Avrei voluto scrivere un pezzo brillante, indagare ragioni pro e contro una qualsiasi disputa umana, filosofeggiare per un po’, salpare verso nuovi lidi… invece mi trovo qui a dibattere con me stessa.
Sono in subaffitto, io con me, siamo in due, inscindibili, eppure entrambe singolarmente io, a volte dimentiche di parlarsi e rispondersi a voce alta, tra orecchie indiscrete; ma siamo fatte d’aria e di impalpabili pensieri.
Vivo questa dualità, io e la scrittrice, io e la poeta, io e la scomoda coinquilina che non fa altro che rincorrere le pulsioni del suo muscolo cardiaco.
Vorrei essere conosciuta per ciò che scrivo, ovvero essere quella parte e basta, non avere bisogno di altro, scindermi dall’altra me, dall’obbligo di confondermi con ciò che devo e sono; senza convenzioni, io contro me, io con me, senza me.
Sarebbe bello allora prendere il primo treno, il primo che parte a caso, un trolley di poche pretese e poi bersi paesaggi dal finestrino, ovunque si vada. La penna traccerebbe sopra il rigo, seguendo le rotaie dietro ai sogni che viaggiano andando incontro ai sogni di viaggi d’oltremare, e odori di campagne disseminate d’erba e cieli rumorosi di nuvole in tempesta, col sereno ritrovato nei tramonti e la certezza d’albe a segnare gli orizzonti.
Cerco la meraviglia di quando tutto prende forma; la notte sottrae e il giorno restituisce profili rinnovati, dal trucco svelato l’indefinito cede linee e prospettive, e mi si scioglie il trucco per il pianto.
Tuttavia il finestrino divora e dissemina lo sguardo di impressioni, lascia che sia quella me a metterci il suo, a vedere senza fermarsi in superficie, a completare oltre le apparenze con quei significati solo suoi.
Poi, quando si scopre l’universalità di un sorriso e l’abbaglio lancinante di una stretta oltre il dolore, l’abbraccio si scioglie nei silenzi; scopri che il viaggio è quel comune andare, ma ognuno lo fa suo… io con me, carica di parole, coabito gli spazi in disavanzo e, quando mi esplode il senso della vita o mi duole il suo nonsenso, mi resta il suono di parole e voci, di amori andati che non se ne sono andati, e di risposte e repliche al mio dire, tra io e me, noi due, nell’interezza che ci fa persona.
Fino a poco tempo fa mi sono nascosta dietro l’eteronimo di Nota Stonata, una introversa creatura nata in una piccola isola non segnata sulle carte geografiche che per una certa parte mi somiglia.
Sin da bambina si era dedicata alla collezione di messaggi in bottiglia che rinveniva sulla spiaggia dopo le mareggiate, molti dei quali contenevano proprio lettere d’amore disperate, confessioni appassionate o evocazioni visionarie.
Oggi torno a riprendere la parte di me che mancava, non per negazione o per bisogno di celarla, un po’ era per gioco un po’ perché a volte viene più facile non essere completamente sé o scegliere di sé quella parte che si vuole, alla bisogna.
Ci sono amici che hanno compreso questa scelta, chiamandola col nome proprio, una scelta identitaria, e io in fin dei conti ho deciso: mi tengo la scomodità di me e la nota stonata che sono, comunque, non si scappa, tentando di intonarmi almeno attraverso le parole che a volte mi vengono congeniali, e altre invece stanno pure strette, si indossano a fatica.
Nasco poeta, o forse no, non l’ho mai capito davvero, proseguo inventrice di mondi, ora invento sogni, come ebbe a dire qualcuno di più grande, ma a volte dentro ci sono verità; innegabilmente potranno corrispondervi o non corrispondervi affatto, ma si scrive per scrivere… e io scrivo, bene, male…
… forse.
Francesca Suale