“Che cazzo di giornata…” pensò Sgronz mentre, stropicciato e sudato come una ascella d’agosto, tornava verso la caverna.
Le ombre della sera per il momento si tenevano a distanza e una calda luce tardo pomeridiana planava sul villaggio coi suoi toni dorati.
Sgronz camminava sereno, la giornata di caccia era finita. L’ermellino che aveva appena spacciato se lo era messo intorno al collo, a mo’ di sciarpa: la bestiola aveva la bocca spalancata e gli occhi sbarrati e interrogativi in una sorta di fermo immagine sullo stupore atterrito che l’aveva pietrificata non appena si era accorta della clavata che viaggiava inesorabile verso la sua zucca.
A questo punto sarà tuttavia necessario introdurre nel racconto due importanti precisazioni:
1°) Sgronz non pensò esattamente “Che cazzo di giornata”, come capita a noi nei rarissimi casi in cui sfuggiamo per un istante alla tirannia dei nostri bei modi.
Nella lingua degli uomini di Neanderthal della piana pontina, la frase originale suonava più o meno così: “Tag Rap Hi Pop Merdz Fede Z Strupt Rrrghrr”.
D’accordo, d’accordo, non è roba facilissima da comprendere. Anche considerando le forti affinità culturali tra quei lontanissimi progenitori e parecchi dei connazionali e concittadini dei nostri giorni, è probabile che oggi ci siano in circolazione al massimo due o tre persone in Italia in grado di capire il linguaggio neanderthaliano (una di esse ha avuto un ruolo di primo piano nel governo)…
Si è quindi deciso, d’ora in poi, di procedere traducendo direttamente nella nostra lingua gli eventuali brani linguistici originali.
2°) La sciarpa, come indumento, nel Paleolitico Medio non era stata ancora inventata.
All’epoca l’abbigliamento più usuale si ispirava ad uno stile decisamente più informale ed essenziale di quello odierno. Si potrebbe anzi affermare, senza esagerare, che fosse un look pauperistico estremo a dominare incontrastato le passerelle dell’alta moda munsteriana.
La caverna di Sgronz era uno dei pochi monolocali del genere che si affacciassero sul corso principale del piccolo villaggio di Lik-Thoria e questo suo piccolo vezzo retrò dell’abitare in grotta, faceva di lui una figura romantica agli occhi delle donne di Neanderthal, poco abituate a raffinatezze intellettuali.
La maggioranza dei residenti in effetti si era incapricciata delle palafitte bi o trifamiliari, che permettendo una socialità maggiore, favorivano il modello della famiglia allargata.
E se è vero che uno dei vantaggi di quello stile coabitativo stava nel fatto che tutti fornicavano allegramente con tutti, moltiplicando così la specie, era altrettanto vero che esso presentava una cospicua controindicazione.
Erano le liti, le zuffe che avvampavano frequentemente accendendosi in un solo istante, e che dovute di solito a futilissimi motivi, si traducevano in azioni così ineleganti e ruvide da deprimere a mazzate il già poco esaltante indice demografico, ricacciandolo all’indietro.
Comunque sia, le palafitte piacevano eccome, facevano scena e rispetto alle caverne sapevano di moderno.
La stessa natura geologica del luogo sul quale sorgeva Lik-Thoria era tale da accrescere glorie e patrimoni dei grandi costruttori di palafitte.
Il loro peso politico e sociale era preponderante nel villaggio e l’uso che essi ne facevano era a dir poco impudico.
Una volta fattisi eleggere nel Consiglio dei Saggi, un organo amministrativo composto interamente, come è ovvio che fosse, da avidissimi analfabeti, gli imprenditori edilizi in qualità di membri del Consiglio decretavano l’edificabilità di lotti di terreno al riparo dalle paludi ma destinati ad usi collettivi, e nella loro veste di costruttori realizzavano poi interi quartieri di palafitte.
La loro condizione di analfabeti rimaneva, a ben vedere, l’unico difetto ad essi perdonabile in un periodo come il Paleolitico Medio, nel quale la scrittura non era stata ancora inventata.
Lik-Thoria possedeva, come si è detto, una fisionomia peculiare. La si sarebbe potuta definire un isolotto di terra, prossimo al mare e circondato da zone assai infide: acquitrini, paludi, qualche megazolla edificabile e numerose cavità sotterranee.
Dell’esistenza di queste ultime ci si rendeva conto quando, aprendotisi di botto sotto i piedi, ti ingoiavano completamente: anima, corpo e bestemmie.
Per i neanderthaliani pontini che nonostante le cure naif degli stregoni riuscivano a guarire dalle fratture conseguenti, quello fu un modo attraverso il quale parecchi di loro, sia pur involontariamente, si ritrovarono ad essere proprietari di un immobile, un locale che venne chiamato “seminterrato”, la cosiddetta cantina o tavernetta.
Ma torniamo al nostro eroe. Sgronz era single.
Sì, qualche bottarella isolata riusciva pure a raccattarla qua e là, ma non si era mai voluto impegnare in qualcosa di più serio e non doveva quindi soggiacere a fastidiose smanie di ordine o di pulizia.
Arrivato a casa infatti, gettò senza alcuna cura, in un angolo qualsiasi, l’ermellino, la clava e il giavellotto, producendo un rumore che rimbombò sgraziatamente attraverso le pareti di casa, trapanando il cranio del suo vicino Sgraarz, un soggetto difficile, poco dialettico, sempre nervosetto per via delle lancinanti emicranie di cui soffriva, lascito sgradito di una sfortunata rissa con mazze truccate, avvenuta un paio d’anni prima.
Per evitare i soliti bisticci di vicinato, Sgronz decise di uscire subito dalla caverna lasciandosi dietro l’urlo di Sgraarz, una specie di sirena insopportabile a crescente intensità:
”aaaaaaaaaaarrAAARRRGHHHH”.
“Passo al Circolo”, pensò in un primo momento, cambiando in fretta idea per via di un debituccio in granchi che avrebbe dovuto rifondere, avendo perso senza gloria una partita a battimuro con dei volponi.
Meglio allora strusciare verso Tronczh Mussrrhollinih (Piazza Mussrhollinih) e farsi un frullo di bacche con gli amici del Brrargh Mhimhih (Bar Mhimhih).
Arrivò in pochi minuti e li trovò tutti accampati attorno al lastrone di pietraccia, forse un menhir riciclato, che fungeva da tavolo e sul quale stavano poggiati, in numero esorbitante, i corni zeppi di succo di bacca.
La conversazione era già animatissima e i grugniti volavano al cielo che era una bellezza.
L’incombere dolce della sera favoriva le romanticherie, così Sgronz e gli altri cominciarono gradatamente a spararle grosse.
Uno raccontava dell’orso delle caverne che aveva sloggiato a clavate da una grotta perché l’aveva adocchiata come possibile pied-à-terre per portarci Clhara, un femminone esuberante, notoria sbucciamaschi.
Un altro sosteneva senza arrossire di aver lanciato il giavellotto verso l’alto mentre nuotava sott’acqua e di aver trafitto e spacciato un’aquila in ricognizione.
Ad un certo punto si accennò pure alla caduta in disgrazia di Mlvso, un costruttore di palafitte che aveva fatto dichiarare edificabile anche la cospicua superficie della trippa di sua suocera facendosi pizzicare.
Groghh ricordò che Pasqhuo Tshirto, un tempo re della tracotanza, per varie marachelle altrettanto irrispettose delle proprietà collettive, languiva ancora, rigidamente sorvegliato dai pubblici bastonatori, nell’inospitale palafitta sanitaria.
Per alleggerire un po’ l’aria, che si era fatta pesantuccia, Trokpt, famoso nel circondario per essere stato l’unico della comunità ad essersi lavato una volta, anni prima, tirò fuori il flautino d’osso e si fece un po’ di musica. A una ventina di metri da questa allegra brigata, al centro dello spiazzo, alcuni neanderthaliani coperti da nere pelli di rinoceronte lanoso facevano esercizi ginnici con le clave.
Uno di essi, con un mascellone che pure tra gli australopitechi avrebbe fatto la sua brava figura, ritto su un sasso, ne riceveva il saluto a zampe tese, arringandoli strillando. Sgronz, che si era per un momento estraniato dal fitto cicaleccio di chiacchiere da bar, ascoltò, senza averne intenzione, un frammento del suo discorso:
Neanderthal sul sasso (a voce molto alta): “Dovrete tenervi sempre in allenamento smidollati!
Piegatevi e non spezzatevi, perché l’ora del destino suona il campanello di casa”.Subito dopo (a voce appena sussurrata): “Ma che accidenti sto dicendo?”
Voce non identificata: “Scusi chapo, che minchia sarebbe il campanello?”
Neanderthal sul sasso: “Tu non fare domande sceme: il campanello è per l’appunto un campanello, tutto qui. Ascoltate tutti piuttosto: la storia vi guarda anche se la geografia, almeno per ora, vi ignora. Ma qualcosa sta per cambiare e si deve star pronti. Siamo minacciati. Il conflitto con quei fighetti di San Felice Circeo è ormai inevitabile. Uno di noi ci ha anche rimesso la ghirba, ce ne siamo accorti nonostante quegli stronzi avessero buttato il cadavere in una grotta mezzo nascosta.
Abbiamo già inoltrato tramite i nostri rappresentanti la dichiarazione di guerra, accompagnata da un bel po’ di clavate.
L’imperativo, unico e categorico, è: non si punti al pareggio! Possiamo mai, d’altronde, perdere con quei frocetti dei Sapiens?
Con dei maschi che si mettono addosso tutte quelle collanine?
Maddai: forza e valore sono dalla nostra parte, Cavernicoli di Lik-Toria:
si vince facile, non c’è partita…”
Sgronz scosse la testa scoraggiato, si annunciavano tempi insensati. Di colpo ebbe bisogno di quiete.
Pensò così di tornarsene in caverna e mettere l’ermellino sul barbecue. Salutò la truppa degli amici e si avviò.
**************
“Tarallo!? Tarallo! TARALLO!! Si svegli su, e che diamine! Il quarto tempo è finito or ora. Sa che le dico?
Credo proprio che lei non fosse sufficientemente preparato per affrontare “Come Yukong spostò le montagne”.
Non lo sapeva che il Maestro Joris Ivens aveva realizzato una pellicola che dura undici ore?
E dire che è stata mia l’idea di proporle un’esperienza culturale così alta.
Ma lei…lei…è…un… Che razza di figura mi fa fare!
La guardavano tutti, faceva pure i rumorini, i rantolini. Mi ha anche detto di essersi rimpinzato di fagioli con le cotiche prima di venire: roba da pazzi!
Mi dica lei se si può essere così ruspanti, così rozzi, così..così, come dire ancora, ah sì:
così cavernicoli!
Con un ringhio afferrai quello snob di Sapiens del cavolo: era il curatore della pagina culturale della “Gazzetta di Borgo Faiti” che avevo conosciuto ad un corso di aggiornamento sulle conseguenze del daltonismo nel reportage di guerra.
Lo presi per il bavero della giacca e lo scagliai lontano, seguitando a emettere una sorta di incontrollato barrito, un furioso ruggito.
Fui stupito dalla mia forza.
Le braccia ora mi pendevano abbandonate lungo i fianchi, mi pareva pure che mi si fossero allungate.
Sgronz era ancora in me.
Lallo Tarallo, giovane sin dalla nascita, è giornalista maltollerato in un quotidiano di provincia.
Vorrebbe occuparsi di inchieste d’assalto, di scandali finanziari, politici o ambientali, ma viene puntualmente frustrato in queste nobili pulsioni dal mellifluo e compromesso Direttore del giornale, Ognissanti Frangiflutti, che non lo licenzia solo perché il cronista ha, o fa credere di avere, uno zio piduista.
Attorno a Tarallo si è creato nel tempo un circolo assai eterogeneo di esseri grosso modo umani, che vanno dal maleodorante collega Taruffi, con la bella sorella Trudy, al miliardario intollerantissimo Omar Tressette; dall’illustre psicologo Prof. Cervellenstein, analista un po’ di tutti, all’immigrato Abdhulafiah, che fa il consulente finanziario in un parcheggio; dall’eclettico falsario Afid alla Signora Cleofe, segretaria, anziana e sexy, del Professore.
Tarallo è stato inoltre lo scopritore di eventi, tra il sensazionale e lo scandaloso, legati ad una poltrona, la Onyric, in grado di trasportare i sogni nella realtà, facendo luce sulla storia, purtroppo non raccontabile, di prelati lussuriosi e di santi che in un paesino di collina, si staccavano dai quadri in cui erano ritratti, finendo col far danni nel nostro mondo. Da quella faccenda gli è rimasta una sincera amicizia col sagrestano del luogo, Donaldo Ducco, custode della poltrona, di cui fa ampio abuso, intrecciando relazioni amorose con celebri protagoniste della storia e dello spettacolo.
Il giornalista, infine,è legato da fortissimo amore a Consuelo, fotografa professionista, una donna la cui prodigiosa bellezza riesce ad influire sulla materia circostante, modificandola.
Lallo Tarallo è un personaggio nato dalla fantasia di Piermario De Dominicis, per certi aspetti rappresenta un suo alter ego con cui si è divertito a raccontarci le più assurde disavventure in un mondo popolato da personaggi immaginari, caricaturali e stravaganti