Incappai, senza saperlo ancora, nella figura di Cesare Zavattini quando ero ancora un ragazzino e una sera davvero fortunata, passata in compagnia della mia amatissima nonna materna, vidi in televisione “Miracolo a Milano”, il film di De Sica.
Mi immedesimai velocemente nella storia dell’orfano Totò, nonostante la mia diversa e decisamente migliore condizione, soprattutto per via del rapporto affettuoso del ragazzino con la vecchia Lolotta, una specie di nonna anch’essa, che lo aveva trovato sotto un cavolo e adottato.
Quella splendida favola, che univa la sognante dimensione fantastica a situazioni fortemente realistiche, mi appassionò: non dimenticai mai più quella serata e tuttora la ricordo con viva commozione, ad oltre cinquant’anni di distanza.
Naturalmente allora non avevo la minima idea di chi fosse Zavattini e fu solo dopo alcuni anni che a causa della mia inesausta passione di lettore, seppi che quel film era stato tratto da “Totò il buono”, un suo romanzo.
Fu così che entrai in contatto con una delle figure più singolari, eclettiche e pervasive della cultura italiana del Novecento.
Mi fu subito facile, intanto, collegare Zavattini ad altri film che avevo visto e che mi avevano toccato profondamente. “Umberto D”, “Sciuscià” o “Ladri di biciclette”: erano le opere che imposero in tutto il mondo quella corrente neorealista del nostro cinema che seppe così ben descrivere l’Italia dell’immediato dopoguerra.
La caratura di quei film parlava chiaro sulla straordinaria qualità dello scrittore che collaborando con De Sica aveva prodotto gioielli di quel calibro e sulla sua capacità narrativa di interpretarci: raramente arte e società sono apparse così in sintonia come lo furono in quei capolavori.
Fu conseguenziale per me, divoratore di carta stampata, leggere gli scritti di Zavattini, entrare nel suo mondo artistico ed intellettuale, così vitale, poetico e particolare, così capace di rappresentare l’universale partendo da un paesino o da un quartiere.
Oggi mi pare che si sia dimenticato oltre il dovuto un personaggio di gran peso culturale, una mente apertissima e vivace in grado di operare in più campi con la medesima mistura di leggerezza e incisività.
Sono stato grato perciò al mio amico Gianfranco Pannone, regista e documentarista, che nel suo “Mondo Zà” ha recentemente ricordato Zavattini, ricostruendone la figura partendo da Luzzara, il suo paese natio, dalla sua gente e, in sostanza, dalle radici dello scrittore.
Nel ricordato paese di Luzzara, che si trova in provincia di Reggio Emilia, Cesare nacque nel 1902, primo di cinque figli.
I genitori gestivano un bar albergo ristorante di loro proprietà. Il ragazzino frequentò le scuole elementari prima in paese, poi a Bergamo, ospitato da una zia.
A Bergamo ebbe un primo, emozionante contatto col mondo dello spettacolo assistendo ad una performance del grande attore trasformista Leopoldo Fregoli, che letteralmente lo ammaliò. Le conseguenze di quell’incanto saranno durature: col senno di poi si può osservare che in tutte le sue opere future sarà facile rintracciare nel suo sguardo di adulto quella sua meraviglia di bambino. In seguito al trasferimento dei genitori a Segni, in provincia di Frosinone, proseguì gli studi presso il Liceo Classico di Alatri, altro paese del frusinate, dove trascorse tre anni da lui definiti “estremamente interessanti”. Durante una gita a Roma assistette a qualche ripresa del film “La Gerusalemme liberata”, del regista Guazzoni, vivendo quella che è da considerare la sua prima esperienza su un set cinematografico.
Tornato a Luzzara con la famiglia, si iscrisse alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Parma, senza tuttavia mai laurearsi.
Quegli anni furono decisivi per la sua vita e la sua formazione.
Precocemente interessato alla politica, prima del conflitto e nel corso della Prima Guerra Mondiale, giovanissimo, prese decise posizioni interventiste.
A Parma conobbe anche Giovannino Guareschi, col quale fondò il primo giornaletto umoristico della sua carriera, e il poeta Attilio Bertolucci, con cui stabilì duraturi rapporti di amicizia e di collaborazione.
Emergevano quindi in quel periodo le sue vere passioni, quelle che lo spingevano decisamente verso interessi culturali ad ampio spettro: la lettura, il teatro, l’arte e, sua vocazione prepotente, la scrittura.
Si era per questo avvicinato al mondo giornalistico nel quale esordì nel 1926 collaborando con la Gazzetta di Parma.
Trasferitosi a Milano, collaborò poi con diversi giornali. Nel 1925 intanto, dalla sua compagna, Olga, aveva avuto Mario, il suo primo figlio, a cui negli anni seguiranno altri due.
Il suo primo periodo milanese fu contrassegnato da forti difficoltà economiche, tanto che Zavattini, per porvi rimedio, lavorò contemporaneamente per le due maggiori case editrici nazionali, la Rizzoli e la Mondadori.
Nel 1931 la pubblicazione del suo primo libro, “Parliamo tanto di me”, a dispetto di una sua difficile classificazione letteraria, ebbe uno straordinario successo, allentando la presa delle ristrettezze.
Negli anni Trenta scrisse sulla famosa rivista umoristica romana “Marc’Aurelio” tenendo una sua rubrica fissa, per arrivare poi, nel 1936 a fondare il famoso giornale satirico “Il Bertoldo”, noto per l’apporto di tante altre grandi firme dell’umorismo italiano e del quale fu anche direttore.
Nel 1939 assunse con un altro grande umorista, Achille Campanile, la condirezione del “Settebello”, altro periodico di satira.
Ironico, stralunato e surreale, Zavattini riusciva a fondere queste caratteristiche, apparentemente avulse dalla concretezza del piano materiale, con una rappresentazione realistica e critica della società, creando un mondo letterario assolutamente originale, caratterizzato stilisticamente da una scrittura corta, asciutta e fantasiosa insieme, immediatamente riconoscibile come sua.
I suoi bersagli non erano mai immediatamente politici, stanti le difficoltà che il regime fascista procurava alla libertà di espressione. I suoi rapporti col fascismo furono infatti formalmente corretti: lui prese la tessera del partito, ma lo fece soprattutto per i suoi timori di riflessi punitivi sul suo lavoro. Privatamente Zavattini coltivava al contrario il suo lato critico, leggendo pubblicazioni e giornali satirici antifascisti.
Ambito privilegiato della sua narrativa fu dunque un’analisi critica della società, esercitata come abbiamo visto, attraverso una rappresentazione del mondo reale mediata dall’intervento poetico: in lui era la surrealtà, con le sue forzature fantastiche, ad illustrare benissimo la realtà.
Questa sua personalissima impronta la si potè rintracciare anche nelle sue opere letterarie successive: “I poveri sono matti”, del1937; “Io sono il diacolo”, del 1941; il già citato “Totò il buono”, scritto nel 1947, e il più tardo “Straparole”, del 1967.
L’altro grande campo di azione di Zavattini fu, come si è detto, quello cinematografico nel quale il suo intervento spiccò per qualità e quantità col suo intensissimo lavoro di soggettista e sceneggiatore.
Fu col regista Camerini, negli anni Trenta, che lo scrittore iniziò quel rapporto che fu di enorme importanza per il cinema italiano.
Se è vero che fu soprattutto il suo sodalizio con Vittorio De Sica a produrre capolavori come quelli che abbiamo già ricordato all’inizio di questo breve ritratto, è altrettanto vero che lo scrittore partecipò alla realizzazione di oltre ottanta film, italiani e internazionali, collaborando con registi di grandissima levatura, quali Antonioni, Hall Bartlett, Blasetti, Bolognini, Renè Clement, Lattuada, Fellini, Germi, Monicelli, De Santis, Rossellini, Visconti, Soldati, Petri e Damiano Damiani.
Dalla direzione che impresse alla sua densa attività di scrittore per il cinema si deduceva facilmente la sua volontà di rinnovare un’arte, che lui riteneva popolare, piegandola ad una esigenza di evoluzione e di maturazione civile, slegandola da immediate esigenze di mercato.
Zavattini non si è mai seduto infatti su modelli artistico letterari scontati, appagato da precedenti successi, ma ha tentato costantemente strade pionieristiche, come testimonia il complesso del suo lavoro.
“Un paese”, libro pubblicato nel 1952 insieme col fotografo Paul Strand, un’opera che attraverso le immagini voleva restituire la realtà quotidiana dell’Italia, fornisce un altro esempio della sua costante e multidirezionale ricerca: anche il suo contributo alla storia della fotografia italiana fu dunque incisivo.
La sua voglia di non essere convenzionale raggiunse l’apice nel 1970, con il “Non libro più disco”, un volume studiato per non essere letto, accompagnato da un 45 giri.
Attivo anche come pittore, fu collezionista appassionato di mini quadri e fu uno degli scopritori del talento sfrenato di Antonio Ligabue, al quale dedicò il poemetto “Toni Ligabue”.
Anche come poeta Zavattini lasciò un segno importante: la sua raccolta “Stricarm’in d’na parola”, Stringermi in una parola, uscita nel 1973 e composta da poesie nella lingua della sua terra di origine, venne definita da Pierpaolo Pasolini:
“Un libro bello in assoluto”.
Nel 1982 Zavattini, già ottentenne ma inesauribile, diresse il suo unico film da regista, “La veritaaa”.
E a completare il quadro di una non comune poliedricità, va ricordato anche il suo notevole lavoro di sceneggiatore per il mondo del fumetto.
Da sempre pittore e cultore dell’arte popolare, nel 1967 istituì nella sua Luzzara un premio per la pittura naif, fondando anche il Museo Nazionale delle Arti Naives.
Lo scrittore, ancora attivissimo, morì a Roma nel 1989.
Piermario De Dominicis, appassionato lettore, scoprendosi masochista in tenera età, fece di conseguenza la scelta di praticare uno sport che in Italia è considerato estremo, (altro che Messner!): fare il libraio.
Per oltre trent’anni, lasciato in pace, per compassione, perfino dalle forze dell’ordine, ha spacciato libri apertamente, senza timore di un arresto che pareva sempre imminente.
Ha contemporaneamente coltivato la comune passione per lo scrivere, da noi praticatissima e, curiosamente, mai associata a quella del leggere.
Collezionista incallito di passioni, si è dato a coltivare attivamente anche quella per la musica.
Membro fondatore dei Folkroad, dal 1990, con questa band porta avanti, ovunque si possa, il mestiere di chitarrista e cantante, nel corso di una lunga storia che ha riservato anche inaspettate soddisfazioni, come quella di collaborare con Martin Scorsese.
Sempre più avulso dalla realtà contemporanea, ha poi fondato, con altri sognatori incalliti, la rivista culturale Latina Città Aperta, convinto, con E.A. Poe che:
“Chi sogna di giorno vede cose che non vede chi sogna di notte”.