantemente rassicurati sul fatto che la qualità letteraria della produzione di Potok non era suscettibile di cali.
Così, per un paio di decenni ancora, lo scrittore scrisse e pubblicò opere di sicuro livello, titoli come: “Il libro delle luci”; “L’arpa di Davita”, con una protagonista femminile, e “Il dono di Asher Lev”, uscito nel 1990, convincente seguito del primo romanzo dedicato a quel personaggio.
Gli anni Novanta lo videro sempre attivo e produttivo, anche le sue uscite letterarie di quel decennio, abbastanza frequenti, si tennero su un ottimo livello qualitativo.
“Io sono l’argilla”; “L’albero di qui”; ”Il maestro della guerra”; “Novembre alle porte” e le storie di “Zebra e altri racconti”: tutte queste opere resero testimonianza di un lavoro prezioso, che stava purtroppo per concludersi.
Dopo la pubblicazione, avvenuta nel 2001, del suo “Vecchi a mezzanotte”, allo scrittore venne riscontrato un tumore al cervello.
A luglio dell’anno successivo Chaim Potok morì nella sua casa di Merion, in Pennsylvania.
Al di la di una straordinaria bravura narrativa, di cui si gode con tanta naturalezza da non accorgersene nemmeno, leggere le opere di questo scrittore significa anche accostarsi dall’interno ad un mondo affascinante ed alla sua cultura millenaria.
Piermario De Dominicis, appassionato lettore, scoprendosi masochista in tenera età, fece di conseguenza la scelta di praticare uno sport che in Italia è considerato estremo, (altro che Messner!): fare il libraio.
Per oltre trent’anni, lasciato in pace, per compassione, perfino dalle forze dell’ordine, ha spacciato libri apertamente, senza timore di un arresto che pareva sempre imminente.
Ha contemporaneamente coltivato la comune passione per lo scrivere, da noi praticatissima e, curiosamente, mai associata a quella del leggere.
Collezionista incallito di passioni, si è dato a coltivare attivamente anche quella per la musica.
Membro fondatore dei Folkroad, dal 1990, con questa band porta avanti, ovunque si possa, il mestiere di chitarrista e cantante, nel corso di una lunga storia che ha riservato anche inaspettate soddisfazioni, come quella di collaborare con Martin Scorsese.
Sempre più avulso dalla realtà contemporanea, ha poi fondato, con altri sognatori incalliti, la rivista culturale Latina Città Aperta, convinto, con E.A. Poe che:
“Chi sogna di giorno vede cose che non vede chi sogna di notte”.