Luigi Bertelli detto Vamba e la letteratura della marachella

“Mercoledì 20 settembre
Ecco fatto. Ho voluto ricopiare qui in questo mio giornalino il foglietto del calendario d’oggi, che segna l’entrata delle truppe italiane in Roma e che è anche il giorno che son nato io, come ci ho scritto sotto, perché gli amici che vengono in casa si ricordino di farmi il regalo.
Ecco intanto la nota dei regali avuti finora:
l.° Una bella pistola da tirare al bersaglio che mi ha dato il babbo;
2.° Un vestito a quadrettini che mi ha dato mia sorella Ada, ma di questo non me ne importa nulla, perché non è un balocco;
3.° Una stupenda canna da pescare con la lenza e tutto l’occorrente e che si smonta e diventa un bastone che mi ha dato mia sorella Virginia, e questo è il regalo che mi ci voleva, perché io vado matto per la pesca;
4.° Un astuccio con tutto l’occorrente per scrivere, e con un magnifico lapis rosso e blu, regalatomi da mia sorella Luisa;
5.° Questo giornalino che mi ha regalato la mamma e che è il migliore di tutti”

Questo incipit, che ancora oggi suona fresco, fu scritto, pensate,  nel 1912, ed introdusse un’infinità di giovani lettori di svariatissime generazioni ad appassionarsi alle avventure ed allo spirito indomabile e dispettoso di un eroe letterario rimasto emblematico.
E’ un inizio apparentemente tranquillo, nulla lascia pensare ancora che il personaggio che con queste righe inizia a tenere un diario, si rivelerà, pagina dopo pagina, una vera e propria calamità, una perfetta ed instancabile macchina per la produzione di marachelle.
“Sei un gian burrasca!”: fino a non molti anni fa ancora era possibile sentirlo dire a ragazzini che ne avevano combinate di grosse.

“Il giornalino di Gian Burrasca”, l’immaginario e spassoso diario di un ragazzetto dei primi del Novecento, particolarmente portato per fabbricare disastri, è talmente intrigante, divertente e movimentato che forse piacerebbe, se gli fosse proposto da leggere, anche ai ragazzi di oggi, in grado magari di fargli mollare l’iPhone.
Celeberrima ed immutabile nelle varie edizioni era la copertina verde, col riccioluto protagonista vestito con l’uniforme da convittore del Collegio Pierpaoli, immagine che rendeva il libro memorabile anche graficamente.
Personalmente l’ho molto amato, letto e riletto, ridendo sempre come fosse la prima volta, lasciando poi che divenisse un patrimonio dolce della memoria, di quella parte di infanzia che precede l’adolescenza.
Qualche anno fa feci l’esperimento di rileggerne un episodio, uno dei più divertenti, per capire se quel testo, vincendo la polvere del tempo, potesse piacermi anche da adulto.
Risi molto, ancora una volta, di fronte all’immancabile catastrofe provocata dal protagonista ed alle sue giustificazioni, che, schivando ogni responsabilità personale, ne attribuivano puntualmente la causa alla crudeltà di un fato avverso.
Da ragazzo leggevo molto voracemente e questo mi bastava ampiamente, essendo la trama l’unico amo per la mia attenzione, ma rileggendolo da grande, mi chiesi per la prima volta chi fosse davvero l’autore di quel libro delizioso.

Luigi Bertelli “Vamba”

Chi si celava dietro lo pseudonimo che si era scelto, ovvero Vamba, nome dello schiavo buffone di Sir Cedric nell’”Ivanhoe” di Walter Scott?
Il suo vero nome era Luigi Bertelli ed era nato a Ponticelli, una frazione di Firenze, nel 1858.
La sua era una famiglia di commercianti, ma quando il ragazzo venne iscritto alle Scuole Pie dei Padri Scolopi, rivelò presto talenti ed umori molto lontani dall’humus familiare.
Precocemente irredentista, e già portato per la scrittura, fondò con il compagno di banco una rivista, “La lumaca”, impregnata di umorismo e di spirito antiaustriaco.
La pubblicazione, quasi sempre sequestrata dal docente di italiano, ebbe ovviamente vita breve.
Da giovane si impiegò nei ranghi amministrativi delle Ferrovie della Rete Adriatica e venne spedito nella loro sede pugliese di Foggia.
La vena di umorista e di disegnatore caricaturale lo spingeva comunque ad una attività parallela, a comporre versi scherzosi e disegni umoristici. Spediva quel materiale ad un singolare periodico letterario, il “Capitan Fracassa”.

Era quella una rivista nata da artisti e condotta in modo più che informale: non garantiva stipendio fisso, ma in quella sede gli articoli di Bertelli ed i suoi “pupazzetti”, silhouettes a penna che li corredavano, incontrarono subito un buon successo.  

Il fondatore del “Capitan Fracassa”, Gandolin, anche lui umorista e disegnatore, convinto dal risultato dei lavori di quel giovane, lo chiamò a Roma perché divenisse redattore fisso.

Luigi Arnaldo Vassallo “Gandolin”

Ugo Fleres lo ricordava appena arrivato nella capitale, con “un barbone nero e crespo, il cappello a sghimbescio, la pipetta in bocca e con un aspetto tra lo sbarazzino e il brigantesco”.
I suoi articoli, costruiti per lo più su versi satirici e pupazzetti disegnati, andavano immancabilmente a colpire i vari capi di governo, come Depretis prima e Crispi poi, anche se lo facevano piuttosto bonariamente, senza metterci troppa ferocia.
“Vamba, giornalista dei grandi e dei ragazzi”, non fu l’unico pseudonimo che usò: si firmò infatti anche Gran di Pepe, Il Cronacaio, Il Cronacaio Grillesco, L’Osservatore , Pellicola e in alcuni casi, Giannino Stoppani, nome usato poi per il protagonista del suo capolavoro.
Anche i giornali su cui scrisse cambiarono spesso. Lavorò al “Don Chisciotte”, al “Folchetto”,  al “Fanfulla” e dal 1890 a “’l’O di Giotto”, una rivista fiorentina.

Per satireggiare il carrierismo disinvolto dei politici, creò il personaggio dell‘On. Qualunque Qualunque, rappresentante al Parlamento del secondo collegio di Dovunque che fino agli ultimi tempi aveva combattuto fedelmente nel partito dei Purchessisti, propugnando il programma Qualsivoglia e appoggiando costantemente il Gabinetto Qualsiasi.

Come non rintracciare in un ritratto come questo, scritto alla fine dell’Ottocento, le caratteristiche salienti di tanti politici di oggi?
All’inizio del Novecento, Bertelli, trasferitosi definitivamente a Firenze, cambiò nome a “l’O di Giotto”, chiamandolo “Il Bruscolo”, e fu un settimanale che assecondando la sua coerente idea politica, ebbe un’ispirazione mazziniana.
Nel 1895, con lo pseudonimo di Vamba, pubblicò il suo primo romanzo per ragazzi, “Ciondolino”, la storia di un ragazzino che avendo invidiato alle formiche l’apparente bighellonare, viene trasformato in una di esse, provando in prima persona la dura fatica del loro vivere.
Quando, nel 1905, “Il Bruscolo” cessò le pubblicazioni, Bertelli si orientò definitivamente verso la letteratura per ragazzi.
Sempre pronto a risollevarsi, e contando sull’appoggio dell’editore Bemporad, nel 1906 fondò il “Giornalino della domenica”.

In questa rivista per ragazzi comparvero le firme di grandi scrittori dell’epoca: Giovanni Pascoli, Gabriele D’Annunzio, Grazia Deledda, Edmondo De Amicis e, non ultimo, Emilio Salgari, seguitissimo nei suoi romanzi a puntate e nei suoi racconti di avventura.

Proprio sul “Giornalino della domenica, in oltre cinquanta puntate, tra il 1907 e il 1908, venne pubblicato “Il giornalino di Gian Burrasca”, edito poi in un unico volume da Bemporad stesso.
Le imprese di Giannino Stoppani, alias Gian Burrasca, diedero all’autore un enorme successo.
Il libro è stato il terzo assoluto della storia per vendite, subito dopo “Pinocchio” e “Cuore”, ed è stato tradotto in tutto il mondo.

L’opera ha avuto in Italia due fortunate trasposizioni, una, cinematografica, di Sergio Tofano, nel 1942, un’altra, che fu un grande successo televisivo, nel 1964, con la cantante Rita Pavone nei panni del protagonista.

Il “Giornalino della domenica” chiuse nel 1911, anno in cui scomparve tragicamente uno dei suoi migliori collaboratori, Emilio Salgari.

Emilio Salgari

Negli anni seguenti Vamba pubblicò diversi altri lavori: “La storia di un naso”, un divertente racconto in ottave; diede poi alle stampe una raccolta di poesie in due volumi, dal titolo “Il Cinematografo poetico”; la “Cronaca della settimana”, una serie di bozzetti per bambini; le “Scene comiche”, scrisse dieci racconti per l’infanzia, ed una lunga novella in versi “Casa mia, casa mia”, nella cui trama si rintracciava una palese allegoria del Risorgimento Italiano, del quale Vamba fu un grande conoscitore.
Fedele all’idea mazziniana di un’Italia unita, e da sempre acceso odiatore dell’Austria, prese personalmente parte alla Grande Guerra e lo fece immediatamente, fin dal suo inizio, il 24 maggio del 1915.
Per ben quarantadue mesi combattè in prima linea.
Terminato il conflitto, nel 1918, Bertelli riesumò, stampandolo con un editore diverso, il suo “Giornalino della domenica”, che sopravvisse poi fino al 1924.

Vamba e relativa “vambina”
Foto autografa di Vamba con la figlia

Il 27 novembre del 1920, Vamba morì nella sua Firenze ed il suo “Giornalino, nell’edizione del 5 dicembre uscì listato a lutto per la scomparsa del fondatore.
Nel 1916, il blogger Marco Pugacioff, autore di un ottimo articolo su Vamba, ha pubblicato una lettera dello scrittore ad un suo amico letterato, Gherardo Nerucci, in cui Bertelli, raccontando un fatto di cronaca al quale aveva assistito, mostrava in pieno la sua meravigliosa vena umorstica.

Carissimo amico, 
ti avvertii già che fra pochi giorni sarei venuto a trovarti in Firenze per le feste di Beatrice e mantengo la promessa. Domenica mattina sarò da te. Ma tu devi farmi assolutamente un piacere. Non ti impaurire, per carità… Io non ti scrivo per chiederti venti lire fino a quest’altro anno, benché in fondo, per amici allegri e fidati come me non debba sembrare troppo gravoso un piccolo sacrifìcio come questo. No. Io ti domando una cosa che a te non costa nulla e che a me, invece, è di un vantaggio incalcolabile. Un giorno – sarà ormai una decina d’anni – trovandomi per caso sul ponte alla Carraia, vidi una folla straordinaria slanciarsi verso il parapetto… Che cosa era accaduto? Una cosa semplicissima. Una povera donna, ridotta alla disperazione da dispiaceri d’amore troppo grossi, s’era buttata in Arno a capofitto gridando: «Questa vita non fa più per me!». Infatti, da quanto potei raccapezzare, s’era notato questo: che dopo aver avuto il dispiacere d’amore, l’infelice non trovava più una vita che le andasse bene! Intanto, dal parapetto, tutti urlavano a più non posso: «Bisogna salvarla!». Ma, viceversa poi, nessuno si buttava giù. Accanto a me un inglese dalla fisionomia molto energica assisteva alla scena, impassibile. A un certo punto parve commuoversi. I suoi occhi mandarono un lampo. All’improvviso egli, con un sangue freddo straordinario, si slanciò risolutamente… sul suo vicino, lo prese di peso e lo scaraventò in Arno esclamando con nobile accento: «Salvatela voi!».

Piermario De Dominicis, appassionato lettore, scoprendosi masochista in tenera età, fece di conseguenza la scelta di praticare uno sport che in Italia è considerato estremo, (altro che Messner!): fare il libraio.
Per oltre trent’anni, lasciato in pace, per compassione, perfino dalle forze dell’ordine, ha spacciato libri apertamente, senza timore di un arresto che pareva sempre imminente.
Ha contemporaneamente coltivato la comune passione per lo scrivere, da noi praticatissima e, curiosamente, mai associata a quella del leggere.
Collezionista incallito di passioni, si è dato a coltivare attivamente anche quella per la musica.
Membro fondatore dei Folkroad, dal 1990, con questa band porta avanti, ovunque si possa, il mestiere di chitarrista e cantante, nel corso di una lunga storia che ha riservato anche inaspettate soddisfazioni, come quella di collaborare con Martin Scorsese.
Sempre più avulso dalla realtà contemporanea, ha poi fondato, con altri sognatori incalliti, la rivista culturale Latina Città Aperta, convinto, con E.A. Poe che:
“Chi sogna di giorno vede cose che non vede chi sogna di notte”.

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