L’attore Johnny Marco (Stephen Dorff) risiede a tempo indeterminato in una stanza del Chateau Marmont di Los Angeles; gira a vuoto per le strade a bordo di una Ferrari nera; assiste a delle pietose lap dance a domicilio; si presenta alle conferenze stampa in jeans e maglietta rispondendo a delle domande semplicistiche, e conclude le sue serate con qualche donna di passaggio.
Le sue giornate prendono una piega differente quando ospita sua figlia Cleo (Elle Fanning nel suo primo ruolo importante) mentre la sua ex moglie si assenta momentaneamente per stare da sola. Prima di accompagnarla ad un campo estivo, Johnny invita Cleo a seguirlo in Italia per ritirare un riconoscimento.
Grazie alla presenza di sua figlia, Johnny capirà di essere rimasto bloccato per anni in una strada senza uscita.
Nonostante abbia vinto il Leone d’oro al Festival del Cinema di Venezia, Somewhere non ha convinto la maggior parte della stampa e degli spettatori a causa di una narrazione che si affida solamente alla dilatazione temporale delle riprese e al sonoro in presa diretta, piuttosto che alla struttura in tre atti.
Come intro per il suo lungometraggio, Sofia Coppola ha deciso di filmare quattro giri a vuoto della Ferrari nera su una strada deserta, per poi concludere al quinto giro con Johnny Marco che esce dal veicolo e osserva un punto fuori campo. Quella scena dura circa due minuti e otto secondi; ed è solo l’inizio di una lunga sperimentazione visiva: la scena della maschera nello studio degli effetti speciali (con l’attore che respira durante l’asciugatura) dura un minuto e quarantanove secondi; la scena della lap dance con My hero dei Foo Fighters in sottofondo è di due minuti e ventinove secondi, e quella con Cleo che pattina sul ghiaccio con Cool di Gwen Stefani dura più di tre minuti.
Ma si tratta veramente di un film noioso? Ovviamente ci vorrebbe un’analisi approfondita per cogliere le reali intenzioni della regista; esattamente come è accaduto con il cinema di Michelangelo Antonioni, un tempo accolto con freddezza e successivamente acclamato dai cinefili.
Tornando al film della Coppola: per chi ha già ammirato Lost in translation (che è indubbiamente il suo capolavoro) non ci si deve aspettare una copia. Nonostante l’ambientazione alberghiera, le due trame sono differenti: Lost in translation è la storia di due sconosciuti che uccidono la noia e la solitudine vagando per le strade di Tokyo; mentre Somewhere rimane una storia su un amore paterno che salva il protagonista dal vuoto esistenziale.
A dispetto delle accuse di nepotismo, ricevute a causa di un cognome fin troppo importante, Sofia Coppola andrebbe ammirata per la sua coerenza stilistica, e per i suoi gusti in fatto di cinema, fotografia, pittura, moda, design e musica, che l’hanno portata a creare delle immagini così piacevoli da guardare e ascoltare. Pensate allo stile pop di Marie Antoinette e agli interni con la luce naturale alla “Barry Lyndon” de L’inganno!
Tornando al confronto tra Somewhere e Lost in translation, ci si domanda il motivo per cui la figlia di Francis Ford Coppola ambienti la maggior parte dei suoi film negli alberghi. Durante una conferenza stampa al Festival di Venezia, ella ha dichiarato che – oltre ad averli frequentati fin dall’infanzia per il lavoro del padre – gli alberghi sono dei luoghi di trasformazione, all’interno dei quali i suoi personaggi possono subire alcune svolte nel corso della loro permanenza.