Shostakovich: gridare nel silenzio

                              

Caratterizzata da toni tristi e a volte disperati e da un linguaggio tormentato, la decima sinfonia di Shostakovich può essere considerata la raffigurazione emblematica degli anni dell’oppressione stalinista; composta tra luglio e ottobre 1953, quando Stalin era appena morto in marzo, venne eseguita per la prima il 17 dicembre di quell’anno a Leningrado sotto la direzione di Evgenij Mravinskij.

Il lavoro destò subito una vasta eco, tanto che l’Unione dei compositori sovietici indisse nel marzo dell’anno seguente un incontro di tre giorni per discutere il contenuto della partitura; da più parti vennero criticati l’astrazione della musica di Shostakovich, e il suo carattere pessimistico, caratteristiche lontane dalle direttive dell’estetica di regime, che imponeva una musica ottimistica, celebrativa e di facile accessibilità. Tuttavia le maglie di queste direttive si andavano progressivamente allentando poiché Stalin era morto e indubbiamente la scomparsa del dittatore diede luogo a un risveglio di libertà nel campo artistico.

Dopo la nona c’erano voluti cinque anni prima che Shostakovich avesse di nuovo la forza di scrivere un’altra sinfonia.

Dmítrij Dmítrievič Šostakóvič, Shostakovich, mentre suona il pianoforte

Molta responsabilità per questo vuoto creativo era da ascrivere al dittatore, che nel 1948 aveva scagliato il suo scherano culturale, Andrey Zdanov, in una caccia alle streghe musicale che intimidì non solo Shostakovich, ma anche molti dei suoi colleghi come Prokofiev e Khachaturian. 
Sarebbe stata, la decima, l’ultima delle grandi sinfonie tragiche di Dimitri che erano iniziate con la Quarta passando per la titanica Ottava. Ma la decima aveva anche qualcosa che le precedenti sinfonie non avevano, cioè introduceva un elemento di ciclicità nella sinfonia, con l’utilizzo di un tema nel primo movimento che si ripresentava nel terzo movimento e col tema del velocissimo scherzo che faceva una drammatica apparizione nel finale. Come a ricordare una scrittura finalmente libera da ingerenze esterne, il compositore citava sé stesso utilizzando un tema formato dalle proprie iniziali, corrispondenti alle note re-mi bemolle-do-si, (D-eS-C-H nella notazione tedesca).
La Decima Sinfonia non si avventurava nella notte dell’umanità quanto l’Ottava, scritta dopo l’orrore della 2° guerra mondiale, benché vi fosse in essa un continuo rimuginare sulla parte più oscura dell’esistere che si esprimeva nella più intensa drammaticità mai ascoltata in una composizione sinfonica moderna.
Di fronte al pirotecnico secondo movimento non si riesce ad immaginare nessun altro pezzo che crei, nel breve lasso temporale di quattro minuti, un tale devastante attacco di pura e maniacale furia. Qui si permette alla musica di muoversi tra estremi opposti consentendo al dramma di elevarsi a tali picchi, per momenti apparentemente lunghi, al punto che la tensione diventa quasi insostenibile.                                                    

SHOSTAKOVICH: Complete Symphony No 10 in E minor op 93-Dir. Valery Gergiev-Orq. Mariinsky theatre

In questa sinfonia di ampie dimensioni, il primo movimento ha un andamento drammatico. Al tema iniziale, una melodia tenebrosa esposta da violoncelli e contrabbassi, fanno seguito un’idea proposta dal clarinetto e un motivo affidato al flauto; i temi vengono sviluppati in un continuo processo di tensione e rilassamento nel quale le linee melodiche s’intrecciano e sovrappongono. Nello sviluppo compare un ritmo di valzer allucinato che ritroveremo nell’allegretto del terzo movimento. L’atmosfera tesa e cupa permane anche nell’evanescente chiusura, sottolineata dalle note stridule dell’ottavino.
Il secondo movimento, come detto, è breve, ma di grande efficacia espressiva, e il musicologo Solomon Volkov ritiene che la potenza e la violenza di questa sezione siano la raffigurazione del vivere sotto Stalin.

Il secondo movimento della Sinfonia n°10

Lo scopo principale del terrore, che Stalin aveva inflitto al popolo sovietico già dagli anni ’30, era semplicemente quello di creare la paura stessa. Il dittatore credeva che avrebbe mantenuto il potere fino a quando non ci fosse stato uno sforzo unificato per opporsi a lui e non questo mai sarebbe stato possibile se tutti erano spaventati non solo da lui, ma anche l’uno dall’altro.
La sfiducia era stata creata convincendo quante più persone possibile a denunciare i propri concittadini come nemici dello stato. Denunciare di fatto divenne uno dei principali modi di sopravvivere; persino i bambini hanno denunciato i loro genitori. Non c’era nessuna ideologia coinvolta perché Stalin preferiva che la gente lo sostenesse attraverso il terrore che con la fiducia poiché era consapevole del fatto che non si poteva fare affidamento sulle convinzioni: con il terrore chiunque era manipolabile.

Stalin in una foto del 1945

Aveva perciò deciso che un 5% della popolazione era un livello appropriato di arresti da mantenere e per fare ciò era necessaria una certa quota ogni settimana. Per soddisfare queste quote, le accuse portate erano spesso false o peggio assurde.
Isaak Babel osservò che

“un uomo poteva parlare liberamente solo con sua moglie e anche solo di notte, con le coperte tirate sulle loro teste“.

Ogni uomo era diventato un’isola. La gente viveva in estremo terrore con uno sforzo intenso per fingere di essere entusiasta del sistema. È difficile immaginare come debba essere quel tipo di paura e come si riesca a conviverci.
Tale atmosfera si nota nell’allegretto del terzo tempo dove la melodia dei bassi che apriva la sinfonia si trasforma in un valzer lugubre che costituisce il tema principale. L’ultimo movimento si apre ancora sul fraseggio sussurrato di violoncelli e bassi; l’atmosfera brumosa via via sembra diventare più vivace e colorata. Un tema nostalgico presentato dall’oboe è ripreso dal flauto e dal fagotto; segue una melodia scattante dei violini che indurrebbe ad una visione ottimistica ma il “tema di Stalin” e il “motto DSCH” ritornano contrapposizione, quest’ultimo, però, sembra prevalere prima della chiusura finale.

Occorre ricordare che tutta la sinfonia era anche una risposta al clima con cui convisse il compositore già da quando lesse sulla Pravda, il 28 gennaio 1936, un articolo che era stato scritto o ispirato da Stalin stesso e che denunciava la sua opera Lady Macbeth come “rozza, primitiva e volgare”.
Era intitolato

“Caos anziché musica”,

chiariva infine che “le cose potrebbero finire molto male” per il compositore se non avesse cambiato il suo stile d’avanguardia. Shostakovich fu immediatamente evitato da quasi tutti quelli che conosceva ed era elencato nella stampa come un nemico del popolo. Conoscerlo era pericoloso; associarsi con lui, suicida. Parenti e amici scomparivano uno ad uno nelle purghe. Non aveva ancora trent’anni e aveva pochi soldi e sua moglie era incinta. Teneva sempre, vicino la porta, una piccola valigia preparata per il tempo in cui sarebbe arrivato l’arresto previsto.

Shostakovich mentre legge la Pravda

Trovando la maggior parte della sua musica bandita e non potendo esercitare l’insegnamento nel conservatorio, Shostakovich si guadagnò da vivere scrivendo musica da film ed alcuni mediocri calderoni politici quali l’oratorio “La Canzone delle Foreste” ed una cantata “Il Sole Brilla sulla Nostra Patria”.
Eppure, parecchi lavori importanti riuscirono ad emergere da quel periodo, i più significativi dei quali sono il Quarto ed il Quinto Quartetto per Archi e nel 1950-51, i Ventiquattro Preludi e Fughe per Piano; il Primo Concerto per Violino, pur terminato nel 1948, venne messo da parte e non vide la luce del giorno fino al 1955.

La Decima Sinfonia, cerca di esorcizzare il “cielo scuro” di molte delle altre sinfonie di Mitja benché egli spesso ricada nel pessimismo “senza sole” per la maggior parte del tempo, come per esempio, all’inizio del primo movimento.
Anche il quarto movimento che tenta in certi momenti di catturare gli spiriti più sereni del finale della Nona Sinfonia, inevitabilmente permette ai suoi momenti più leggeri di trasformarsi in qualcosa di molto più serioso e drammatico.
Il primo movimento della sinfonia dunque inizia con una meditazione che si sviluppa fino a raggiungere un clima parossistico. Senza dubbio è il movimento più intenso e sofferto che Shostakovich abbia mai scritto.
Emotivamente era però una vitalità stanca e prosciugata che rifletteva la frase della Achmatova: “Che tristezza che non ci sia nessun altro da perdere e che si possa piangere”. Si sentiva l’esaurimento di tutti coloro che avevano vissuto i lunghi anni della tirannia stalinista.

Shostakovich

Era un regime la cui brutale inesauribilità Dmitri ritrasse nel fantasmagorico secondo movimento. L’emozione qui non è tanto nella rappresentazione di Stalin, quanto della più feroce rabbia che sia mai esistita. Infatti, tale era la sua presa sul popolo, che l’isteria che accompagnava il suo corteo funebre era così grande che centinaia di persone furono schiacciate a morte dai carri armati che cercavano di mantenere l’ordine e proteggere il feretro.
Il terzo tempo è un tentativo effimero di alleggerire l’atmosfera ma in realtà questo valzer è spettrale come un incubo a occhi aperti. Non sembra esserci via d’uscita fino a quando il violoncello, in un crescendo disperato, incontra una chiamata del corno enigmatica. L’assolo del corno simboleggerebbe forse una possibile alternativa all’orrore. Sfortunatamente non c’è modo di collegarsi con essa e il movimento diventa sempre più disperato: è il valzer più lacerante della storia della musica.

Nelle intenzioni dell’autore il messaggio con cui avrebbe dovuto chiudersi questo lavoro doveva essere ottimista e indurre a credere che “nonostante tutti gli orrori, la vita stessa è bella e lo sarà sempre, nonostante i tentativi dell’uomo di rovinarla. Il mondo si rinnoverà sempre nonostante tutto”.
Il finale si apre in un paesaggio desolato, quasi siberiano con le voci dei fiati che cercano di comunicare attraverso le pianure spoglie dell’animo.

E’ la musica più lenta della sinfonia, un ricordo della desolazione che i prigionieri dei gulag stavano vivendo giorno per giorno e che sopravvivere ai campi era un miracolo e non era raro che quaranta uomini fossero tenuti in una cella costruita per quattro.
In effetti, molti furono semplicemente fucilati e la loro esistenza terminava con la presunzione che, se fossero stati ancora vivi, avrebbero lavorato meno di quanto dovuto o mangiato più della loro parte. A casa, intanto, la vita continuava e il finale vuole dipingere il monotono, disperato e insignificante esistere di persone che cercavano di arrivare alla settimana successiva, al giorno dopo. Ma non c’è sicurezza che questa sia la cosa migliore da augurarsi: almeno ai prigionieri fu permesso di piangere, di gridare per poi morire, smettendo così di soffrire per sempre.

La descrizione di quel tempo del poeta ebreo Osip Mandelstam è su ciò illuminante:

“Siamo stati in grado di venire a lavorare con un sorriso sul nostro viso dopo una notte in cui la nostra casa era stata perquisita o un parente arrestato. Era essenziale sorridere. Se non lo facevi, significava che eri spaventato o infelice. Nessuno poteva permettersi di ammetterlo. Le purghe avevano reso tutti complici”.

Il finale è come una palla di neve, che raccoglie tutto ciò che tocca: ma in esso la musica non accellera mai più di tanto, perché come scrisse Shostakovich, “è molto difficile correre liberi quando ci si guarda costantemente dietro le spalle. Puoi fingere di giocare, ma giocherai sempre in una specie di prigione”.

Il finale della Sinfonia n°10

Mentre il fagotto inizia la coda del finale, viene raggiunto uno ad uno da tutti gli altri strumenti: nel galoppo conclusivo compare il ritmo opprimente del secondo tempo, il ritorno del rullante fa rendere conto a chi ascolta che Stalin, o chi per lui, è ancora lì che spinge e continuerà sempre, con un volto sempre diverso, a spingere la palla di neve giù per la collina. Viene in mente l’atmosfera claustrofobica di 1984 e del Grande Fratello che non si vede mai ma che è sempre presente!

Gli strumenti cercano quasi di combattere e ripetono martellando il motivo DSch e con esso l’anelito di rimanere in vita come individui, è come se l’autore gridasse: “Non sarò battuto anche se la sfida è impari e impossibile!”.

Il fatto però che l’opposizione a quel simbolo di potere sia ancora lì, tuttavia, fa pensare che Shostakovich si era già reso conto che dopo Stalin sarebbe venuto qualcun altro a opprimere il popolo russo, come sempre. Non c’è purtroppo alcun senso di sollievo alla fine di questo lavoro, solo la salda affermazione che, nonostante la tirannia, un individuo con uno spirito forte può sopravvivere con la convinzione e la speranza che l’animo umano sia più potente di ogni prevaricazione fisica e mentale.

“Anche se mi tagliano le mani, continuerò a comporre musica anche se dovessi tenere la penna tra i denti”

scrisse il musicista nel suo diario.

Non a caso nel volume “Testimonianza” di Solomon Volkov, che raccoglieva alcune memorie del compositore, si affermava che la Sinfonia “è imperniata su Stalin e sul periodo staliniano”; non sono mancate inoltre analisi per le quali alla figura del despota sarebbe legato questo o quel tema, negli altri movimenti.

Eppure – al di là del fatto che il volume di Volkov è da sempre al centro di una violenta e non sempre giustificata polemica sulla sua attendibilità – la complessità di questa partitura non si presta a chiavi di lettura semplicistiche.
Il rapporto con la morte di Stalin esisteva certamente, ma va ricercato altrove: nella nuova libertà creativa e nel taglio fortemente introspettivo della partitura, non scevro, da riferimenti autobiografici.
Proprio per questi suoi caratteri la Decima è una delle partiture che più chiaramente indicano il debito di Shostakovich verso il sinfonismo di Mahler con la fedeltà alla forma classica, ma vi è pure la sostanziale reinterpretazione di essa grazie alla presenza di un percorso evolutivo, intimo e pessimistico, nutrito dagli elementi più eterogenei e disparati.

Solo Dmitri poteva essere così ottimista, pessimista e alla fine realistico in un lavoro senza alcun senso di contraddizione. È tutto ciò rende tutte le sue sinfonie cronache realistiche e vitali dello scorso ventesimo secolo.

Lino Predel non è un latinense, è piuttosto un prodotto di importazione essendo nato ad Arcetri in Toscana il 30 febbraio 1960 da genitori parte toscani e parte nopei.
Fin da giovane ha dimostrato un estremo interesse per la storia, spinto al punto di laurearsi in scienze matematiche.
E’ felicemente sposato anche se la di lui consorte non è a conoscenza del fatto e rimane ferma nella sua convinzione che lui sia l’addetto alle riparazioni condominiali.
Fisicamente è il tipico italiano: basso e tarchiatello, ma biondo di capelli con occhi cerulei, ereditati da suo nonno che lavorava alla Cirio come schiaffeggiatore di pomodori ancora verdi.
Ama gli sport che necessitano di una forte tempra atletica come il rugby, l’hockey, il biliardo a 3 palle e gli scacchi.
Odia collezionare qualsiasi cosa, anche se da piccolo in verità accumulava mollette da stenditura. Quella collezione, però, si arenò per via delle rimostranze materne.
Ha avuto in cura vari psicologi che per anni hanno tentato inutilmente di raccapezzarsi su di lui.
Ama i ciccioli, il salame felino e l’orata solo se è certo che sia figlia unica.
Lo scrittore preferito è Sveva Modignani e il regista/attore di cui non perderebbe mai un film è Vincenzo Salemme.
Forsennato bevitore di caffè e fumatore pentito, ha pochissimi amici cui concede di sopportarlo. Conosce Lallo da un po’ di tempo al punto di ricordargli di portare con sé sempre le mentine…
Crede nella vita dopo la morte tranne che in certi stati dell’Asia, ama gli animali, generalmente ricambiato, ha giusto qualche problemino con i rinoceronti.

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