Il primo consistente tentativo di produrre letteratura artistica si ebbe in Italia con l’opera di un toscano di Colle Val d’elsa, Cennino Cennini, che dalla fine del Trecento in poi fu pittore a Padova.
Prima del suo “Libro d’arte” o Trattato della pittura, erano già stati scritti alcuni manuali medioevali di tecnica pittorica, ma erano pochi, essenziali e poco diffusi, cosicchè si può dire che quella di Cennini fu un’operazione perlomeno insolita, che non a caso ebbe una fortuna molto successiva all’epoca in cui egli visse.
Con lui, comunque, seppure più coscientemente, si rimaneva ancora nel campo dei ricettari medievali, più che in un contesto di nascente storiografia o di critica d’arte. In ogni caso il suo testo risulta prezioso in quanto vi erano elencate minutamente, una per una, tutte le complesse operazioni che si potevano apprendere nelle botteghe dei pittori del suo tempo, dal modo in cui venivano preparati i colori e le tavole, fino alla disamina delle varie tecniche di pittura: a tempera, a fresco ecc ecc.
Tradizionalmente, la nascita di una vera e propria letteratura artistica viene però collocata verso la metà del XV secolo e la si fa coincidere soprattutto con le opere di tre grandi: Leon Battista Alberti, Lorenzo Ghiberti e Leonardo da Vinci, personaggi che impressero un marchio decisivo nella cultura artistica di Firenze e che scrissero libri che, staccandosi dall’ambito dei manuali già citati, mostravano una più decisa coscienza storiografica ed una nuova sensibilità critica.
Col “De pictura”, Alberti già superava l’idea di una pittura che si identificasse solo mimeticamente con la natura, considerandola semmai come il frutto di una scomposizione geometrica della visione del reale, che veniva ricomposta poi nel linguaggio pittorico.
Analogamente alle categorie della retorica classica, l’autore, anche nel suo successivo “De re aedificatoria”, scritto nel 1452, poneva a fondamento della tecnica compositiva tre fasi: la circoscrizione, cioè l’individuazione delle superfici; la composizione, ovvero la disposizione dei corpi, e infine l’illuminazione, ovvero il definirsi delle forme e dei colori attraverso la luce.
Si può arrivare alla bellezza ideale, suggeriva, tenendosi in equilibrio tra idea e realtà, attraverso quelle fasi del linguaggio pittorico, che argomentando, si fa dunque più vicino a quello verbale.
Lorenzo Ghiberti, col suo discorso sull’arte, si mostrò ancora più consapevole del suo ruolo critico.
Nei tre libri dei “Commentarii” l’autore infatti espresse un proprio punto di vista, che già era decisamente storiografico, e che sfociava in un giudizio negativo sull’arte a lui contemporanea, regredita rispetto alla capacità che aveva avuto Giotto, di unire “l’arte naturale e la gentilezza”.
In Ghiberti coesistevano, in un approccio intellettualistico, sia l’esaltazione della scienza e delle tecniche umane, che l’idea cristiana di un’arte che fosse edificante.
I suoi scritti, al di la della nascente consapevolezza critica, sono comunque molto importanti per noi intanto perché fornivano anche interessanti informazioni sulle antichità di Firenze, Siena e Roma che descriveva senza farsi prendere da alcun campanilismo, e poi perché quelle pagine disegnavano una storia degli artisti che si porrà alla base di molti trattati successivi.
Scevro da troppe teorizzazioni filosofiche, il “De prospectiva pingendi”, di Piero della Francesca, un altro artista che non disdegnò lo scrivere d’arte, era diviso in tre parti e si focalizzava sugli aspetti geometrici e matematici del dipingere, suggerendo come disegnare e colorare le figure e come disporle nello spazio, e stando attento comunque a dare una base scientifica alla riproduzione di forme complesse e superfici.
Il tono, chiaro e pratico, della trattazione, ha fatto sì che Piero fosse ritenuto un precursore, il padre del disegno tecnico.
Questa sua opera fu certamente conosciuta e tenuta in considerazione da un altro genio della pittura che si interessò alla divulgazione artistica, Leonardo.
Verso la fine del secolo anche il genio di Vinci, infatti, produrrà una serie di scritti che verranno chiamati “Trattato della pittura” e che furono trascritti da Francesco Melzi che nel 1519 ereditò i manoscritti originali, andati poi smarriti.
Diviso in due sezioni, il Trattato nella prima affrontava i principi teorici della materia, nella seconda figuravano consigli e precetti, rivolti ai giovani pittori, sull’assimilazione visiva delle proporzioni di corpi e figure e sulla rappresentazione dei moti e degli elementi di natura.
La prima parte dell’opera, trattando in dettaglio la prospettiva, accostava, come pure faceva Alberti, il linguaggio pittorico alle altre forme di espressione umana.
L’approccio alla natura, secondo Leonardo, avrebbe dovuto essere empirico, basato sulla “filosofia del vedere”, l’osservazione cioè della natura, che avrebbe permesso di coglierne la rivelazione.
Ogni aspetto dell’esercizio pittorico veniva ricondotto alla comprensione dei fenomeni fisici, matematici e geometrici che determinano la nostra percezione visiva.
L’applicazione che richiede, della logica, delle discipline scientifiche come la matematica, l’ottica o l’anatomia, fanno sì che la pittura abbia un valore universale e preminente rispetto alle altre arti, quali la filosofia, la poesia o la teologia, perché rappresenta una forma di comunicazione che non ha bisogno di interpreti.
A differenza dunque delle altre arti, e in virtù della sua capacità di rappresentare più soggetti insieme, la pittura è in grado di costruire una visione totale della realtà.
Fra le scienze la pittura
“è la prima; questa non s’insegna a chi natura nol concede, come fan le matematiche, delle quali tanto ne piglia il discepolo, quanto il maestro gliene legge. Questa non si copia, come si fa le lettere … questa non s’impronta, come si fa la scultura …questa non fa infiniti figliuoli come fa i libri stampati; questa sola si resta nobile, questa sola onora il suo autore, e resta preziosa e unica, e non partorisce mai figliuoli uguali a sé”.
Nel corso del Cinquecento altri autori, influenzati dalla cultura del loro tempo, scrissero trattati sulla pittura, ampliandone il discorso teorico ed accostando anch’essi le fasi dell’arte pittorica alle ripartizioni della retorica.
Paolo Pino e Lodovico Dolce furono tra questi e, tra il 1516 e il 1530 venne scritto anche quel trattato fiorentino conosciuto col nome de “Il libro di Antonio Billi”, dal nome del suo autore o del suo possessore, questo non è ben chiaro, che già presenta una compilazione di biografie dei maggiori artisti della città, da Cimabue a Michelangelo.
E’ un testo che resta una delle più importanti testimonianze storiografiche anteriori a quella, fondamentale, di Giorgio Vasari.
Fu infatti il libro di quest’ultimo, le “Vite de’ più eccellenti pittori, scultori ed architettori” l’opera cinquecentesca più importante dedicata alla storia e alle tecniche della pittura, della scultura e dell’architettura, un testo classico che era destinato a diventare il punto di riferimento fondamentale per la letteratura artistica dei secoli successivi.
Come spesso accadeva alle figure rinascimentali di spicco, inclini ad un marcato eclettismo, Giorgio Vasari si produsse con successo in più d’una specializzazione.
Nato ad Arezzo nel 1511, fu pittore di gusto manierista, architetto e storico dell’arte italiana.
Visse una vita movimentata, tra la sua Arezzo, Firenze, Napoli e Roma, intrattenendo rapporti con le più importanti corti, tra cui , ovviamente, quella medicea, ed ottenendo committenze ovunque.
Fu un pittore prolifico, uno dei maggiori manieristi del suo tempo, anche se è mai stato considerato tra i più eccelsi, ma mostrò comunque capacità inventive notevoli e restò famoso anche per la sua rapidità di esecuzione, caratteristica per la quale ebbe a rimproverarlo addirittura Michelangelo.
Uomo di grande erudizione, si rivelò anche un pregevole architetto, realizzando opere importanti, alcune delle quali gli diedero una notevole e imperitura fama: il Palazzo della Carovana a Pisa, il Loggiato nella grande piazza di Lucca, e, soprattutto, il Palazzo degli Uffizi a Firenze, commissionatogli da Cosimo I de’ Medici per sistemarvi gli uffici giudiziari e amministrativi della città.
Nel suo peregrinare per le maggiori città d’Italia, Vasari raccolse molto materiale utile a redigere il testo che lo ha per sempre consegnato alla storia, le già citate “Vite”.
Alcuni studiosi, come Chabod, ad esempio, hanno ritenuto che lo stesso termine “Rinascimento” sia nato proprio con l’opera vasariana, per indicare il percorso di rinnovamento artistico che, iniziato da Giotto, giunse a maturazione nel Cinquecento, sotto l’egida della famiglia de’ Medici, ad opera soprattutto di giganti quali Michelangelo e Raffaello.
Il senso delle “Vite” è quello di una testimonianza della nuova coscienza, nata dal rifiuto del passato, e legata al formarsi un’identità moderna, una ricostruzione della storia che a partire da quella cesura, disegna la strada di una “renovatio”, un cammino lineare, il cui punto di arrivo Vasari vede nella perfezione dell’età a lui contemporanea, quella di Cosimo.
Fu tuttavia a Roma, città nella quale operò, protetto dalla famiglia dei Borghese, che la frequentazione con i più importanti circoli culturali e letterari, tra il 1545 e il 1547, gli ispirò la prima redazione delle sue “Vite”, una raccolta di biografie di artisti che andava da Cimabue fino a ai pittori, scultori ed architetti del suo tempo.
Quella prima stesura dell’opera vide la luce nel 1550, pubblicata dall’editore Torrentino.
Negli anni successivi Vasari fece numerosi viaggi, che toccarono molte regioni italiane: L’Umbria, le Marche, L’Emilia Romagna, la Lombardia e il Veneto, accumulando informazioni precise e documenti fondamentali per revisionare ed arricchire la sua opera.
Si arrivò quindi alla seconda edizione delle “Vite”, che venne pubblicata nel 1568 dai Giunti, i celebri stampatori fiorentini.
L’edizione giuntina vantava consistenti modifiche rispetto alla precedente ed oltre a comprendere un’autobiografia dell’autore, era integrata con nuove biografie di artisti, e con una più ricca descrizione delle opere.
In favore di questa maggiore attenzione storico scientifica, rinunciava a molti orpelli di tipo meramente letterario.
Fu revisionata anche la parte riguardante Michelangelo, che era morto nel frattempo, nel febbraio del 1564.
Il salto dall’edizione torrentiniana a quella dei Giunti è stato dunque molto rilevante, al punto che questa seconda edizione è stata letta come il passaggio dalla letteratura alla storia, da un grande disegno generale ad una trattazione più puntuale ed articolata.
Lionello Venturi definì questa differenza tra le due edizioni come un passare “dalla teologia all’arte”.
Una dedica al granduca Cosimo I de’ Medici introduceva la materia delle “Vite” , preceduta da un proemio generale nel quale veniva descritto il progetto del testo, ovvero mantenere la memoria di coloro che avevano contribuito alla qualità eccellente delle tre arti maggiori, l’architettura, la scultura e la pittura, messe a confronto tra loro per cercarvi elementi comuni.
A questo proemio generale seguivano tre brevi trattati dedicati alle singole arti, alla loro storia ed alle rispettive tecniche, minutamente riportate in tutti i loro elementi.
Un’altra parte introduttiva, un altro proemio, dunque, precedeva il primo gruppo di biografie, dedicato agli artisti che avevano riportato in alto il livello della loro arte dopo il periodo buio del medioevo, a partire dalla vita di Cimabue.
Il percorso descritto, attraverso queste biografie, era quello di una rinascita, della restituzione della nobiltà alla pittura, un moto partito da quella che Vasari individua come una matrice etrusca, quindi toscana, tesi che verrà ribadita da lui nella biografia di Andrea Pisano.
Questo iter, che mise riparo alla distruzione dell’arte classica, operata da quella barbarica, veniva sottolineato, secondo Vasari, dall’arrivo a Firenze di artisti greci presso i quali Cimabue avrebbe imparato a dipingere, chiudendo dunque, idealmente un cerchio, tornando a segnare la continuità dell’arte classica con quella nuova, che faticosamente cercava di recuperarne l’altezza.
L’apogeo di questa rinascita si avrà con Giotto, e l’opera vasariana nel mettere in rilievo la figura del maestro, e la sua abilità nel riprodurre la natura e le sue forme, la fece precedere dalle biografie di artisti minori e seguire da quelle dei suoi allievi ed epigoni.
Anche la seconda parte delle “Vite” iniziava con un proemio.
In questa introduzione si definiva ulteriormente la ricerca di una prospettiva storica: non si trattava di presentare una semplice rassegna di figure di artisti, ma di narrare, attraverso le loro biografie, quel percorso di progresso della pittura, della scultura e dell’architettura verso la perfezione, il passaggio, cioè, dall’infanzia delle arti al “fior della lor gioventù”.
La serie biografica di questa parte iniziava con la vita di Jacopo della Quercia e si concludeva con quella del Perugino, vivendo i momenti più alti nella trattazione di Ghiberti, Donatello, Masaccio e Botticelli.
Nel Proemio alla terza sezione dell’opera, si parlava dell’età contemporanea a Vasari, il periodo, cioè, che si apriva con Leonardo, iniziando un percorso di rinascita che venne condotto a perfezione seguendo i valori che Vasari considerava essenziali a quel fine: “regola, ordine, misura, disegno e maniera”.
Questi erano i principi che secondo l’autore erano il cardine del rinnovamento, mirando sia a dominare il naturale, che a conquistare le libertà della maniera, ovvero degli stili pittorici.
Questo progresso, già iniziato con gli artisti del secondo periodo, a giudizio di Vasari vede il suo culmine in Michelangelo, l’artista “divino” che “supera e vince non solamente tutti costoro, che hanno quasi che vinto già la natura, ma quelli stessi famosissimi antichi”.
Era Michelangelo il punto di arrivo del lungo itinerario vasariano, che dal passato si protendeva al suo presente, cercando una ritrovata perfezione dell’arte.
La terza parte delle “Vite” è quasi un’autocelebrazione della propria epoca, esaltata da figure come quelle di Leonardo, Raffaello, Giorgione e terminata appunto con la già citata biografia michelangiolesca, che iniziava ricordando quale benignità avesse dimostrato la divinità concedendo agli uomini un genio di quella levatura.
Tra l’altro, Michelangelo era l’unico artista ancora vivente tra quelli trattati da Vasari, a dimostrazione di un’immortalità da lui già conseguita in vita.
Una figura del genere consegnava alla contemporaneità sia la coscienza della perfezione ormai raggiunta, che il timore di un possibile corrompimento futuro, timore, che per aver già conosciuto e descritto altre epoche di decadimenti, era ben presente in Vasari, il primo storico dell’arte italiana.
Piermario De Dominicis, appassionato lettore, scoprendosi masochista in tenera età, fece di conseguenza la scelta di praticare uno sport che in Italia è considerato estremo, (altro che Messner!): fare il libraio.
Per oltre trent’anni, lasciato in pace, per compassione, perfino dalle forze dell’ordine, ha spacciato libri apertamente, senza timore di un arresto che pareva sempre imminente.
Ha contemporaneamente coltivato la comune passione per lo scrivere, da noi praticatissima e, curiosamente, mai associata a quella del leggere.
Collezionista incallito di passioni, si è dato a coltivare attivamente anche quella per la musica.
Membro fondatore dei Folkroad, dal 1990, con questa band porta avanti, ovunque si possa, il mestiere di chitarrista e cantante, nel corso di una lunga storia che ha riservato anche inaspettate soddisfazioni, come quella di collaborare con Martin Scorsese.
Sempre più avulso dalla realtà contemporanea, ha poi fondato, con altri sognatori incalliti, la rivista culturale Latina Città Aperta, convinto, con E.A. Poe che:
“Chi sogna di giorno vede cose che non vede chi sogna di notte”.