Tempo fa, in occasione della triste notizia della scomparsa del grande scrittore israeliano Amos Oz, si è riparlato della grande qualità della letteratura del suo paese.
Considerando che gli scrittori israeliani di oggi sono eredi di una tradizione narrativa importante, quella cioè degli autori di origine ebraica, che dalla diaspora hanno fornito uno sterminato apporto alla letteratura mondiale, mi è sempre venuto da chiedermi se esistono davvero popoli con una maggiore propensione alla scrittura, e se così fosse, quali potrebbero esserne le ragioni.
Pensando, ad esempio, a siciliani e irlandesi, che nei secoli hanno prodotto una quantità di scrittori e di capolavori del tutto sproporzionata alle dimensioni fisiche delle loro terre, si potrebbe supporre che l’insularità di quei luoghi e il relativo isolamento abbiano favorito negli abitanti una forte coesione interna. Si potrebbe dunque ipotizzare che essi nei secoli abbiano affinato anche l’arte dello stare insieme, arte che nel narrare trova da sempre una delle espressioni più naturali ed efficaci.
In entrambi i casi, a secoli di tradizione narrativa orale si è sovrapposta successivamente quella, quasi inevitabile, della trascrizione di quel patrimonio monumentale, e della produzione di nuovi testi.
La tesi dell’influenza decisiva della doppia eredità culturale, quella orale e quella scritta, potrebbe applicarsi anche al caso della letteratura ebraica, considerando anche, parlando della cultura di origine, l’ulteriore specificità della funzione religiosa che era alla base di entrambe le forme espressive.
Ne è risultata da parte del popolo ebraico un’attenzione particolare alla parola, da sempre fatta segno di cure particolarissime, sacrali. Si pensi, oltre naturalmente allo studio costante ed attento riservato al testo della Torah, alla leggenda ebraico praghese del Golem, creatura che prende vita da una sola parola, אמת “emet” , verità.
Non casualmente, tra le comunità ebraiche l’analfabetismo totale è sempre stato quasi sconosciuto, e questo deve necessariamente avere avuto un peso sulla facilità di scrittura da esse espressa, una propensione, appunto, che la storia della cultura e della letteratura mondiale hanno evidenziato e confermato.
Che siano questi i motivi di un fenomeno o che questa propensione alla letteratura non esista proprio, di questo ognuno può farsi la sua brava e legittima opinione. Se tuttavia non credessimo alle coincidenze e considerassimo fondata quella ipotesi, sarebbe evidente che data la enorme quantità di opere e scrittori prodotta nel tempo dagli ebrei della diaspora, la ancora fresca storia della letteratura israeliana si sarebbe già avvantaggiata vistosamente di questa eredità e della storica abitudine ad occuparsi delle parole, al narrare.
E’ difficilissimo infatti elencare tutti gli scrittori di pregio che hanno operato e che attualmente operano in Israele: sono molti e ne spuntano fuori sempre di nuovi.
Ma visto che abbiamo parlato di Amos Oz, mi piacerebbe accennare qui alla seconda figura della trimurti israeliana di autori di straordinaria qualità letteraria, ovvero quella di David Grossman.
Nel suo caso la sorte ha apparecchiato le cose in un modo così coerente che difficilmente lo scrittore avrebbe potuto provare indifferenza per i libri e per la narrativa, sottraendosi così al futuro che gli era destinato.
Suo padre, un galiziano proveniente da Dynòv, un piccolo shtetl, il tipico villaggio ebraico dell’Europa orientale, arrivò in Palestina da bambino.
Nella vita fu poi autista di autobus, ma essendo incappato in seri problemi di salute, venne destinato ad altro incarico, e fu nominato direttore della biblioteca della sua azienda di trasporti.
A questo punto è fin troppo facile dedurre che per il giovane David, suo figlio, nato nel 1954, fu assolutamente naturale il contatto coi libri ed una grande familiarità con essi.
Lo fu a tal punto che a soli nove anni la sua passione per la lettura e per la letteratura era così sviluppata da fargli vincere un premio nazionale basato sulla conoscenza delle opere di Sholem Aleiken, il grande scrittore ebreo americano di origini lituane, famoso per la sua produzione di racconti in yiddish, la lingua degli ebrei dell’Europa dell’est.
La strada di Grossman nel mondo della cultura e della comunicazione era dunque precocemente segnata e fu infatti percorsa per tutto il resto della sua vita, mostrando un certo eclettismo, ma senza alcuno sbandamento.
David lavorò dapprima come attore poi come corrispondente per la radio nazionale Kol Israel e fu perfino tra i conduttori di un programma per bambini.
Parallelamente prendeva le mosse la sua carriera di scrittore, subito feconda. Il suo primo libro, “Il duello”, venne trasmesso dall’emittente sotto forma di dramma radiofonico. Nonostante il lavoro svolto ed il fatto che avesse anche condotto una trasmissione di grande successo, Grossman venne licenziato dalla radio di Stato a causa di una sua esplicita ammissione di ateismo, ma anche, e forse soprattutto, per le sue opinioni politiche.
Da sempre infatti lo scrittore è stato un attivista della sinistra israeliana e del Partito Laburista, ed è stato fortemente critico nei confronti della politica governativa verso i palestinesi di Gaza e della Cisgiordania.
Ha affiancato spesso Amos Oz e Abraham Yehoshua nella richiesta di tregue nei momenti di conflitto e nello stimolare passi avanti nella ricerca di una pace equa.
In molti suoi lavori è rintracciabile la sua posizione di uomo di pace, come in “La guerra che non si può vincere”, cronache dal conflitto tra israeliani e palestinesi, dalle quali emerge forte il senso di inutilità della guerra.
Ancora prima, lo scrittore aveva fatto qualcosa di davvero sorprendente: col suo saggio giornalistico “Il vento giallo”, aveva compiuto un giro d’orizzonte in casa del “nemico”, intervistando gente palestinese di ogni tipo e professione, cogliendo aspetti diversi della loro vita quotidiana, registrandone i tanti sacrifici, la diffusa miseria, l’odio esplicito di molti per Israele e la voglia di rivalsa, che poco dopo, infatti, determinò l’Intifada.
Con questo libro Grossman si guadagnò ancora di più l’ostilità aperta dei conservatori che lo considerarono una vera e propria provocazione.
Questo non gli ha impedito naturalmente di sostenere severe posizioni di condanna nei confronti degli atti terroristici degli estremisti islamici.
Da sempre per le sue idee, come capita ad altre coscienze critiche, è nel mirino della destra israeliana.
Grossman che vive a Mevasseret Zion, nei pressi di Gerusalemme, alla sua attività narrativa ha affiancato quella di saggista, giornalista e quella di scrittore di libri per bambini, producendo in tutti questi campi opere di assoluto rilievo, alcune delle quali possono essere ritenute dei capolavori.
Padre di tre figli, ha subito il lancinante dolore di perderne uno, Uri, morto nel 2006, proprio nell’ultimo giorno della Guerra del Libano.
Nella sua densa produzione letteraria, che, come si è detto, comprende molti romanzi, saggi, libri di interviste e storie per bambini, opere connotate generalmente da uno stile chiaro, limpido ed incisivo, non sono mancati romanzi dall’architettura sperimentale, come “Vedi alla voce amore”, il suo primo grande successo, o quelli ampi ed evocativi, come “Ad un cerbiatto somiglia il mio amore”, opera intrisa del ricordo del dolore vissuto per il figlio perduto.
Più decisamente ancora, il recente “Caduto fuori dal tempo”, uscito nel 2018, si ricollega a questa perdita, col tema di un uomo che si avvia verso un altrove per incontrare il figlio perduto in un viaggio in cui gli si affiancano altre figure in cerca degli affetti perduti.
Questo intreccio tra passato e presente, tra storie personali Storia con la A maiuscola, pervade anche “La vita gioca con me”, il romanzo pubblicato in Italia nel 2019.
Per un significativo approccio iniziale al suo mondo narrativo, io consiglio tuttavia due opere di grande impatto emotivo e letterario, romanzi dalla straordinaria freschezza stilistica, che hanno per protagonisti un bambino e due giovanissimi, libri che a leggerli sembrano poesia in prosa: “Ci sono bambini a zig zag” e “Qualcuno con cui correre”.
Nel primo di questi romanzi, un bambino cresciuto col padre e con una matrigna così dolce ed intelligente da impedirgli qualsiasi carenza affettiva, viene da essi spinto ad un viaggio in treno, un percorso che assume ai suoi occhi capaci di meraviglia, degli aspetti quasi magici. Incontrerà figure memorabili man mano che i chilometri si accumulano e capirà alla fine che quel suo viaggio aveva come destinazione la figura sconosciuta della sua mamma naturale ed il recupero di ricordi inesistenti prima di quell’avventura.
Nel secondo, “Qualcuno con cui correre”, si seguono parallelamente le storie di due giovanissimi, una ragazza sparita per sue ragioni particolari ed un ragazzo che la cerca senza mai averla vista, conoscendola però progressivamente nel corso delle sue peregrinazioni al seguito della cagna che le apparteneva.
Quando i due si incontreranno davvero, per loro sembrerà compiersi un destino comune.
Piermario De Dominicis, appassionato lettore, scoprendosi masochista in tenera età, fece di conseguenza la scelta di praticare uno sport che in Italia è considerato estremo, (altro che Messner!): fare il libraio.
Per oltre trent’anni, lasciato in pace, per compassione, perfino dalle forze dell’ordine, ha spacciato libri apertamente, senza timore di un arresto che pareva sempre imminente.
Ha contemporaneamente coltivato la comune passione per lo scrivere, da noi praticatissima e, curiosamente, mai associata a quella del leggere.
Collezionista incallito di passioni, si è dato a coltivare attivamente anche quella per la musica.
Membro fondatore dei Folkroad, dal 1990, con questa band porta avanti, ovunque si possa, il mestiere di chitarrista e cantante, nel corso di una lunga storia che ha riservato anche inaspettate soddisfazioni, come quella di collaborare con Martin Scorsese.
Sempre più avulso dalla realtà contemporanea, ha poi fondato, con altri sognatori incalliti, la rivista culturale Latina Città Aperta, convinto, con E.A. Poe che:
“Chi sogna di giorno vede cose che non vede chi sogna di notte”.
bell’articolo, solo un particolare l’yiddysh non è un dialetto ma una lingua vera e propria nata tra la commistione di tedesco, ebraico askhenazita e parole slave, soprattutto russe e polacche. la costruzione sintattica è per lo più quella tedesca che deriva dal latino. viene parlato non solo nell’est europa ma anche in germania e austria. comunque bravo!
Seppure, soprattutto in passato, lo yiddish veniva spesso definito dialetto, in realtà la sua è un’osservazione pertinente in quanto ormai lo si considera largamente una lingua vera e propria. La ringraziamo quindi della sua osservazione e la salutiamo cordialmente.