In silenzio

I dolori leggeri concedono di parlare:
i grandi dolori rendono muti”


Seneca

In questi ultimi tempi, mi sono trovata a scegliere una condizione di silenzio che nulla ha a che fare col non avere niente da dire, al contrario, essa possiede una pienezza di pensieri, una marea che mi ha inondata e non è riuscita a tradursi, a rimettere in fila parole, addomesticare emozioni.

Del resto, insegna Anton Checov che “non si deve permettere alla lingua di oltrepassare il pensiero”, e io ho solo impedito che ciò accadesse, sottraendo alla lingua parole, confinando i pensieri al pensato.

Cerco di ripartire da qui, dal mio bisogno di silenzio e di ore morte, che fanno rumore solo per chi sa ascoltare.
Nella realtà il silenzio è cosa dura, non ha spazio che per le anime in cerca di respiro, ma anch’esso, il respiro, nell’atto stesso di inalare, di inspirare e di espiare l’aria, si è tradotto in una bolla, dentro la quale ho rischiato di venire soffocata dall’inedia e di restare a guardare, muta, dal vetro sottile, il mondo, simile al pesce rosso nell’ampolla, separata da esso.

La libertà è appena un riflesso nello sguardo e ti mantiene in vita finché dura.

Avrete percepito tutti, più o meno, come il silenzio crei attorno a sé un’aura di imbarazzo; quando improvvisamente cade il rumore di una festa, o si tace in un consesso di genti, si cerca di inventar parole, di articolare suoni, che spezzino quella coltre spessa, attutita, dove ci sentiamo denudati, totalmente esposti.
Il rumore distrae da noi stessi, il silenzio espropria le nostre certezze.

La maggior parte degli uomini teme il silenzio” dice Carl Gustav Jung, e infatti “ Quando cessa il brusio costante – per esempio ad una festa – bisogna sempre fare, dire, fischiare, tossire…”

Ho sperimentato il silenzio, l’imbarazzo che esso procura quando si è tra estranei e, al contrario, la singolare complicità di quando, tra due persone, il silenzio stringe e accomuna; quest’ultimo è il caso in cui si decide di tacere, entrambi sappiamo il non detto tra di noi e ci viviamo attimo dopo attimo, legati a un destino in comune, se pure vissuto attraverso la propria personale percezione, dagli angoli opposti della stessa stanza; l’aria che respiriamo è la medesima e i giorni, dove tutto sembra essere incerto, scolpiscono irripetibili certezze, che a-posteriori suoneranno eterne.
Il silenzio diviene allora un punto, sta dopo tutte le parole dette e non dette, ma è un punto che non mette fine, sottende a una eternità, ci dice: da quel momento in poi… .

Io non ho fischiato né tossito; nel mio silenzio non ho cercato di fare rumore, per rompere l’imbarazzo eventuale, o supposto, di chi non ha ascoltato, compreso; sono rimasta con quelle parole che non prendevano forma e, a un certo punto, l’unica parola, o segno, che sono riuscita a accogliere, e talvolta anche a imprimere sul foglio, è stata “poesia” :
Il Silenzio è cosa viva” recita la poetessa Chandra Livia Candiani e i “pensieri sono i suoi scandagli”, questo tacere insieme colma gli spazi che ci dividono, accorcia e riempie le distanze, annulla l’incolmabile abisso tra due viventi.

Da allora non ho temuto più il silenzio, mi sono abbandonata a esso, ho cercato di ascoltarlo e di tradurlo nel modo di guardare oltre la superficie curva della mia invisibile sfera, dove, a dispetto dell’esiguità tangibile di spazio e della costrizione del respiro, si rivela il mare.

Fino a poco tempo fa mi sono nascosta dietro l’eteronimo di Nota Stonata, una introversa creatura nata in una piccola isola non segnata sulle carte geografiche che per una certa parte mi somiglia.
Sin da bambina si era dedicata alla collezione di messaggi in bottiglia che rinveniva sulla spiaggia dopo le mareggiate, molti dei quali contenevano proprio lettere d’amore disperate, confessioni appassionate o evocazioni visionarie.
Oggi torno a riprendere la parte di me che mancava, non per negazione o per bisogno di celarla, un po’ era per gioco un po’ perché a volte viene più facile non essere completamente sé o scegliere di sé quella parte che si vuole, alla bisogna.
Ci sono amici che hanno compreso questa scelta, chiamandola col nome proprio, una scelta identitaria, e io in fin dei conti ho deciso: mi tengo la scomodità di me e la nota stonata che sono, comunque, non si scappa, tentando di intonarmi almeno attraverso le parole che a volte mi vengono congeniali, e altre invece stanno pure strette, si indossano a fatica.
Nasco poeta, o forse no, non l’ho mai capito davvero, proseguo inventrice di mondi, ora invento sogni, come ebbe a dire qualcuno di più grande, ma a volte dentro ci sono verità; innegabilmente potranno corrispondervi o non corrispondervi affatto, ma si scrive per scrivere… e io scrivo, bene, male…
… forse.
Francesca Suale

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