Nonostante oggi per i più siano degli sconosciuti, negli anni 70 i Patto erano una delle compagini più originali della scena progressive, capace di allestire un incendiario jazz-rock grazie alla chitarra di Ollie Halsall e alla voce di Mike Patto.
Nato nel Gloucestershire il 22 settembre 1942, il cantante Michael Thomas McCarthy, soprannominato “Mike Patto”, cominciò la sua carriera come frontman vocalist unendosi nel 1965 ai Bo Street Runners, una band di R&B nei quali militava anche un giovanissimo Mick Fleetwood alla batteria.
Dopo lo scioglimento del gruppo, intorno alla fine del 1966, Mike si unì ai Timebox, una band inglese con all’attivo due singoli, appena messa sotto contratto dalla Deram.
Peter John “Ollie” Halsall era nato a Southport il 14 marzo 1949, è stato membro dei Patto e dei Tempest e, in precedenza, aveva collaborato con l’ex Soft Machine Kevin Ayers.
Ollie Halsall era un chitarrista di altissimo rango che copriva benissimo tutti i settori esecutivi: assoli schiettamente rock, rapidissime “fughe” jazz, accompagnamenti ad accordi, e invenzione di riff, tutto perfettamente al servizio dei vari brani eseguiti e non per mera esibizione delle sue enormi capacità.
Oltre ad una pregevole inventiva, Halsall aveva dei fondamentali tecnici solidissimi, un fluido e insistito legato con un suono che, insieme ad un’eccellente rapidità, faceva sembrare le sue lunghe frasi come quelle di un agile flauto o sax soprano.
Alla metà degli anni Sessanta, Londra era il centro nevralgico della musica mondiale: erano gli anni della British Invasion, ma anche quelli del blues revival di John Mayall.
Tra gli altri nomi destinati all’Olimpo musicale, iniziò anche la saga dei Patto, attivi dal 1965 dapprima come Take Five ed in seguito come Timebox.
Erano una band di scarso successo commerciale che venne notata principalmente per i suoi roboanti spettacoli dal vivo, che poco avevano da spartire con le performance dei gruppi inglesi di quei tempi. Il loro chitarrista Peter “Ollie” Halsall, si distingueva , come si è detto, per il suo singolare modo di suonare la sei corde: rapidissimo e totalmente imprevedibile.
Abituato pertanto a star dietro le scene, Ollie era un ragazzo schivo e insicuro fuori dal palco, ma pronto a diventare un travolgente intrattenitore appena imbracciava la sua Gibson.
Al fine di ottenere un suono il più possibile caratteristico si ispirava, e sembra incredibile, ad alcuni sassofonisti come Ornette Coleman e John Coltrane e a chitarristi del tipo di Django Reinhardt, appartenenti all’universo del jazz.
Era qualcosa di un rivoluzionario, ma non gli sarebbe bastato ad essere ricordato nelle classifiche dei migliori chitarristi della storia del rock.
Anche oggi, purtroppo, pochi ricordano il suo assoluto valore.
“Ollie potrebbe non essere stato il miglior chitarrista del mondo, ma di sicuro era tra i primi due”.
(John Halsey, batterista dei Patto)
L’evoluzione dei Timebox seguì una traiettoria simile a quelle delle altre formazioni britanniche del periodo: dopo aver pubblicato una serie di singoli piuttosto radiofonici diventarono via via sempre più sperimentali e improvvisativi.
Dopo una serie di fugaci apparizioni televisive, che evidentemente non fecero aumentare il successo del gruppo, il tastierista Chris Holmes, decise di lasciare la band. In seguito avrebbe suonato con i Babe Ruth, altro gruppo dell’immenso underground inglese del periodo; gli altri membri, in crisi di identità, ribattezzarono la band prendendo il nome dal suo vocalist, Mike Patto.
Quest’ultimo aveva iniziato la sua carriera nel 1965 con i Bo Street Runners, una band in cui figurava anche Mick Fleetwood, lo storico batterista dei Fleetwood Mac.
Il cantante aveva trovato pure il tempo di incidere un singolo con i Chicago Line Blues Band ed uno solista prima di arrivare nei Timebox, il cui organico era composto dal bassista Clive Griffiths, il batterista John “Admiral” Halsey e il citato polistrumentista Ollie Halsall.
Dopo appena un biennio e otto 45 giri, la Deram si sbarazzò del gruppo.
Nel 1970 il quartetto firmò allora per la Vertigo e pubblicò tre album in altrettanti anni, tutti passati clamorosamente inosservati e con scarsi esiti commerciali, ma destinati a rimanere nella storia underground per la loro originalità jazz-prog , in cui la voce rauca e bluesy di Mike Patto veniva arginata da una eccellente sezione ritmica e dalla fluidità della chitarra e delle tastiere di Ollie Halsall.
Il loro primo album omonimo, dunque, non ebbe molto successo commerciale, anzi non ne ebbe affatto, così come quelli che vennero dopo, ma la loro musica era unica, forse troppo precoce per i tempi: una miscela di jazz-rock elettrico con qualche spruzzata di progressive.
La voce rovente di Mike Patto, adagiata su una sezione ritmica in continuo movimento, con alla chitarra le dieci dita più impressionanti del periodo, rendevano quella musica qualcosa di mai sentito prima.
Il primo album, “Patto”, del 1970) nonostante la buona produzione di Muff Winwood finì per vendere appena 5000 copie, complice anche la scarsa promozione della label, all’epoca ancora poco conosciuta.
Sulle note di presentazione, scritte della stessa band, si poteva leggere la loro curiosa autodescrizione:
“Il jazz fuso con il rock non è una novità, molte band lo fanno per mezzo degli ottoni, ma non i Patto. Loro sono in quattro e usano la sezione ritmica per modificare gli umori, le sfumature del tempo e cambiare le chiavi musicali”.
Malgrado la chiara adesione allo stile progressive britannico bisogna nondimeno tenere presente che rispetto ad altre formazioni coeve, come i Colosseum, i Patto attingevano in maggior misura dal vasto serbatoio della black music, un ascendente che caratterizzava il modo di affrontare la musica di questa “unica band di jazz-rock senza fiati”.
L’armonia della band sembrava chiara col procedere dell’ascolto: la voce rauca di Mike Patto si amalgamava alla perfezione con la fluente chitarra di Ollie Halsall, mentre i frequenti cambi di tempo e i testi intrisi di cinismo sociale donavano alle canzoni una patina ancora più caratteristica.
La produzione dell’album catturava inoltre la band al meglio, permettendo all’ascoltatore di percepire ogni singola sfumatura di questa sensazionale alchimia.
Già la prima traccia del disco avrebbe dovuto bastare per convincere anche i più scettici: “The Man” era semplicemente meravigliosa, con un inizio che riservava una specie di trabocchetto all’ascoltatore, che dopo un assolo di vibrafono veniva travolto da un crescendo a dir poco impressionante, perché il pezzo, iniziato come un blues con lenti lamenti di Mike e finiva per condurci inaspettatamente in un trip sonoro memorabile.
Mike Patto sembrava tramutarsi nello schizoid man raffigurato in copertina nel sonico hard-rock di “Hold Me Back”, con la chitarra di Halsall che tesseva, tra riff, assoli e sovraincisioni, una base perfetta al suo canto isterico.
“Time To Die” spostava di nuovo l’asse sul versante acustico, in uno stato d’animo generale più equilibrato, nel quale la chitarra e un delicato lavoro della sezione ritmica sottolineavano ancora le enormi doti vocali di Mike.
Gli assoli di Halsall scuotevano poi “Red Glow”, mentre “San Antone”, battezzato come un brano fusion, deragliava in un’inaspettata parata boogie-rock.
Torna la calma con “Government Man”, un altro momento di sottile jazzy rock, che era forse il migliore indicatore della predilezione del gruppo per la combinazione di accattivanti ritornelli e divagazioni progressive, “Money Bag” catturava infine la band in un momento free-form, la cui bipolarità veniva prorogata nel blues abrasivo di “Sittin’ Back Easy”, che passava dalla quiete alla tempesta in maniera talmente repentina da far quasi girare la testa.
I fraseggi della Gibson di Halsall, non limitati alla sola scala pentatonica, ma in continua evoluzione, segnavano il brano insieme con il rullante raffinato di Halsey e la voce roca e potente del cantante, simile per certi versi a Joe Cocker e per i ricami del bassista, che disegnavano il giusto sfondo per le pennellate dei solisti.
“Patto” è ruvido, grezzo, l’avevamo registrato in modo che avesse una compattezza violenta, che aggredisse chi ascolta. I bruschi cambiamenti di ritmo erano un po’ il nostro marchio di fabbrica, il motto di Mike era “mai fare l’ovvio”.
Nel 1971 i Patto confermarono il loro caratteristico stile ibrido tra jazz e rock nella seconda prova discografica, con il fidato Muff Winwood ancora alla cabina di regia.
Già dalla copertina “Hold Your Fire”, era di per sè un piccolo gioiello: realizzata da un giovane Roger Dean (noto per essere l’autore delle più belle copertine degli Yes), l’immagine si componeva di tre figure su altrettante strisce mobili che andavano a formare una serie combinata di personaggi immaginari.
Anche in questo caso le quotazioni dei vinili originali raggiungono oggi cifre da capogiro.
Il “cessate il fuoco”, enunciato dal titolo, era in realtà un falso monito: la title track impostava il tono incendiario dell’intero album, con la caratteristica voce di Mike Patto e le chitarre di Ollie Halsall, capace di destreggiarsi anche al pianoforte.
Con una punta di sarcasmo, veniva presa di mira la cultura hippie nella ballata di protesta “You, You Point Your Finger”, uno dei momenti salienti del disco assieme a “How’s Your Father” in cui alla chitarra, Halsall aggiungeva anche il pianoforte.
In seguito, vi era spazio per il più flessuoso rock’n’roll in “See You At The Dance Tonight”, ispirata a un party all’ambasciata britannica nel quale la band era stata invitata a suonare.
Se in “Give It All Away” era il lato swing ad agitare la melodia per finire con l’apoteosi dello straordinario assolo di Halsall, “Air-Raid Shelter” secerneva tutta la dinamicità del rock-jazz che veniva prepotentemente a galla grazie alla perfetta simbiosi ritmica tra Halsey e Griffiths, che parevano a tratti decollare da questo“rifugio anti-aereo”, teso fino allo spasimo.
In un solo anno Ollie aveva fatto passi da gigante, era un vero virtuoso: inventava e dispensava riff e assoli in “Hold your fire”, “How’s your father” e “Air-raid Shelter”, con una fluidità tale da rendere la struttura del disco molto più organica; si sentiva la sua egemonia in ogni pezzo.
“In tracce come “Air Raid Shelter” la sua chitarra suona delle melodie così fantasiose, non il solito blues-standard che tutti stavano facendo, ovvero quella copia economica di Clapton. Ollie non suonava così. Era più come Albert Ayler o John Coltrane, una sorta di pianista fluido. Quando l’ho sentito una volta mi sono detto:
“Oh, devo proprio suonare così!”
(Andy Partridge, leader Xtc)
Con tutto ciò ma le vendite del disco facevano piangere e Halsey, il batterista, racconta che quando avanzava l’ipotesi che si potesse provare a scrivere qualche canzone pop per tentare di venderla, Mike e Ollie si guardavano come sbalorditi: no, di tornare indietro non se ne parlava proprio.
“Perché eravamo convinti che quel che facevamo (vogliamo chiamarlo pop-psichedelico?) ci rispecchiasse per davvero…l’anima del gruppo era “Ollie” Halsall, a 21 anni già un musicista davvero totale, nelle mani, nella testa, nel cuore. Ollie aveva imparato a suonare i vibes a 14 anni colpendo con i battitori alcune strisce di carta appoggiate sul letto, ed era stato pure un batterista professionista; poi prese in mano la chitarra, per la prima volta nel ’67…”
Dopo questo disco la Vertigo li ha scaricò. Il produttore poi disse: “basta ragazzi, è finita con tutto ‘sto progressive. Ora c’è il glam rock”!
Dopo due lunghi tour di supporto a Joe Cocker e ai Ten Years After, nel 1972 i Patto passarono alla Island, pubblicando in ottobre il più duro “Roll ‘Em Smoke ‘Em Put Another Line Out”, nel quale trova spazio “Singing The Blues On Reds” e, soprattutto, l’anarchia proto-grunge di “Loud Green Song”, scalfita da quello che, stando a Nick Saloman dei Bevis Frond, era il più bell’assolo di tutta la storia del rock!
Risale a questo periodo l’unica registrazione live della band, al “Black Swan” di Sheffield (Warts And All), proprio mentre John Halsey sfiorava la popolarità come batterista di Lou Reed in “Transformer”.
Ma la ricetta per il successo i Patto non riescivano proprio a trovarla: rispetto agli altri gruppi di progressive inglesi, i loro testi realistici e apertamente politici non incontravano il gusto del pubblico.
Ancora senza remunerazioni commerciali, nel 1974 la band decise quindi di sciogliersi, lasciando in sospeso le registrazioni del quarto Lp, che uscirà postumo, ma senza Ollie.
Negli anni Settanta Ollie Halsall sostituì Allan Holdsworth nei Tempest di Jon Hiseman per “Living In Fear” (1974).
Per un paio di settimane successe persino che Halsall e Holdsworth si ritrovassero a suonare assieme le loro Gibson sullo stesso palco, come testimonia lo spettacolare “Live In London ’74”.
In questo periodo, Ollie si fece per giunta notare in numerose apparizioni dal vivo o su disco con artisti del calibro di Kevin Ayers, John Cale, Lady June e Robert Fripp.
Proprio il Re Cremisi detiene ancora oggi il materiale inedito di Ollie registrato nel 1972 assieme ai Blue Traffs che avrebbe dovuto essere pubblicato per la E.G. Records.
Ironia della sorte, per alcuni dei suoi lavori più noti Halsall non ricevette inoltre alcun riconoscimento ufficiale, un fatto che non stupisce, se si pensa che il chitarrista era noto per essere un tipo talmente umile e silenzioso da svegliare di notte i compagni, non a causa del ridacchiare delle groupie, ma perché studiava le sue scale.
Alla fine del 1975, reduci da una lunga sfilza di collaborazioni, Mike Patto e Ollie Halsall decidono di riprovarci con i Boxer, la cui musica si allontanava tuttavia anni luce da quella proposta dai Patto, caratterizzandosi per un hard-rock canonico.
La loro nuova band siglò un contratto di cinque dischi con la Virgin ma, a dispetto delle buone premesse, anche quest’operazione ebbe cattiva sorte a causa del temperamento anarcoide dei due ex-Patto.
Con la partenza di Halsall dai Boxer, il manager Nigel Thomas gli confiscò tutti gli amplificatori e le chitarre, inclusa la sua iconica Gibson SG Custom bianca, per coprire le perdite finanziarie.
Halsall rimase senza soldi e registrò, con apparecchiature prese in prestito, le canzoni che finiranno in “Caves”, uscito postumo nel 1999, in cui si destreggiava abilmente tra voce, chitarra, pianoforte, sintetizzatore, batteria, basso e sassofono in una superba prova di versatilità tecnica.
A questo punto, con Ollie squattrinato e la formazione ormai in frantumi, nel 1979 avvenne la prima di una lunga serie di tragedie destinate a segnare inesorabilmente le sorti della band: Mike Patto morì dopo una lunga battaglia contro la leucemia linfatica, a soli 36 anni.
Il suo amico Jim Capaldi, storico batterista dei Traffic, scriverà “Bright Fighter” dedicandola proprio a lui.
Alla fine degli anni Ottanta Clive Griffiths e John Halsey vennero coinvolti in un grave incidente d’auto durante il tour con Joe Brown. Le conseguenze furono disastrose per entrambi: Halsey ne escì claudicante per sempre e trascorse la maggior parte del decennio successivo vendendo pesce, prima di aprire il “Castle Inn Pub” a Cambridge.
Griffiths dopo l’impatto entrò in coma e si svegliò due mesi più tardi con degli irreparabili danni fisici e neurologici: in parte paralizzato, non si ricorderà neanche di essere stato in una band.
Di ritorno a Madrid da un tour inglese, Ollie Halsall morì nel 1992, stroncato da un’overdose di eroina nel suo appartamento in Calle de la Amargura (“Via dell’Amarezza”, manco a cercarlo apposta…).
Sebbene non disdegnasse di rifugiare i suoi dispiaceri nell’alcol, Ollie si era paradossalmente avvicinato alla droga casualmente.
La sua intenzione originaria era aiutare un amico a disintossicarsi, invece alla fine se ne fece coinvolgere anche lui.
Quando morì lo shock fu enorme per tutti, in special modo per Kevin Ayers, che non si riprenderà mai dal quel dolore.
Al momento della sua scomparsa, avvenuta nel 2013, l’ex-Soft Machine vorrà perciò essere sepolto proprio vicino al suo storico amico a Deià, sull’isola di Maiorca, un paese che per anni era stato il loro nascondiglio dal mondo esterno.
Sulla lapide in pietra di Ollie, l’artista Michael Kane aveva incastonato una presa jack e due manopole per il volume: durante quell’operazione, come se la sfortuna non si fosse già accanita abbastanza, l’epigrafe si ruppe persino in due!
Lino Predel non è un latinense, è piuttosto un prodotto di importazione essendo nato ad Arcetri in Toscana il 30 febbraio 1960 da genitori parte toscani e parte nopei.
Fin da giovane ha dimostrato un estremo interesse per la storia, spinto al punto di laurearsi in scienze matematiche.
E’ felicemente sposato anche se la di lui consorte non è a conoscenza del fatto e rimane ferma nella sua convinzione che lui sia l’addetto alle riparazioni condominiali.
Fisicamente è il tipico italiano: basso e tarchiatello, ma biondo di capelli con occhi cerulei, ereditati da suo nonno che lavorava alla Cirio come schiaffeggiatore di pomodori ancora verdi.
Ama gli sport che necessitano di una forte tempra atletica come il rugby, l’hockey, il biliardo a 3 palle e gli scacchi.
Odia collezionare qualsiasi cosa, anche se da piccolo in verità accumulava mollette da stenditura. Quella collezione, però, si arenò per via delle rimostranze materne.
Ha avuto in cura vari psicologi che per anni hanno tentato inutilmente di raccapezzarsi su di lui.
Ama i ciccioli, il salame felino e l’orata solo se è certo che sia figlia unica.
Lo scrittore preferito è Sveva Modignani e il regista/attore di cui non perderebbe mai un film è Vincenzo Salemme.
Forsennato bevitore di caffè e fumatore pentito, ha pochissimi amici cui concede di sopportarlo. Conosce Lallo da un po’ di tempo al punto di ricordargli di portare con sé sempre le mentine…
Crede nella vita dopo la morte tranne che in certi stati dell’Asia, ama gli animali, generalmente ricambiato, ha giusto qualche problemino con i rinoceronti.