Devo a mio padre la scoperta di uno dei più originali, significativi, incisivi e poetici romanzi italiani contemporanei.
Lui è sempre stato molto presente nella mia vita nonostante il suo lavoro lo tenesse in ufficio per molto tempo: era cosciente del suo ruolo e delle responsabilità che implicava.
Cercava quindi di tenere d’occhio noi figli, di non perdere i collegamenti con quello che progressivamente stavamo diventando, e di spronarci a far bene, a scuola e fuori di essa.
Non risparmiava quindi consigli e all’occorrenza, anche serie reprimende, ma, e questo potrebbe suonare strano, non mi ha mai stimolato particolarmente alla lettura.
In realtà era sicuro che non ce ne fosse bisogno: sapeva che tutta la casa in cui vivevamo era una grande trappola che lui e mia madre avevano predisposto per catturarci irrimediabilmente all’amore per le storie, per i libri e per la letteratura.
I libri, infatti, erano ovunque, costituivano il principale arredo del nostro appartamento, erano tantissimi e stipati a forza negli scaffali di librerie presenti quasi in ogni stanza.
Io, proprio come avevano previsto i miei, in quella trappola sono rimasto invischiato irrimediabilmente e dall’età di cinque anni in poi sono stato un lettore insaziabile e indipendente.
Al contrario di quel che avveniva con mia madre, con la quale parlavamo spesso delle nostre avventure di lettura, con mio padre abbiamo continuato a leggere, ognuno per suo conto, e a non parlare tra noi di libri.
È per questo quindi, in virtù cioè della loro rarità, che mi sono rimasti impressi per sempre due suoi consigli di lettura.
Il primo me lo diede quando avevo circa tredici o quattordici anni: prese da uno scaffale l’edizione che avevamo in casa di “Se questo è un uomo” di Primo Levi e mi disse che quello era un libro che non si poteva non leggere e che era importantissimo farlo.
Mi suggerì anche di proseguire la storia con la lettura de “La tregua”.
Gli diedi retta e feci benissimo: tra tutti quelli, inestimabili, che mi ha fatto, quello è stato uno dei favori per i quali gli porto eterna gratitudine.
Nel corso della mia vita ho riletto almeno quattro volte il libro di Levi, trovando sempre, in una materia nerastra e terribile, rischiarata da una scrittura nitidissima, qualcosa di nuovo e di arricchente.
Probabilmente lo rileggerò ancora.
Circa un anno dopo, non ricordo quale fosse l’antefatto di questa cosa, mio padre mi disse che a suo parere “Il maestro di Vigevano” di Mastronardi era uno dei più bei romanzi italiani contemporanei.
In casa naturalmente quel libro c’era, così non persi tempo: lo presi ed iniziai a leggerlo.
Mi incantò: non lo mollai fino a che non lo finii di leggere.
Nonostante fossi un adolescente ero già un lettore abituale e questo mi permise di apprezzarne la scrittura, intrisa di ironia, sarcasmo e desolazione, che smascherava senza pietà le miserie della società di un centro di provincia che in virtù del boom industriale stava vivendo una rotazione dei valori tradizionali.
Mi accorsi subito che mio padre aveva ragione: quel libro, che si faceva leggere così bramosamente, era un capolavoro.
Io, a quell’età, semplicemente lo avvertivo, lo percepivo col mio istinto di lettore, ma non ero in grado di afferrare tutti significati e le grandi implicazioni letterarie e politiche del romanzo.
C’è voluta la distanza per inquadrare meglio la materia del libro, l’urlo desolato che lanciava.
Mombelli, protagonista e narratore della storia, alter ego dell’autore, col suo ruolo di maestro, da sempre ritenuto importante e degno di riguardi, era forse il tipo di figura ideale per far capire al lettore quanto il denaro, proveniente in abbondanza dalla piccola industria calzaturiera che era nata nella sua Vigevano, avesse spostato per sempre il baricentro del peso sociale delle persone.
Al muffo decoro sociale piccolo borghese, con le sue regole anguste e spesso meschine, che il protagonista chiama significativamente “catrame”, nel corso della narrazione si sostituisce la nuova gerarchia, materiale e morale, del soldo.
Le tradizionali figure di riferimento di un universo di provincia e in particolare gli statali: marescialli, impiegati comunali, insegnanti, in virtù del modesto reddito percepito, vengono accantonate bruscamente dalle loro posizioni di relativo prestigio, estromesse dal gotha di paese, quasi a metaforici spintoni, dai nuovi arrivati.
I padroncini trionfanti, titolari delle fabbrichette di scarpe, spuntate come funghi nel nascente distretto industriale lombardo, si sostituiranno col peso dei loro soldi e con l’ostentazione pacchiana e schiacciante della loro quantità, al decoro ammuffito dei ruoli tradizionali, impossibilitati a reggere un confronto economico con essi.
Tutto il tessuto sociale ruota a trecentosessanta gradi, e questa trasformazione, nella storia, come certamente è stato nella realtà, va ad intaccare fatalmente anche le relazioni personali: matrimoni, parentele, amicizie, sconvolgendole.
Nella sua crudezza illuminata da lampi di ironia che sfocia a volte in uno spesso sarcasmo, il “Maestro di Vigevano” è rimasto per sempre un grido poetico isolato nella storia della letteratura italiana contemporanea, poco conosciuto e letto ancora oggi, nonostante ne fosse stato tratto un film da Elio Petri, con Alberto Sordi per protagonista.
Italo Calvino così scrisse a Mastronardi, parlando del “Maestro di Vigevano”:
“È un libro fuori dal comune, con una forza dentro, una forza di disperazione, una visione assolutamente nera dell’umanità, che riesce a diventare visione poetica. Lo pubblicheremo senz’altro e sarà un avvenimento”.
La figura tormentata del suo autore, Lucio Mastronardi, ha avuto un destino analogo a quello della sua opera, e pur avendo scritto un capolavoro, rimane sconosciuta ai più, ignorata anche da molti lettori appassionati.
Mastronardi era nato a Vigevano nel 1930; sua madre, lombarda, era maestra elementare, suo padre, abruzzese, era un ispettore scolastico messo anticipatamente a riposo per le sue idee politiche dal Ministero della Pubblica Istruzione.
Rivelatosi subito come un carattere ispido e insofferente alla disciplina, il giovane Lucio ebbe un percorso scolastico accidentato che attraverso varie vicissitudini lo portò a spostarsi dal Ginnasio di Vigevano alle Magistrali dove ottenne, da privatista, il diploma di maestro elementare.
L’esordio come insegnante lo fece nella scuola del carcere del suo paese, da precario, ma nel 1955 entrò in ruolo divenendo maestro ed insegnando a Casorate Primo e poi a Vigevano.
Tranquillizzato sul piano economico, Mastronardi prese a scrivere: la narrativa si rivelò per lui una passione appagante e riuscì a pubblicare quattro suoi racconti su un giornale locale.
Confortato da questa possibilità, iniziò la stesura di un romanzo ed Elio Vittorini, che aveva intanto conosciuto, vide in quelle pagine un indizio confortante delle qualità di narratore del giovane Lucio, incoraggiandolo a completare il lavoro.
Il libro, “Il calzolaio di Vigevano”, uscirà sul primo numero della rivista Il Menabò, apprezzata da una ristretta cerchia di letterati, e sarà ben valutato dagli addetti ai lavori e in particolare da Eugenio Montale che nel 1959 ne scriverà una favorevolissima recensione sul Corriere della sera.
Il romanzo venne poi ristampato dalla Einaudi e fu il primo di una trilogia di argomento vigevanese.
Successivamente infatti Mastronardi scrisse “Il maestro di Vigevano”, il suo capolavoro, e “Il meridionale di Vigevano”.
Quelle storie, che mettevano sotto i riflettori “la capitale delle scarpe” e la sua vita sociale, suscitarono non poche polemiche, soprattutto in ambito locale, ma possedevano una forza ed un carattere tali da farle definire “I Malavoglia del boom economico”.
Mastronardi iniziò una proficua collaborazione col quotidiano “L’Unità”, sempre più apprezzato dalla critica, ma la notorietà acquisita non riuscì a modificare il suo carattere ombroso e tormentato, tanto che, in seguito ad una lite in treno con un ferroviere, venne arrestato e condannato a due anni di manicomio criminale.
Dispensato dall’insegnamento, venne spedito ad Abbiategrasso a svolgere lavori di segreteria, ma chiese poi di essere trasferito a Milano.
Venne accontentato e quel periodo nel capoluogo lombardo, nel quale fece il bibliotecario, per qualche tempo moderò i suoi problemi emotivi.
Riprese a scrivere pubblicando nel 1969, con la Rizzoli, il racconto “La ballata del vecchio calzolaio” e subito dopo, quello che sarà il suo ultimo romanzo: “A casa tua ridono”.
Nel 1972 ricominciò ad insegnare ad Abbiategrasso, ma per via di una lite violenta col suo direttore scolastico, finì in carcere a San Vittore per tre giorni, venendo poi condannato a quattro mesi con la condizionale.
L’esperienza ovviamente peggiorò notevolmente il suo stato mentale.
Dopo qualche tempo, dopo l’ennesimo battibecco con un dirigente scolastico, tentò il suicidio gettandosi dal balcone, salvandosi solo perché un’automobile parcheggiata attutì l’impatto della sua caduta.
Successivamente, in un periodo di ritrovata serenità, sposò una collega, dalla quale nel 1975 ebbe una figlia.
Quel momento di calma tuttavia non durò molto e Mastronardi venne ripreso dalla sua solita inquietudine.
Nel dicembre del 1978 venne ricoverato al Policlinico di Pavia.
Gli fu diagnosticato un tumore ai polmoni e dopo averlo appreso si allontanò disperato, quasi fuggendo dall’ospedale.
Nel gennaio dell’anno seguente alla Rizzoli arrivò una lettera nella quale Mastronardi informava la casa editrice di aver terminato la stesura di un romanzo.
Quell’opera in realtà non fu mai ritrovata ed è rimasta fino ad oggi inedita.
La mattina del 24 aprile del 1979 uscì, apparentemente per una passeggiata, e non tornò a casa.
Su indicazione di alcuni testimoni che lo avevano visto camminare avanti e indietro sul ponte del Ticino, si fecero ricerche nel fiume, temendo che lo scrittore si fosse suicidato.
Il ritrovamento del suo corpo da parte di un pescatore ne fornì una tragica conferma.
Sul Corriere della Sera, sua sorella Letizia fece pubblicare un brevissimo necrologio:
“Riposa finalmente nella sua terra di Vigevano Lucio Mastronardi. Il suo spirito vive nel dialetto, nell’animo fiero delle donne di Vigevano, nei cieli del suo Ticino”.
E dopo il breve racconto della vita disperata di un grande scrittore largamente ignorato, a me non resta che darvi il medesimo suggerimento che mi diede mio padre:
leggete almeno “Il maestro di Vigevano”.
Attraverso una vicenda emozionante, scritta in una prosa dura ma intrisa di ironia e poesia, su un aspetto fondamentale della nostra storia capirete più cose che leggendo una pila di saggi socioeconomici.
Piermario De Dominicis, appassionato lettore, scoprendosi masochista in tenera età, fece di conseguenza la scelta di praticare uno sport che in Italia è considerato estremo, (altro che Messner!): fare il libraio.
Per oltre trent’anni, lasciato in pace, per compassione, perfino dalle forze dell’ordine, ha spacciato libri apertamente, senza timore di un arresto che pareva sempre imminente.
Ha contemporaneamente coltivato la comune passione per lo scrivere, da noi praticatissima e, curiosamente, mai associata a quella del leggere.
Collezionista incallito di passioni, si è dato a coltivare attivamente anche quella per la musica.
Membro fondatore dei Folkroad, dal 1990, con questa band porta avanti, ovunque si possa, il mestiere di chitarrista e cantante, nel corso di una lunga storia che ha riservato anche inaspettate soddisfazioni, come quella di collaborare con Martin Scorsese.
Sempre più avulso dalla realtà contemporanea, ha poi fondato, con altri sognatori incalliti, la rivista culturale Latina Città Aperta, convinto, con E.A. Poe che:
“Chi sogna di giorno vede cose che non vede chi sogna di notte”.