“Sta a vedere Lallo, e stai in campana: ora arriva il camion.”
Abdhulafiah allungò il binocolo cecoslovacco a Tarallo.
“Ma sei sicuro che sia questo il punto che hanno stabilito per lo scarico?” obiettò quest’ultimo.
“Sì certo, ho un amico che lavora da un grosso rigattiere, uno del giro.
Vanno a prendere roba anche da loro e pagano subito, sollevandoli comunque dal rischio di non venderla. Asif è un tipo sveglio e tiene le orecchie aperte.
Si fa credere scemo, ride sempre, canta in arabo le cose di Fedez, porta un cappello con l’elica sopra ed ha addirittura imparato a sorridere come un ministro, dopo una tragedia, davanti ai plastici di Vespa.
È furbissimo però, e ha messo su un servizio di informazioni coi fiocchi.
A me le dritte le dà gratis, o meglio, in cambio di notizie segrete dall’interno dei consigli di amministrazione di dieci delle maggiori imprese quotate in Borsa: lui mi ha dato per certo che qui stanotte ci sarà uno scarico”.
Dopo un’oretta di appostamento all’interno della sua utilitaria Tarallo iniziava a sentirsi un po’ scomodo.
Le gambe gli formicolavano e non aveva ancora superato l’imbarazzo di dover ospitare Abdhulafiah in un abitacolo caotico per l’accumularsi di strati e strati di scorie prodotte da almeno tre anni di disordine creativo.
Lallo abbassò per un momento il binocolo e guardò fuori dal finestrino il mondo circostante.
Erano le tre di notte e i due amici avevano piazzato l’auto in una di quelle strade che in qualsiasi città sarebbero state considerate centrali ma che a Latina invece, in virtù dei flussi imperanti del passeggio, risultavano trascurabili, poco percorse pur essendo traverse dirette del corso principale.
Erano vie sorellastre, periferie nel centro.
Due alberelli stenti prendevano di sbieco una luce rossastra e malaticcia da un paio di lampioni vicini e le loro fronde mezze spoglie si abbarbicavano a rami che si protendevano verso l’alto contorti come braccia artritiche in preghiera.
Grondavano nebbia e guazza.
Lallo e Abdhulafiah, infilati in quella scatoletta di plastica e ruggini, soli nella notte littoria, erano immersi in una densa calma palustre, in un assordante silenzio liquido.
Tarallo, pur non essendo affatto un amante della confusione e detestando anzi il frastuono dei luoghi troppo affollati, non amava affatto i silenzi assoluti.
Aveva al contrario un problema serio con i silenzi.
Una totale assenza di rumore, di ogni forma di suono, produce il silenzio perfetto.
È quello che nello scorrere di lunghi secondi di tempo ci fa intuire il movimento sordo del mondo, ci fa ascoltare il tumultuoso fluttuare del nostro sangue lungo tutto il corpo e che a volte evoca gemiti immaginari di entità invisibili.
Lallo, in presenza di un silenzio perfetto, mostrava sempre una reazione peculiare, una sorta di riflesso allergico: tendeva a confessare, sì, a confessare.
Chiunque dividesse con lui quei momenti stranianti, diveniva suo malgrado il depositario delle confessioni di Tarallo, di ogni tipo di confessione: da quelle di suoi amori assurdi per donne insospettabili a quelle di azioni inconsulte o di peccati mai commessi.
Dinanzi a silenzi troppo prolungati, la pulsione a confessare qualcosa era più forte di lui.
Una volta, molti, molti anni prima, si trovava in casa di un amico insieme con altre persone.
L’esperimento che avevano deciso di fare era quello dell’ascolto collettivo del famoso disco col silenzio di John Cage (4,33).
Erano circa una decina di smidollati, tutti seduti per terra in cerchio nella stanza di Foffo.
Venne fatto partire il disco e in pochi istanti ci si rese conto della portata di quella sfida.
Si rivelò subito tremendo lo sforzo, da parte di tutti, di mantenere un silenzio pari a quello, assoluto, del disco.
Inevitabilmente qualcuno di loro presto sentì quel classico e fastidioso raschio in gola che, strozzandoti, ti chiede pressante un liberatorio colpo di tosse o un sorso d’acqua.
Altri vennero presi naturalmente da pruriti in tutto il corpo, ma era impensabile immaginare di grattarsi: il furioso sfregamento sarebbe rimbombato come il lavoro di una segheria.
L’unico che in apparenza non pativa era Lallo.
Stava seduto con un’espressione tanto concentrata da apparire corrucciata, e riusciva a stare perfettamente immobile.
Gli altri gli lanciavano occhiate ammirate, ma scoccati i primi due minuti di ascolto, Tarallo sbottò e con la voce piazzata su registri di inconsueta gravità disse:
“Ok ragazzi, sì, lo dovete sapere, non posso portare oltre questo peso: sono stato io a scrivere il testo di “Nessuno te lo ha detto mai” di Gigi d’Alessio”.
Un ruggito di delusione, fatto di diverse voci irritate, si levò dal gruppo: “ Nooo, disgraziatooo! Ma noo: ci stavamo riuscendo, mannaggia a te!! Ancora due minuti ed era fatta! E mo’ quando ci riesce più: sento un prurito da scarnificarmi che credo mi durerà fino all’anno prossimo!”.
Guido, un addestratore di chihuahua che detestava appassionatamente D’Alessio, gli strillò:
“Carogna, t’ammazzo!”,
e fece per saltargli al collo, ma venne trattenuto dagli altri.
“Quanto a te – riprese serissimo Tarallo rivolgendosi inespressivo a Indah, una hostess delle linee aeree indonesiane che aveva appena conosciuto – ti ho sempre amata”….
Le tre e mezzo: erano ancora parcheggiati in attesa di qualcosa di cui iniziavano a dubitare.
Il silenzio continuava ad essere così denso che Lallo stava già schiarendosi la voce per confessare che da bambino aveva covato pensieri indecorosi nei riguardi di Fiorella Cacace, la sua maestra d’asilo, quando, lontano e vagamente catarroso, si annunciò a salvarlo il rumore di un mezzo pesante, forse quello di un camion.
“Accucciati, – gli sibilò Abdhulafiah – forse ci siamo”.
Allungarono le gambe sui sedili scivolando in basso, abbastanza per non essere notati, e dopo qualche secondo un grosso furgone gli sfilò accanto, parcheggiando duecento metri più avanti.
I due amici tirarono su le teste e misero mano al binocolo comunista dell’immigrato, gioiello della tecnologia cecoslovacca.
Due tizi robusti, col cappuccio calato sugli occhi, scesero dall’automezzo e aprirono gli sportelli posteriori.
Il primo ad essere scaricato fu un divano pseudo Chippendale dall’aria mortificata e malinconica, polveroso e lacerato in più punti.
I due lo scaricarono ad un metro dal cassonetto dell’umido.
Poi vennero tirate fuori due poltroncine di stile barocco, con un ricordo di doratura e svariati tagli nelle imbottiture, decisamente poco omogenee stilisticamente col divano triste appena sistemato in strada.
La notte rendeva chiaro alle orecchie di Tarallo e Abdhulafiah ogni minimo sussurro, anche i grugniti di sforzo dei due.
Sentirono quello più basso chiedere all’altro: “Basterà questo aa sezione fotografi che passerà all’arba?
C’è un sacco de robba ancora, robba bona pe’ faccene ducento de articoli!”.
“Sì, ma ce so puro altri du’ punti convenzionati che ce hanno detto de sistemà, stanno in altri quartieri: mica possiamo usare tutto qui!
Facciamo ‘na cosa: buttamo giù la sedia a rotelle de tu nonno Otello e la schiaffamo tra le poltroncine.
È una vita che t’haa stai a portà appresso sur furgone, nun se sa perché! Impiccia ed è pure mezza arugginita!”
“Nooo!
– una nota di dolore incrinò la voce del più basso, rendendola stridula – La sedia de nonno Otello nun se tocca! Mamma mia m’ha detto de dalla a un istituto che ne potrebbe avè bisogno, ma nun ciò avuto ancora er tempo de trovallo”.
“Come vuoi, te venisse un accidente, Sergio! Vabbè, allora tira giù er contrabbasso scassato”
Sergio armeggiò all’interno del furgone e si affacciò subito dopo, abbarbicato all’ingombrante strumento, e la sua presa poco salda lo fece scivolare in una specie di danza grottesca col contrabbasso che infine gli sfuggì, precipitando a terra e sfasciandosi con un fracasso spaventoso.
“Imbecille, – ghignò l’uomo più alto – ce avranno sentito fino a Roma! Via, via, levamo er disturbo e proseguimo il gi… ma che cazzo faiii??”
“È la bandiera, no? – frignò Sergio piccato, con la sua vocetta fessa – Se no chissà chi se ne prende er merito!”
Aveva piazzato orgogliosamente accanto al divano triste un’asta con la piccola bandiera della SNTS Facce di Chiappa, quella col tipo con la camicia, la cravatta e il culo in faccia, che subito si era messa a sventolare con grazia al venticello notturno.
“Imbecille, levala de mezzo subito! Che vuoi che firmiamo le incursioni de discredito cor nome e cognome, eh?
Ha detto il Segretario Segreto Provinciale Frangiflutti che quella robba servirà solo nel giorno d’aa riscossa.
Fino a quel momento tutto il materiale pe er giubilo va tenuto nascosto.
Dai, rimettila a posto e butta un po’ de contorno, come al solito, che completamo in fretta la scena e smammamo”.
Sergio aprì il cassonetto dell’umido e incurante del puzzo tremendo che ne uscì immediatamente e del ronzare di mille insetti resi ubriachi dalle fermentazioni di frutta marcia e ortaggi, prese un paio di buste malmesse e ne rovesciò con arte sgarbata il contenuto accanto agli oggetti che avevano gettato in strada.
Tarallo, anzi Abdhulafiah, aveva ripreso tutto col nuovo telefono ipertecnologico di Lallo che il suo neoproprietario non aveva ancora minimamente imparato a usare.
I due sparamonnezza si attardarono qualche secondo a curare ancora qualche dettaglio della messinscena.
“Daje Sergio, sbrigate: finimo er giro che me ne vado alla palestra “El Coguaro” pe er corso de salsa”.
“Maddai: te sei iscritto a un corso de salsa? Pe ‘rimorchià ‘e donne, eh?”
“ Num me so iscritto, io so l’insegnante: lì me faccio chiamà Ciro Duarte”.
“Ma tu ssenti, Ciro Duarte!!” ridacchiò Sergio scuotendo la testa.
“Smettila! Dai, annamosene”.
Dieci secondi dopo, il furgone riavviava il motore catarroso e dapprima balzellando, poi più fluidamente filando, si allontanò.
La prima luce del giorno cominciava ad ammiccare, i lampioni si spegnevano mentre qualche serranda cominciava pigramente ad alzarsi.
“Hai il tuo reportage Lallo. – disse Abdhulafiah sorridendo – Sporcano lo strade per mettere in difficoltà sindaco, giunta e l’azienda per la raccolta dei rifiuti divenuta imprudentemente pubblica: ora puoi farli secchi!”
“Non so a chi proporlo questo reportage Abdhul, qui sono quasi tutti dentro il piano.
Al massimo ce ne è uno di giornale degno di questo nome, ma non ha abbastanza spazio per una lunga inchiesta.
Ecco perché sto mettendo tutto da parte, aspettando il momento giusto per fare il botto, sperando che prima o poi arrivi”.
“Facciamo colazione? Dai Tarallo, andiamo al bar: prima scrocco il giornale con l’apertura di Tokio, poi mi piazzo nel parcheggio e un’altra giornata di lavoro decollerà.
Ah, a proposito tieni, rieccoti il tuo telefono nuovo: è fantastico.
Impara a usarlo e piantala di frignare per Nokio buonanima!!”.
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