Già in procinto di essere ripubblicato, questo piccolo ritratto di Bobi Bazlen, prende oggi una nuova attualità. L’imprendibile, originalissima e influentissima figura del triestino, che influenzò in profondità la cultura e l’editoria italiana del dopoguerra, ancora oggi vi allunga sopra le sue propaggini, soprattutto attraverso la sua creatura, la casa editrice Adelphi.
Compagno di strada del fondatore fu Roberto Calasso, lettore monstre, raffinatissimo intellettuale e scrittore, che, giovanissimo ai tempi della nascita del prestigioso marchio editoriale, ha poi portato avanti degnamente la sua eredità, divenendo altrettanto incisivo sulla cultura del nostro paese.
In questi giorni Calasso, purtroppo, è scomparso, ad ottant’anni di età, proprio in coincidenza dell’uscita di due suoi libri, uno dei quali, “Bobi”, pubblicato nella Piccola Biblioteca Adephi, è consacrato al ricordo della sua conoscenza e collaborazione con Bazlen.
I capitoli del libro sono schizzi veloci, che però ritraggono a perfezione sia la personalità del suo mentore, coi suoi autori di riferimento, che la società letteraria italiana del dopoguerra, animata da nomi che sono poi rimasti vivi nel tessuto culturale nazionale e non solo.
Leggerlo, per chi volesse, sarà dunque di prezioso complemento a questo nostro articolo, per approfondire gradevolmente la conoscenza con “il più celebre degli sconosciuti” della nostra cultura.
Si può essere una figura assolutamente decisiva nel campo del libro e della cultura in Italia senza aver pubblicato alcunché in vita?
La risposta non può che essere affermativa se si guarda alla vita e alle imprese di un personaggio sconosciuto ai più, ma al quale dobbiamo bazzecole come la nostra conoscenza di Svevo e Kafka, l’ispirazione di alcune poesie di Montale, la pubblicazione nel nostro paese di testi di filosofia orientale, la diffusione di quelli psicoanalitici e la nascita di una delle più prestigiose case editrici italiane.
Roberto Bazlen, per tutti Bobi, è stato un inquieto passante su questa terra, un uomo contraddittorio e sfaccettatissimo che vivendo un’esistenza apparentemente senza uno scopo o una direzione prefissata, ha finito per lasciarci un’eredità culturale ricchissima e variegata.
Mille leggende circolano su di lui, mille descrizioni della sua personalità eccentrica, perennemente moderna in quanto perennemente fuori moda, mille relazioni con gente famosa e con perfetti sconosciuti e nessuna certezza a suo riguardo: Bobi Bazlen oggi è uno dei più famosi sconosciuti, noto soprattutto ai cultori della dietrologia letteraria.
Critico letterario, traduttore, consulente editoriale, editore: nessuno dei ruoli che Bazlen ha ricoperto riesce a definirlo completamente, a catturarne l’essenza, a incatenare ad un’unica sostanza una vita dedicata alla cultura e a un complesso gioco di amicizie.
Un’esistenza densa e movimentata al punto di sembrare sfuggente.
Recentemente narrata in un bel libro da Cristina Battocletti, la sua biografia da l’impressione che intorno a Bazlen succedesse sempre qualcosa, qualcosa di notevole, e che lui, consciamente o meno, provocasse o favorisse eventi culturalmente destinati a durare, a lasciare una traccia.
Nomade, disinibito, informale, dissipatore, inesperto, veggente, enigmatico, ondivago: questi sono solo alcuni dei giudizi formulati su di lui da suoi amici, da suoi ammiratori e da suoi detrattori.
Quel che è certo è che, come ricorda la sua biografa, visse da spirito libero, senza punti fermi: non si sposò mai, non ha avuto figli, mai stabili contratti di lavoro e nessuna casa di proprietà.
Pochi intellettuali hanno avuto la sua stessa influenza rimanendo altrettanto in seconda fila: lui, che, come si è detto non ha mai pubblicato libri in vita, potrebbe quindi star comodo nella definizione di “suscitatore” o in quella di “influenzatore culturale”.
Bazlen nacque a Trieste nel giugno del 1902 da un padre tedesco, di Stoccarda, e da una madre triestina dal cognome doppio, Levi Minzi, figlia della media borghesia ebraica.
Compì gli studi nella scuola di lingua tedesca Realgymnasium, appassionandosi alle materie umanistiche e letterarie, influenzato in questo dal suo insegnante, il professor Mayer.
Alcune fotografie che ci restano di lui le scattò Margarete Frankl, la donna che col soprannome di Gerti fu la musa di Eugenio Montale, e ci restituiscono l’immagine di un uomo di statura media, con grandi orecchie e grandi occhi dall’espressione vivace ma disincantata, vestito con la cura di un gagà fuori del suo tempo.
Un aspetto insomma, quello di Bazlen, che lo scrittore, poeta e saggista Sergio Solmi definì da “eterno studente”.
Per i suoi primi trentadue anni, la sua città, Trieste, è stata il suo mondo.
Era una realtà di frontiera perfettamente in grado perciò di farsi mondo, percorsa, come sempre è stata, da un praticato amore per la cultura, innervato da moltissimi e qualificati ingegni.
Una città legata strettamente al suo passato, apparentemente marginale ed inattuale, ma proprio per questo sempre in grado di vivere il presente e di farsi futuro. Dopo averla abbandonata Bazlen visse a Genova, Milano e soprattutto, a Roma.
A Trieste tornò solo in due occasioni, la seconda delle quali, negli anni Cinquanta, per un grande ritorno di curiosità per la città natale, ma finché ci abitò visse pienamente la sua dimensione più vivace: quella culturale.
Frequentava Umberto Saba e la sua libreria antiquaria ed era interlocutore anche di Svevo. Si rapportava insomma con persone di tanto più vecchie di lui. Compariva nelle trattorie e nei caffé dove si riuniva l’intellighenzia locale, che tante tracce avrebbe lasciato nella cultura italiana e quelli coi quali si incontrava erano nomi importanti:
Guido Voghera, Giorgio Fano, Giani Stuparich, Gillo Dorfles, Arturo Nathan, Lenor Fini, e tanti altri.
Trieste significava anche confrontarsi con la psicoanalisi: Bazlen fu paziente di Edoardo Weiss, allievo diretto di Freud per poi passare a Ernst Bernhard, colui cioè che fondò lo Junghismo italiano.
In seguito, attraverso il mestiere che scelse di fare, il consulente editoriale, Bazlen fu decisivo nel far conoscere i saggi psicanalitici non meno che le opere letterarie di tanti, Svevo in testa, che senza di lui sarebbero state tralasciate o scoperte chissà quanto tempo dopo.
Per un breve periodo lavorò all’Ufficio propaganda e pubblicità dell’impresa di Adriano Olivetti, e, appassionato, com’era,anche di astrologia, Bobi si prestava anche a fare da consulente astrologico dell’uomo che rese possibile il più significativo esperimento di fusione tra imprenditorialità e cultura che si sia mai visto in Italia.
Del suo apporto, della sua conoscenza di più lingue e della sua multiculturalità, essendo lui tedesco di madrelingua, si avvalsero nel tempo diverse case editrici: le Nuove Edizioni Ivrea, le Edizioni di Comunità. Bompiani, Astrolabio ed Einaudi.
Divoratore di ogni genere di libro, trascorse la maggior parte della sua vita sdraiato a letto a leggere, e fu lui quindi, a far conoscere opere tra loro diversissime, a divulgare nel nostro paese prodotti culturali “altri”, come, ad esempio, l’”I Ching”.
Fu Bazlen, in vista di una loro pubblicazione italiana, a suggerire ai perplessi dirigenti editoriali dell’Einaudi le opere di Jung o “L’uomo senza qualità”, il capolavoro di Musil.
Nel suo libro biografico: “Bobi Bazlen. L’ombra di Trieste”, la già citata Cristina Battocletti riporta che a detta di molti che l’hanno conosciuto, l’esistenza di quest’uomo sarebbe stata connotata principalmente da due gesti: comprare sigarette e imbucare lettere.
Tenere una fittissima corrispondenza è stata infatti una delle sue attività più frenetiche, e si deve proprio al corpus delle lettere da lui inviate a moltissimi interlocutori, la conoscenza che noi abbiamo di Bazlen, delle sue idee e dei criteri da lui seguiti nel valutare i libri.
Dopo decenni di letture, traduzioni e proposte letterarie alle varie case editrici, Bobi mise infine mano, insieme con Luciano Foà, al progetto di una “sua” casa editrice.
Stava nascendo la prestigiosa Adelphi.
Bazlen tra gli altri ne parlò, coinvolgendolo, con un altro divoratore di libri, l’allora giovanissimo Roberto Calasso, destinato ad ereditarne il ruolo, che così ricorda quel periodo:
“Bene, a un certo punto Bazlen mi prese in disparte e mi disse: “Comincia a cercare libri in tutte le direzioni, e a pensare ai primi titoli. Perché forse stavolta ci siamo”.
Era il 30 maggio del 1962.
Subito dopo Calasso conosce Luciano Foà, va a Milano, e a poco a poco si mette in moto la macchina. Finalmente si coronava il sogno di Bazlen. Da lì al 1965, l’ anno in cui morì, fu un periodo intensissimo.
“In precedenza, quando ci incontravamo, si parlava un po’ di tutto. Ora invece avevo modo di vederlo in azione su questioni precise, su libri che bisognava fare o non fare. E così colsi anche altri aspetti della sua personalità. Ad esempio? Uno dei tanti paradossi è che quanto Adelphi ha fatto in trent’ anni, è soltanto una sorta di preludio a quello che lui avrebbe voluto. Trovava tutto già fatto, già vecchio. Mentre si trattava di autori e di testi che sono stati a lungo osteggiati, e lentamente assorbiti. Perché la cultura italiana li aveva evitati con zelo”.
Scrive ancora Calasso:
“All’inizio si parlava di libri unici: Adelphi non aveva ancora trovato il suo nome. C’erano solo pochi dati sicuri: l’edizione critica di Nietzsche, che bastava da sola ad orientare tutto il resto. E poi una collana di Classici, impostata su criteri non poco ambiziosi: fare bene quello che in precedenza era stato fatto meno bene e fare per la prima volta quello che prima era stato ignorato.
Libri unici, diceva quindi Bazlen.
Ma cosa poteva definirsi un “libro unico”?
Secondo Calasso era, in sostanza, quello “Dove si riconosce subito che all’autore è accaduto qualcosa e quel qualcosa ha finito per depositarsi in uno scritto”.
Anche la vita sentimentale di Bazlen risentì della sua poliedricità, del suo vagare inquieto, della mancanza di punti fermi.
Ebbe così numerosissime relazioni, mai durature e molto spesso intrattenute con le donne di altri.
Più significativo di altri fu forse il suo rapporto con Ljuba Blumenthal, un’ebrea romena sposata con Julius Flisch, conosciuta da lui nel 1929.
Bobi, facendolo internare, salvò la donna dal marito impazzito.
Quando, molti anni dopo, nel 1951, Ljuba sposerà un inglese, Bazlen mediterà a lungo di trasferirsi a Londra per starle vicino.
Non avendo tuttavia mezzi economici per attuare questo proposito, sarà costretto a rinunciare a questo progetto temerario.
Ljuba diverrà uno dei personaggi del romanzo che Daniele Del Giudice dedicherà a Bazlen: “Lo stadio di Wimbledon”, pubblicato da Einaudi nel 1983.
“L’eterno studente”, l’instancabile lettore, il suscitatore di cultura, dopo aver perso la amata stanza che occupava a Roma, morirà nel 1965 nella sua camera d’albergo a Milano, non molto distante dalla “sua” Adelphi.
Come si è già detto, l’uomo così indissolutamente legato ai libri non pubblicò nulla in tutta la sua vita.
Nella raccolta “Scritti”, che comprende anche le “Lettere a Montale”, vennero tuttavia pubblicate postume le sue opere critiche:
“Lettere Editoriali”, “Note senza testo” e perfino un suo romanzo, “Il capitano di lungo corso”.
Piermario De Dominicis, appassionato lettore, scoprendosi masochista in tenera età, fece di conseguenza la scelta di praticare uno sport che in Italia è considerato estremo, (altro che Messner!): fare il libraio.
Per oltre trent’anni, lasciato in pace, per compassione, perfino dalle forze dell’ordine, ha spacciato libri apertamente, senza timore di un arresto che pareva sempre imminente.
Ha contemporaneamente coltivato la comune passione per lo scrivere, da noi praticatissima e, curiosamente, mai associata a quella del leggere.
Collezionista incallito di passioni, si è dato a coltivare attivamente anche quella per la musica.
Membro fondatore dei Folkroad, dal 1990, con questa band porta avanti, ovunque si possa, il mestiere di chitarrista e cantante, nel corso di una lunga storia che ha riservato anche inaspettate soddisfazioni, come quella di collaborare con Martin Scorsese.
Sempre più avulso dalla realtà contemporanea, ha poi fondato, con altri sognatori incalliti, la rivista culturale Latina Città Aperta, convinto, con E.A. Poe che:
“Chi sogna di giorno vede cose che non vede chi sogna di notte”.