I classici, antichi e moderni, sono un porto sicuro per il lettore, un riparo dalle intemperie di un panorama editoriale sempre più ingorgato e angustiato da novità illegibili per molti motivi: per fatuità degli scrittori, per loro narcisismo, per gli eccessi di autobiografismo, per l’estrema insipienza di troppe opere di provenienza televisiva, per soverchiante evanescenza o, al contrario, indigeste per pretenziosità, pesantezza o per spaccio di vecchiume d’avanguardia.
C’è da smarrirsi davanti alle vetrine delle librerie, in particolare dinanzi a quelle dei supermercati del libro, mastodonti in catena, responsabili di presentare una varietà solo apparente di proposte che a ben guardare si rivela falsa, luoghi che invece esercitano il ruolo di veri e propri killer della biodiversità culturale.
Certe catene commerciali di vendita di libri fungono, infatti, da tappetoni su cui si stende la mercanzia ipertrofica dei due gruppi di distribuzione editoriale rimasti a farla da padroni in Italia.
Si pubblica talmente tanto e male, che acquistare un libro, se non ci si appoggia al consiglio dei pochissimi veri librai esistenti, o alla propria esperienza di lettore, diventa una specie di roulette russa a probabilità rovesciata, fatta cioè con un revolver con cinque cartucce ed un solo vuoto nel caricatore: un suicidio quasi certo.
Ecco allora che, nel momento dello smarrimento da scaffale bulimico, ci soccorrono i classici, inesauribili capolavori la cui qualità è stata già testata da generazioni di lettori, e che per quanto il gioco dei gusti personali possa renderli più o meno graditi, è pressoché impossibile che se ne possa contestare la pubblicazione.
Con essi si va sul sicuro, insomma.
Ma il lettore abituale non conosce vigliaccheria né fiacchezza e spesso, basandosi su poche note di copertina, su un incipit particolarmente brillante o su un odore della carta risultato afrodisiaco ad un prolungato annusamento, si fa tentare dal rischio rappresentato dall’opera sconosciuta di un autore ancor più sconosciuto.
A volte questo coraggioso tentativo si rivela temerario e il romanzo, la raccolta di racconti, di poesie o il saggio appena acquistato, vanno ad irrobustire il numero, già esuberante, dei libri con le sgradevoli caratteristiche elencate all’inizio del discorso: si rivelano, cioè, essere cibo immangiabile.
Altre volte, invece, la nostra scelta viene premiata ed il nostro patrimonio culturale personale si arricchisce di un nome e di un’opera che, oltre ad averti regalato piacere e pensiero, si vanno a legare per sempre a quella cosa viva e operante che è nostra la biblioteca interiore, già ricca di libri che ponendosi in relazione tra loro, modificano comunque la nostra personalità.
Di recente, guidato dal mio consumato fiuto di lettore, ho acquistato il libro di un’autrice che mi era sconosciuta, Aglaja Veteranyi, rumena naturalizzata svizzera.
Il titolo era insolito e stuzzicante: “Perché il bambino cuoce nella polenta”, e la copertina, altrettanto seducente, di un giallo arancio assai vivace, riproduceva una pentola messa a cucinare sul fuoco, tra i cui fumi appariva netta l’immagine di un tendone da circo.
Tutto l’apparato delle note e delle citazioni presenti in seconda e in quarta di copertina, mi avevano preallertato sulla possibile qualità di quel romanzo, e, senza ombra di dubbio, sulla sua originalità.
Sensazioni felicemente confermate da un’opera che davvero si è rivelata insolita già a partire dallo stile: breve, assertivo e poetico, quello di una bambina che descrive il suo mondo, il mondo mutevole degli artisti girovaghi.
Ogni pagina così, contiene una successione di frasi che si fanno racconto, frasi che nella loro infantile essenzialità, vanno, a volte gioiosamente, a volte buffamente, altre drammaticamente, a toccare la sostanza delle cose, di quelle leggere come di quelle maledettamente serie.
Sono frasi ciascuna delle quali potrebbe essere traformata in una bandiera, in una citazione, trascritta magari su una targa da piazzare sulle nuvole.
“Qui ogni paese è all’estero. Il circo è sempre all’estero. Ma nella roulotte c’è casa. Apro la roulotte il meno possibile perché casa mia non evapori…”
La narratrice e protagonista del romanzo è figlia di artisti circensi, una bambina la cui casa sono i tendoni del circo, le roulottes, diverse paese per paese, le camere di pensioni che sembrano topaie o, a volte, quelle, comode e spaziose, di alberghi di lusso.
Il padre e la madre sono una coppia male assortita, lui è clown, acrobata, regista di film improbabili e, lascia intendere la bambina, molestatore della figlia, la sua sorella maggiore.
La madre, principale centro di riferimento affettivo della piccola è “la donna coi capelli d’acciaio”, che nel corso degli spettacoli viene appesa in alto per i capelli, camminando nell’aria.
La possibilità che possa cadere domina l’infanzia della bambina, divisa tra la costante paura di un incidente e una esplicita ammirazione:
“Mia madre è diversa dalle altre perché sta appesa per i capelli e questo fa allungare la testa e il cervello”.
La famiglia è fuggita dalla dittatura e dalla fame in patria, cercando all’ovest un paradiso che gradatamente mostra il suo vero volto.
Delle persone care alla bambina fin dalla prima infanzia, in questo girovagare continuo è rimasta solo una zia, un alter ego della madre, ma con una visione più spiccia e disincantata dell’esistenza.
Gli altri parenti, quelli rimasti in Romania a far la fame, anche quelli più remoti, seppelliscono di richieste di aiuto quel nucleo fuggito
in Occidente.
L’animo della narratrice è sopraffatto dall’incombenza dei suoi pensieri in fuga, tra le avventure di ogni giorno, l’apparenza lucente e festosa della vita circense, ed il terrore per ciò che potrebbe accadere a sua madre.
Per distrarla da quella paura sua sorella le racconta sempre una terribile favola rumena, quella del bambino che cuoce nella polenta, attorno alla quale girano spesso i pensieri e le domande della protagonista.
La paura per le gesta e per la sorte del bambino distolgono la bambina dal costante timore per la madre, paura lecita perché in un mondo di scherzi come quello del circo
“se mia madre cade non muore per scherzo, muore sul serio”.
E allora, ecco che la bambina si rifugia altrove, cercando la verità truce della fiaba:
“Il bambino cuoce nella polenta perché tormenta gli altri bambini. Prende gli orfani, li lega a un tronco d’albero e gli succhia via la carne dalle ossa…”.
La vita quotidiana, frase dopo frase, si farà sempre più complicata per la protagonista e progressivamente sempre più confusa, tra un periodo trascorso in collegio, divisa da sua madre e il successivo andirivieni di personaggi dello spettacolo, ambiente in cui, ormai adolescente, è ritornata a vivere e lavorare dopo averla ritrovata.
Difficilmente ci si può imbattere in un romanzo di formazione così insolito, nel quale le iniziazioni alle consuete tappe della vita, comprese quelle della scoperta della sessualità, avvengono in forme così inconsuete e magari per opera di personaggi di ogni risma, da quelli innocenti a quelli torbidi.
Il riemergere del padre chiude il romanzo, con il coinvolgimento della narratrice, che da piccola voleva diventare una star del cinema, in uno dei suoi film strampalati.
Gli è affidato il ruolo di angelo custode della nonna di Dio, parte quest’ultima che il padre si è riservata.
Lei deve indossare un abito di pizzo bianco, con calzini bianchi lunghi fino alle ginocchia, unghie rosa e guance rosse, perché:
“Gli angeli hanno sempre le guance rosse, dice mio padre, perché stanno molto all’aria fresca”.
Questo libro pieno di suoni e frasi memorabili è stato pubblicato in Italia dalla meritevole casa editrice Keller, che successivamente ha stampato un altro romanzo autobiografico della Veteranyi, “Lo scaffale degli ultimi respiri”, anch’esso autobiografico e che in realtà era stato scritto tempo prima del “Perché il bambino cuoce nella polenta”, e uscito postumo.
Postumo perché nel frattempo si era interrotta bruscamente l’esistenza della sua tormentata autrice.
Nata a Bucarest nel 1962 da una famiglia circense, in parte di origini ungheresi, Aglaja Veteranyi trascorse un’infanzia disordinata al seguito degli spostamenti dei suoi genitori.
Precocissima nel lavoro, come capita nel mondo del circo, già a tre anni prese parte attiva agli spettacoli, andando in tournee in Europa, Sudamerica e Africa.
A quindici anni, insieme con i genitori, fuggì dalla Romania che nel 1977 si trovava nel pieno della morsa di Ceausescu, riparando in Svizzera.
A quell’età Aglaja era ancora analfabeta.
Sentendosi insopportabilmente in difetto, imparò velocemente il tedesco, sua nuova lingua e, soprattutto, imparò anche a leggere e scrivere.
Lo fece da autodidatta, servendosi con ostinazione di una enciclopedia per ragazzi.
In Svizzera crescendo frequentò corsi di recitazione e infine si dedicò alla scrittura.
Lavorò a vari progetti, fondando con Renè Oberholzer il gruppo letterario Die Engelmaschine, mentre i suoi scritti cominciavano a comparire in varie riviste ed antologie letterarie.
Il primo romanzo pubblicato, “Perché il bambino cuoce nella polenta” ebbe un grande successo di pubblico e critica e ricevette anche importanti riconoscimenti letterari.
La Veteranyi, che riscuoteva così una fama internazionale, viaggiò molto in Europa, facendo letture e presentando il suo libro.
Ma i fantasmi di una vita difficile alle spalle e già molto consumata nonostante la giovane età, prevalsero sulla soddisfazione per il consenso che il suo lavoro aveva riscosso.
Quei fantasmi la condurranno nel 2002 a togliersi la vita a soli trentanove anni gettandosi nel Lago di Costanza.
Poco dopo, in quello stsso anno, verrà pubblicato quello che in realtà era stato il suo primo romanzo, “Lo scaffale degli ultimi respiri”, come pure postuma, vedrà poi la luce una raccolta di racconti e frammenti letterari ai quali stava lavorando prima della sua fine tragica, lasciati da lei incompiuti.
Piermario De Dominicis, appassionato lettore, scoprendosi masochista in tenera età, fece di conseguenza la scelta di praticare uno sport che in Italia è considerato estremo, (altro che Messner!): fare il libraio.
Per oltre trent’anni, lasciato in pace, per compassione, perfino dalle forze dell’ordine, ha spacciato libri apertamente, senza timore di un arresto che pareva sempre imminente.
Ha contemporaneamente coltivato la comune passione per lo scrivere, da noi praticatissima e, curiosamente, mai associata a quella del leggere.
Collezionista incallito di passioni, si è dato a coltivare attivamente anche quella per la musica.
Membro fondatore dei Folkroad, dal 1990, con questa band porta avanti, ovunque si possa, il mestiere di chitarrista e cantante, nel corso di una lunga storia che ha riservato anche inaspettate soddisfazioni, come quella di collaborare con Martin Scorsese.
Sempre più avulso dalla realtà contemporanea, ha poi fondato, con altri sognatori incalliti, la rivista culturale Latina Città Aperta, convinto, con E.A. Poe che:
“Chi sogna di giorno vede cose che non vede chi sogna di notte”.