Di solito Bernard Grasset, l’editore parigino, non faticava ad addormentarsi. Capita a chiunque però, di incappare in una di quelle notti nelle quali non si riesce a trovare pace, a dimenticare le fatiche, le decisioni prese, le conversazioni avute, le facce incontrate nel corso della giornata e a ricomporle, riversandole tutte nella tranquillità di un buon sonno. Capita a chiunque di scoprirsi per una volta incapace di replicare l’ordinaria parabola del giorno che declina sdraiandosi nel proprio comodo letto e mettendosi a dormire.
A Bernard Grasset un inconveniente di questo genere avvenne una sera del 1929, una sera che si dilatò per troppe ore senza che riuscisse a divenire davvero notte: nulla da fare, non riusciva in nessun modo a prender sonno. Al termine di diversi estenuanti ed infruttuosi tentativi che sconfessando il loro fine lo vedevano sempre più desto e nervoso, pur di dare un’accelerazione a quelle ore buie che sembravano inchiodate ad una angosciante immobilità, fece una di quelle cose che un editore non fa mai di persona, visto che paga un certo numero di dipendenti a questo destinati: banalmente, cercò qualcosa da leggere, pescandolo del tutto a caso nel mucchio di manoscritti che venivano inviati alla sua casa editrice.
Erano opere che si erano accumulate nel tempo, spedite da una piccola folla di aspiranti scrittori, perfetti sconosciuti ovviamente. Senza dunque pretendere nulla di speciale da quella lettura, augurandosi anzi che fosse sufficientemente tediosa da fargli superare in fretta la sua insolita insonnia, prese a scorrerne le prime righe. Fu solo quando dalle finestre serrate della sua stanza da letto cominciò a filtrare il sole che Grasset lasciò andare il manoscritto. Il romanzo che tradendo la sua missione lo aveva tenuto sveglio per tutta la notte consegnandolo ad un’insonnia definitiva, era a suo parere qualcosa di prodigioso.
Narrava la storia di un uomo d’affari senza scrupoli, una figura di granito per la quale vivere e arricchirsi erano dei sinonimi, attività impossibili da immaginare separate in lui. Il percorso di David Golder, questo il nome del tremendo protagonista, durante lo svolgersi della storia si lastricava di cadaveri, vittime dell’inevitabile disfatta riservata a chi incrociava la sua strada, poveri ed inevitabili effetti collaterali di una abilità affaristica pari solo alla spietatezza. Ma l’unica fenditura di umanità riscontrabile nella materia rocciosa di Golder, l’unica sua debolezza, ovvero l’amore per sua figlia, si sarebbe rivelata anche la sola forza capace di annientarlo, di compierne fatalmente il destino. Grasset raramente si era trovato dinanzi ad un talento così maturo e compiuto, ad uno stile in cui pulizia e micidiale incisività si fondessero così naturalmente. L’alba lo trovò deciso a pubblicare quel romanzo, ma si rese conto subito del sorgere di un problema inaspettato: il manoscritto, firmato da una certa Madame Epstein, mancava di qualsiasi indicazione per poter reperire e contattare l’autrice, che come lui immaginava, doveva sicuramente essere una raffinata signora in età più che matura e di ottime letture, come la solidità e la compiutezza dell’opera lasciavano pensare. Sconcertato e un po’ indispettito, l’editore pensò infine che l’unico modo per rintracciare la scrittrice fosse quello di mettere un’inserzione sui principali quotidiani parigini invitando l’autrice di David Golder a presentarsi di persona nella sede della casa editrice.
Così in effetti fece, ma per svariati mesi nessuno comparve a rivendicare la paternità del romanzo. L’editore si era ormai rassegnato a non farne nulla quando un mattino gli venne annunciata la visita di una certa Madame Epstein. Grasset non aveva certo dimenticato quel nome e ricevette immediatamente la signora, curioso di incontrarla finalmente. Contrariamente alle sue aspettative gli si presentò davanti una donna assai giovane, elegante, spigliata, mondana, apparentemente una di quelle figure dell’alta borghesia russa che numerose si erano trasferite a Parigi, soprattutto dopo la Rivoluzione d’Ottobre. Irene Nemirovsky, Madame Epstein da sposata, si scusò per non aver risposto immediatamente al suo annuncio e sorridendo gli disse che così era stato perché aveva dovuto nel frattempo “fare” una bimba, la sua primogenita Denise. Grasset trasecolò: gli pareva impossibile, se non sospetto, che un romanzo così coraggioso, crudele, forte, raffinato e maturo fosse opera di una donna giovane e alla moda come quella che gli stava innanzi. Provò quindi a tenderle tranelli per verificare la paternità del manoscritto ed escludere che la brillante giovane donna fungesse da prestanome a qualche scrittore di fama che per ragioni inconoscibili preferisse restare anonimo. Naturalmente l’editore si convinse subito della genuinità letteraria della scrittrice e una volta che fu pubblicato, David Golder si impose immediatamente all’attenzione di pubblico e critica, dando inizio ad una fortunata e prolifica carriera.
Irina Leonidovna Nemirovskaya Nemirovsky era nata a Kiev nel 1903 da una famiglia ebrea. Leonid Borisovic il padre, uomo d’affari e banchiere, era persona interessata principalmente alle sue lucrose attività e riservava alla vita familiare un interesse distratto e formale. Anna Margoulis, detta Fanny, sua madre, era persona egocentrica e anaffettiva, impegnata soprattutto nel mantenersi bella per una piccola corte di corteggiatori e amanti. L’educazione di Irina, ribattezzatasi poi Irene, fu affidata così alla governante francese Marie, detta Zazelle, e fu attraverso questa figura sostitutiva che la cultura francese permeò sin dall’inizio la vita e la mente della piccola, e lo fece così decisivamente che ella di fatto usò il francese come lingua madre, imparando il russo e l’inglese solo in un secondo momento.
In David Golder, il protagonista del suo primo romanzo, la Nemirovsky, probabilmente in maniera conscia ed intenzionale, fa un vero e proprio ritratto di suo padre, mentre la personalità di sua madre, con la quale intrattenne un rapporto difficile se non apertamente ostile, è alla base di quasi tutte le figure femminili che popolano la sua produzione, l’archetipo di tutte le sue madri, attraenti e fredde, disposte a concedere affetto e attenzione unicamente a se stesse. Soprattutto in Jezebel e ne Il ballo, due suoi straordinari romanzi brevi, si fa più evidente l’origine poco letteraria e molto autobiografica delle due protagoniste. E’ quasi certo che la vita solitaria che questa situazione familiare le provocava, abbia favorito la sua vocazione narrativa, inducendola a sviluppare l’immaginazione e spingendola alle letture precoci. Lo scoppio della Rivoluzione russa mutò radicalmente la sorte della famiglia.
Nel 1918 i Soviet misero una taglia su suo padre costringendo i Nemirovsky alla fuga. Travestiti da contadini lasciarono il paese approdando dapprima in Finlandia, poi in Svezia e infine, dal 1919, a Parigi dove si stabilirono in un quartiere chic del XVI arrondissement. Irene, della cui educazione la madre continuò a disinteressarsi, ebbe allora una governante inglese, superò la maturità e si iscrisse alla Facoltà di Lettere della Sorbona. Conosceva sette lingue e da tempo scriveva in francese. Il bambino prodigio, scritto nel 1923, ma pubblicato solo diversi anni dopo, fu la sua prima novella, sorprendente per lo stile e per la maturità compositiva insolita in una ragazza di meno di vent’anni che non aveva ancora terminato gli studi. Poco dopo la laurea arrivò il suo matrimonio con Michel Epstein, ingegnere russo emigrato, divenuto poi banchiere. I due ebbero due figlie: Denise ed Elisabeth. David Golder, come si è detto, diede l’avvio ad una carriera di scrittrice fortunata e densa di successi: la Nemirovsky pubblicava romanzi apprezzatissimi, era in contatto con ambienti intellettuali eminenti, collaborava con i suoi scritti a riviste di prestigio e da alcune sue opere (Il ballo e David Golder) erano state ricavate riduzioni teatrali e pellicole cinematografiche.
Ma nonostante la sua formazione fosse senz’altro più francese che russa, nonostante ella fosse una celebre scrittrice francofona e che la sua integrazione con la patria adottiva fosse perfetta, il governo francese nel 1935 le rifiutò la cittadinanza. Questo evento, avvenuto in tempi non sospetti, alla luce degli eventi successivi sembrò una nera premonizione. Incalzata dall’avvento del nazismo la Storia, quella con la S maiuscola, quella in grado di travolgere le storie minuscole di chi si trova ad abitarla, ebbe una vera e propria convulsione. La situazione della Nemirovsky si fece progressivamente critica col progredire delle sorti belliche, infauste per la Francia. Per una famiglia di origine ebraica, la fama letteraria di un suo membro o la solida posizione sociale e finanziaria dell’altro coniuge, non potevano costituire più degli argini sufficienti contro l’antisemitismo feroce degli occupanti nazisti e contro lo zelo dei collaborazionisti francesi. A Michel fu vietato di lavorare in banca, ad Irene fu proibito pubblicare anche se qualcosa di suo uscì sotto pseudonimo e qualcos’altro venne stampato da una casa editrice resistente. Successivamente, incalzando tempi sempre peggiori, per qualche tempo la famiglia trovò un rifugio tranquillo a Issy l’Eveque, un paesino della Borgogna dove quiete e cibo non mancavano. Nonostante le notizie che arrivavano sempre più fosche, il nucleo familiare visse una vita quasi normale. Non si decidevano a scappare, a cercare di guadagnare posti più sicuri. Irene continuava a scrivere. Quando la probabilità di un destino fatale si fece più prossima, gli Epstein riuscirono ad affidare le due figliolette a persone fidate, tra le quali la loro maestra elementare, salvandole dall’arresto. Irene al momento del distacco consegnò alla sua piccola Denise, la primogenita, un borsone.
Subito dopo lei e Michel andarono incontro alla loro sorte. La Nemirovsky fu la prima ad essere arrestata, il 16 Luglio del 1942, e venne condotta ad Auschwitz. Il marito fece di tutto per avere sue notizie e mosse alcune importanti conoscenze per tentare un impossibile salvataggio. Tutto quello che riuscì ad ottenere fu di essere catturato a sua volta e deportato in un campo di concentramento dove perse la vita. Irene ad Auschwitz non era sopravvissuta più di un mese. Denise Epstein, sua figlia primogenita, solo nel 2003, più di sessant’anni dopo che gli era stato affidato dalla madre, riuscì a trovare la forza per aprire il borsone e guardarne il contenuto. All’interno appunti di diario ed il manoscritto incompiuto di un autentico capolavoro, ultimo dono inatteso di una grandissima scrittrice: Suite Francese. Il romanzo venne pubblicato nel 2004 e ricevette subito il Premio Renaudot, prestigioso riconoscimento letterario il cui regolamento che escludeva dal concorrervi i libri postumi, era stato modificato ad hoc. Il successo mondiale del libro ha provocato la riscoperta dell’intera opera della Nemirovsky dando inizio, anche da noi in Italia, ad una sua straordinaria fortuna postuma ed alla continua ristampa delle sue opere.
Questa sua nota compariva nel famoso quaderno di Suite Francese in data 11 Luglio 1942, solo cinque giorni prima di essere arrestata, ultimo eco di una serenità sempre più minacciata:
Piermario De Dominicis, appassionato lettore, scoprendosi masochista in tenera età, fece di conseguenza la scelta di praticare uno sport che in Italia è considerato estremo, (altro che Messner!): fare il libraio.
Per oltre trent’anni, lasciato in pace, per compassione, perfino dalle forze dell’ordine, ha spacciato libri apertamente, senza timore di un arresto che pareva sempre imminente.
Ha contemporaneamente coltivato la comune passione per lo scrivere, da noi praticatissima e, curiosamente, mai associata a quella del leggere.
Collezionista incallito di passioni, si è dato a coltivare attivamente anche quella per la musica.
Membro fondatore dei Folkroad, dal 1990, con questa band porta avanti, ovunque si possa, il mestiere di chitarrista e cantante, nel corso di una lunga storia che ha riservato anche inaspettate soddisfazioni, come quella di collaborare con Martin Scorsese.
Sempre più avulso dalla realtà contemporanea, ha poi fondato, con altri sognatori incalliti, la rivista culturale Latina Città Aperta, convinto, con E.A. Poe che:
“Chi sogna di giorno vede cose che non vede chi sogna di notte”.