“Le città sono un insieme di tante cose: di memoria, di desideri, di segni d’un linguaggio; le città sono luoghi di scambio, come spiegano tutti i libri di storia dell’economia, ma questi scambi non sono soltanto scambi di merci, sono scambi di parole, di desideri, di ricordi. Il mio libro s’apre e si chiude su immagini di città felici che continuamente prendono forma e svaniscono, nascoste nelle città infelici.”
Italo Calvino, da “Le città invisibili”
Ho un’idea felice di città, questo è il mio sogno, perciò ritengo che alla politica si debba chiedere di sapersi fare interprete di una visione collettiva e di agire per imprimere a questo ideale la sostanza.
Tendere alla felicità nella vita in comune, non vi pare sia essenziale? Questo dovrebbe fare chi amministra le nostre città.
Invece, in tanti anni, ho visto città prendere altre forme, la mia compresa, attagliate alle promesse elettorali di decenni, alle fanfare e ai miti di un progresso che non ha avuto mai come principio il far progredire tutti, ma che, avvitato sull’interesse privato di questa o quella casta, ha finito per lasciare indietro gli ultimi, perciò infelici tutti.
Ma non è solo questo il punto: una città, come scrive Calvino, è un insieme di memoria, di desideri, di luoghi di scambio, non solo commerciali, ma di idee, parole, appartenenze, per cui nessuno possa dirsi escluso. Una città tanto più cresce quanto più riesce ad armonizzare queste anime, non è il giardino da mettere in cornice, mentre proliferano ghetti di solitudine, e neanche è il disordine di un’urbanistica che, a colpi di varianti, ha aggredito l’habitat collettivo per decenni e ha sottratto risorse ambientali per trasformarle in rendite per pochi.
Scrive Raffaele La Capria:
“Cambiare la struttura urbanistica di una città significa cambiarne la morale”,
e non è certo un concetto di poco conto, se pensiamo appunto a cosa è stata la struttura urbanistica di questa nostra città, nei decenni della speculazione edilizia, cresciuta senza un’idea di insieme, senza la propensione a una vita e a una realtà felice, preda di un’economia di rapina. Non viene facile allora fare il parallelismo con altrettanto degrado morale?
Victor Hugo scrisse che:
“Le città fanno gli uomini feroci perché fanno gli uomini corrotti”,
sono chiari i segni della ferocia predatoria che si è abbattuta sulla nostra città, ferite che devono ancora essere sanate perché frutto di decenni di malamministrazione. Oggi non basta raccontarla salotto o prometterla giardino, soprattutto se non si è mai posto un freno a questo scempio; oggi bisogna saperla capire e soprattutto pensarla umana, ma di una umanità che prima di ogni altra cosa sappia e voglia coltivare altri giardini, quelli in cui movimenti, associazioni, comitati di quartiere, laboratori, reti e coordinamenti di cittadini trovano spazio e ripensano insieme la politica da protagonisti, progettando la città in cui vivere e realizzare una dimensione nuova dell’abitare.
Il percorso avviato in questi ultimi anni per una gestione partecipata degli spazi della città, attraverso dispositivi come quello degli usi civici per la cura dei beni comuni, ha trasformato la prospettiva guardando alla riapertura di spazi fisici alla vita in comune: un modo di reinterpretare la città partendo dalla sua variegata umanità, dove il vivere insieme diventa priorità per ridisegnare una mappa della città: non più forme vuote ma forme vive.
Fino a poco tempo fa mi sono nascosta dietro l’eteronimo di Nota Stonata, una introversa creatura nata in una piccola isola non segnata sulle carte geografiche che per una certa parte mi somiglia.
Sin da bambina si era dedicata alla collezione di messaggi in bottiglia che rinveniva sulla spiaggia dopo le mareggiate, molti dei quali contenevano proprio lettere d’amore disperate, confessioni appassionate o evocazioni visionarie.
Oggi torno a riprendere la parte di me che mancava, non per negazione o per bisogno di celarla, un po’ era per gioco un po’ perché a volte viene più facile non essere completamente sé o scegliere di sé quella parte che si vuole, alla bisogna.
Ci sono amici che hanno compreso questa scelta, chiamandola col nome proprio, una scelta identitaria, e io in fin dei conti ho deciso: mi tengo la scomodità di me e la nota stonata che sono, comunque, non si scappa, tentando di intonarmi almeno attraverso le parole che a volte mi vengono congeniali, e altre invece stanno pure strette, si indossano a fatica.
Nasco poeta, o forse no, non l’ho mai capito davvero, proseguo inventrice di mondi, ora invento sogni, come ebbe a dire qualcuno di più grande, ma a volte dentro ci sono verità; innegabilmente potranno corrispondervi o non corrispondervi affatto, ma si scrive per scrivere… e io scrivo, bene, male…
… forse.
Francesca Suale
credo che un’analisi sociologica vera di questa città non sia stata fatta, per cui ogni sindaco impone una sua visione in funzione di valori, interessi occasioni, a prescindere dal bene comune, cioè un bene riconosciuto come bene dalla maggior parte dei cittadini, e quindi ogni scelta sottoposta al giudizio. Anche l’ultima amministrazione si è autonominata guardiana del bene comune, dimenticandosi di spiegarci qual’è. Le carte, questa volta risulteranno mischiate dalla mano inesorabile del tempo e nulla, nonostante tutto, sarà come prima.