Turangalila. È lo stesso Messiaen che commentando il titolo del suo lavoro ci fornisce alcune informazioni su di esso:
Questa strana parola sanscrita diede vita al canto che ispirò Messiaen per un viaggio musicale lungo più di 70 minuti.
Sinfonia assai lontana dagli esempi della tradizione classico-romantica, la “Turangalîla” aveva in organico una grande orchestra, composta da più di cento elementi, al cui interno erano in evidenza le percussioni, il pianoforte, che spesso attraversava con ruolo solistico l’intero tessuto musicale, e le onde Martenot, uno tra i primissimi dispositivi per la produzione elettroacustica del suono.
Si trattava infatti di un oscillatore.
Lo strumento venne presentato all’Opera di Parigi nel 1928 dall’inventore e musicista Maurice Martenot, ed era composto da una tastiera e tre diffusori, e rappresentò per l’epoca un’innovazione, il primo strumento elettronico in grado di creare effetti polifonici artificiali.
Di eccezionale ricchezza timbrica e intensità sonora, esso poteva passare dal pianissimo ad un fortissimo capace di sovrastare il pieno orchestrale.
Inutile cercare lo sviluppo tematico in questa sinfonia: non c’è nessun tema principale cui facciano seguito delle variazioni. L’Occidente forse, in campo sinfonico, aveva già detto tutto, ed è per questo che Messiaen guardò a Oriente.
Le sue frasi musicali sono brevi, subito contraddette da altre che le incalzano.
Esistono sì quattro temi (quello ‘brutale’ ispirato ai monumenti precolombiani messicani, il tema del fiore, il tema d’amore, il tema fatto di accordi), ma essi affiorano e vengono sommersi, dagli altri o dal loro insieme, lungo tutta l’opera per riapparire costantemente.
Composta tra il 1946 e il 1948, e suddivisa in ben dieci movimenti, la “Turangalîla-Symphonie” di Messiaen fu uno dei brani più significativi di questo importante compositore francese del secolo scorso.
In quei dieci movimenti il compositore celebrava una storia d’amore sulle orme del Tristano e Isotta, affascinato inoltre dal mito e dal mistero dell’intreccio tra Eros e Thanatos.
Il titolo ‘’Turangalîla’’ come accennato, derivava da un termine sanscrito dai diversi significati come dinamismo, energia, forza di vita. I principi di forza vitale e l’amore cosmico erano alla base del linguaggio di questa composizione che il compositore reputava il suo vero capolavoro.
In essa si trovano tutte le variabili del suo linguaggio: alla vastissima ed eterogenea orchestra si affiancano elementi etnici, i legni simulanti il canto degli uccelli, gruppi armonici indipendenti, simultaneamei nel registro acuto e grave, l’estasi religiosa, la contemplazione dell’universo creato, echi di oriente e primitivismo ed altro ancora.
Sono solo alcune delle visioni che costituiscono la trama sulla quale fu costruita quest’opera dalla ritmica nervosa ed inquietante, dalla timbrica sontuosa e dalla speculativa e monumentale costruzione.
Un aspetto innovativo stava nel fatto che alcuni movimenti centrali possono essere eseguiti separatamente senza far perdere alla sinfonia il senso compiuto.
Sotto il profilo armonico, la composizione presenta la caratteristica scrittura polimodale del compositore francese che, rifacendosi alle antiche tonalità medievali, era alla ricerca di nuove formule armoniche capaci di rendere la scrittura più poetica ed interessante, senza per questo rifarsi ad un concetto tradizionale di armonia e senza cadere nella serialità dodecafonica.
Sin dalle prime battute la musica irrompe con autorevolezza e forza dinamica, l’enorme flessibilità e agilità tecnica dell’orchestra è un fiume in piena, trascinante, con melodie aspre e temi ora spavaldi ora minacciosi.
L’atmosfera è pervasa da allusioni esotiche grazie alla timbrica percussiva che incide sul colore orchestrale: ogni singola nota sembra possedere una necessità interiore, un battito carico di significato che invade anche il procedere nervoso del pianoforte, fino a scivolare nelle sonorità quasi lunari delle onde Martenot.
Messiaen : Turangalîla-Symphonie (Susanna Mälkki / Orchestre philharmonique de Radio France)
Vi è l’attrazione fatale verso le sfere più profonde della musica, c’è una magnetica essenza capace di condurci, nella sua stessa sconcertante bellezza, ad un Messiaen proteso verso il cosmo intero.
Il compositore francese, la cui profonda religiosità ha ispirato quasi tutta la sua produzione musicale, ma non questa sinfonia, in questo splendido capolavoro scuoteva le corde più nascoste della nostra sensibilità, qualcosa che varcava confini noti per approdare ad orizzonti nuovi, che risentivano di influenze jazz ed etnico-orientali, quasi a confermare l’ampiezza dello spettro musicale del Novecento.
A più di 50 anni dalla sua prima esecuzione, avvenuta a Boston il 2 dicembre del 1949, sotto la direzione di Leonard Bernstein, la Turangalila viene oggi considerata uno dei grandi lavori sinfonici del Novecento e fu composta su commissione di quell’entusiasta promotore della musica contemporanea che fu Serge Koussevitzky.
In Francia l’opera fu eseguita per la prima volta a Aix-en-Provence con l’O.R.F. diretta da Roger Désormière, il 25 luglio 1950.
Abbandonando il dettaglio e ricorrendo di nuovo al titolo dell’opera, assai esplicativo, Messiaen definiva questa sua vasta cosmologia sonora, una sinfonia che era qualcosa in più del beethoveniano “inno alla gioia”: qui si trattava di un vero e proprio “inno all’eterno fluire della vita”.
L’allusione al Tristan und Isolde, nell’incipit melodico del “tema d’amore”, è tra le testimonianze dell’ammirazione di Messiaen per Wagner, ammirazione che può sorprendere soltanto coloro che continuano a perseverare nell’immagine fuorviante di un Messiaen padre dell’avanguardia seriale degli anni Cinquanta, anziché quella più pertinente di un Messiaen eclettico, originale e geniale prosecutore della grande stagione simbolista francese.
Se poi fosse necessario trovare un modello per la concezione formale della Turangalìla bisognerebbe piuttosto cercarlo nella iperdilatazione della forma sinfonica di un Mahler anziché nelle opere orchestrali impressioniste di Claude Debussy.
Il lavoro mostra un ulteriore riferimento significativo: l’ammirazione di Messiaen per “Le Sacre du Printemps” di Stravinskij che risaliva alla seconda metà degli anni Venti ed uno dei suoi esordi orchestrali, “Les Offrandes oubliées”, del 1930, ne rivelava l’influenza chiaramente.
Sedici anni dopo, quando le celebri analisi della ritmica stravinskiana si diffondevano tra gli allievi di Messiaen, primo fra tutti Pierre Boulez, il fascino per il mito del primitivo si manifestò tra le principali eredità della prima metà del secolo, accolte anche nella “Turangalìla”.
L’opera, in sostanza, esprime una concezione visionaria: il risultato è un alternarsi rigoglioso di ritmi e colori, di lirismo e di trionfali apoteosi, tra intrecci di polifonie esotiche, suggestioni jazz e sperimentazioni sonore con l’utilizzazione, come si è visto, del primo strumento elettroacustico, le Onde Martenot.
Nella partitura permane infatti una miracolosa unità di fondo: nelle arcane pagine notturne come nella sospesa, incantata contemplazione del “Giardino del sonno d’amore”, si riconosce sempre il genio eclettico di Messiaen.
Fuorviante fu la lettura che dettero alcuni suoi contemporanei, della precedente esplorazione dodecafonica dell’autore, che in realtà applicava alla sua musica le combinazioni numeriche in senso pitagorico.
Da queste incomprensioni discese il fatto che egli fosse mal visto sia dai musicisti conservatori, che non accettavano le sue innovazioni, che da quelli che si consideravano all’avanguardia, da cui era molto poco considerato.
Nonostante ciò egli continuò imperturbabile le sue ricerche ed il suo lavoro e ad oggi si può dire che oltre alle sue grandiose opere, in tutto l’arco della sua vita di insegnante, soprattutto a Parigi e a Darmstadt, egli influenzò tutta una generazione di musicisti, da Stockhausen a Boulez.
Questa di Messiaen era certamente la via per superare il nichilismo che pervade la musica degli autori contemporanei, incapaci di riordinare la materia sonora secondo un senso che si può solo trovare nell’unione delle due nature, l’umana e la divina, l’intellettuale e la fisica, in un superiore equilibrio di cui ci appare ad oggi bisognosa non solo l’arte, ma l’intera umanità in generale.
Lino Predel non è un latinense, è piuttosto un prodotto di importazione essendo nato ad Arcetri in Toscana il 30 febbraio 1960 da genitori parte toscani e parte nopei.
Fin da giovane ha dimostrato un estremo interesse per la storia, spinto al punto di laurearsi in scienze matematiche.
E’ felicemente sposato anche se la di lui consorte non è a conoscenza del fatto e rimane ferma nella sua convinzione che lui sia l’addetto alle riparazioni condominiali.
Fisicamente è il tipico italiano: basso e tarchiatello, ma biondo di capelli con occhi cerulei, ereditati da suo nonno che lavorava alla Cirio come schiaffeggiatore di pomodori ancora verdi.
Ama gli sport che necessitano di una forte tempra atletica come il rugby, l’hockey, il biliardo a 3 palle e gli scacchi.
Odia collezionare qualsiasi cosa, anche se da piccolo in verità accumulava mollette da stenditura. Quella collezione, però, si arenò per via delle rimostranze materne.
Ha avuto in cura vari psicologi che per anni hanno tentato inutilmente di raccapezzarsi su di lui.
Ama i ciccioli, il salame felino e l’orata solo se è certo che sia figlia unica.
Lo scrittore preferito è Sveva Modignani e il regista/attore di cui non perderebbe mai un film è Vincenzo Salemme.
Forsennato bevitore di caffè e fumatore pentito, ha pochissimi amici cui concede di sopportarlo. Conosce Lallo da un po’ di tempo al punto di ricordargli di portare con sé sempre le mentine…
Crede nella vita dopo la morte tranne che in certi stati dell’Asia, ama gli animali, generalmente ricambiato, ha giusto qualche problemino con i rinoceronti.