John Wayne, una storia esemplare
Il fuoco del bivacco illuminava l’inchiostro di quella notte inquieta. Bagliori incandescenti guizzavano rivelando attratti il volto tirato dell’uomo. Una mano, perennemente poggiata sul winchester, tremava violentemente: esaurimento nervoso con manie persecutorie, gli aveva detto Doc tre mesi prima.
Uno sbuffo uscì dalla gola di Principessa, la fedele bastardina che, unica creatura serena in tanta tensione, dormiva accovacciata ai suoi piedi.
John Wayne si rese conto guardandola, della terribile stanchezza che lo sovrastava e fece per scuotersi.
Immediatamente, il coro dei Sioux di Lignano Sabbiadoro attaccò il pezzo d’apertura dei suoi concerti: “Vieni a noi, Grande Spirito, trebbia il viso pallido, aumentagli il Colesterolo…”.
Wayne li considerò con disgusto, detestava i pellerossa. Anni che pesavano come secoli lo avevano visto combatterli senza tregua.
Tutto era iniziato in quel lontano, maledetto giorno in cui, piccino di otto anni, dovette assistere al massacro dei suoi genitori. Percorrevano sul caro vecchio carro il sassoso deserto del Gila, cantando a squarciagola le antiche ballate dei fattori daltonici. La coesione di quella famigliola modello risplendeva mentre le ruote macinavano miglia su miglia. Purtroppo, essendo tutti e tre ammalati di parotite (i volgari “orecchioni”) e debitamente incappucciati, non si resero conto del roboante arrivo di 5650 (cinquemilaseicentocinquanta) Apaches, incazzati a morte per il sequestro dell’unica aragosta componente il loro vivaio.
Il piccolo John vide il padre difendersi disperatamente prima che l’implacabile Tomahawk indiano lo spedisse in prognosi riservata, uccidendolo infine di ecchimosi e traumi cranici.
Sua madre, straziata dal dolore, perse la favella e l’ultimo suo urlo angosciato ancor oggi attraversa il deserto nelle notti ventose. Ella fu poi denudata e seviziata un migliaio di volte finché non cadde, stroncata dai tormenti, ai piedi di un semaforo piantato lì, in pieno deserto, per una bizzarria amministrativa.
John, il cui spiumaggio era iniziato solo da alcuni minuti, fu poi risparmiato in ragione della sua giovane età e, ovviamente, venne allevato dal solito stregone un po’ coglione e sentimentale che gli appioppò il logoro appellativo di “cucciolo di viso pallido”.
Senonché, i rapporti del ragazzetto col vecchio sciamano non furono mai pacifici per via di certi intrugli che il venerando apache lo costringeva a sorbire e che lui non sopportava perché favorivano la crescita rigogliosa di peli superflui all’interno dell’intestino tenue, rendendogli arduo digerire perfino l’acqua.
All’età di diciassette anni, ormai svezzato a dovere, aveva appreso i trucchi indiani così bene che quando li poneva in atto non funzionavano mai poiché era in grado contemporaneamente di neutralizzarli.
L’invidia dei suoi coetanei dalla pelle rossa cresceva di giorno in giorno e quando in questa situazione entrarono in ballo le inevitabili storie di donne, i rapporti del giovane Wayne con l’intera tribù si guastarono definitivamente.
Egli fuggì di notte, pieno di odio, lasciandosi alle spalle varie esperienze amare, un debito valutato in circa dodicimila pelli ed una dozzina di meticci di produzione propria. Tutti costoro, parecchi anni dopo, raggiunsero una certa fama nel mondo del cinema dove tirarono avanti decorosamente interpretando film western, tutti quanti adottando lo pseudonimo di John Wayne…
Ma ora John era nuovamente sotto le stelle e l’amico fuoco lo distolse dai ricordi.
Una freccia passò stancamente ad una quindicina di millimetri dalle sue narici. I Sioux, non dormono mai quei bastardi?
Raccolse la freccia e ne esaminò con studiata trascuratezza la marca (sapeva che gesti simili producevano effetti devastanti sul morale dei selvaggi), poi la scagliò con malgarbo a circa sei miglia di distanza, verso le mitiche colline del Big Hole. Un urlo strozzato ed una volgarissima serie di imprecazioni gli segnalarono che la sua vittima n° 188 era caduta, colpita al duodeno.
Tornò ai suoi pensieri…
Sono quasi trent’anni -rifletteva John- che tiro avanti aspettando la pensione. Cosa importa, a quei fottuti politicanti, di una vita trascorsa inevitabilmente fra sparatorie, bari, pupe e gli ululati clamorosi del coyote nella notte nera? Non basta essere eroi professionisti per spostare di un centimetro una maledetta pratica negli uffici dello Stato del Texas.
Wayne non poteva saperlo, ma analoghi pensieri agitavano in quello stesso momento le menti primitive dei membri del Coro dei Sioux, appollaiati sulle colline.
Da molti mesi in cassa integrazione, tiravano avanti con una trentina di frecce in tutto, tra normali ed incendiarie, tanto che a parecchie di esse avevano applicato un cordino per poterle recuperare dopo l’uso. I colori di guerra erano stinti da tempo sotto il peso delle intemperie ed il contratto con la Max Meyer non era stato rinnovato per mancanza di fondi. Molti di loro accusavano i reumatismi per tutto quell’affannarsi in giro a torso nudo e, per di più, l’amico Bisonte quando li incontrava fingeva di accendersi una sigaretta per non salutarli…
Erano le ore cinque di una mattina prematura, allorché John Wayne spense il sonnecchiante fuoco sotto gli stivali. Sellò silenziosamente il cavallo perché i Sioux avevano staccato mezz’ora prima e stavano riposando. Fissò lo sguardo dinanzi: un uomo, il suo cavallo, il suo cane, le sue pistole.
Di fronte, il deserto e poi di nuovo le vaste, calde praterie spazzate dal vento, i bivacchi sotto il cielo stellato, gli appostamenti ed il sibilo dei colpi.
Chiamò sottovoce la bastardina: “Andiamo Principessa”, e si avviò tirandosi appresso il cavallo.
Quindi mormorò in un sospiro: “Che palle!”.
E via, verso una nuova cocente alba.
Piermario De Dominicis, appassionato lettore, scoprendosi masochista in tenera età, fece di conseguenza la scelta di praticare uno sport che in Italia è considerato estremo, (altro che Messner!): fare il libraio.
Per oltre trent’anni, lasciato in pace, per compassione, perfino dalle forze dell’ordine, ha spacciato libri apertamente, senza timore di un arresto che pareva sempre imminente.
Ha contemporaneamente coltivato la comune passione per lo scrivere, da noi praticatissima e, curiosamente, mai associata a quella del leggere.
Collezionista incallito di passioni, si è dato a coltivare attivamente anche quella per la musica.
Membro fondatore dei Folkroad, dal 1990, con questa band porta avanti, ovunque si possa, il mestiere di chitarrista e cantante, nel corso di una lunga storia che ha riservato anche inaspettate soddisfazioni, come quella di collaborare con Martin Scorsese.
Sempre più avulso dalla realtà contemporanea, ha poi fondato, con altri sognatori incalliti, la rivista culturale Latina Città Aperta, convinto, con E.A. Poe che:
“Chi sogna di giorno vede cose che non vede chi sogna di notte”.