“Siamo fascisti nella stessa misura in cui Adolf Hitler fu un grande pittore”:
è una delle loro dichiarazioni più famose.
Il 26 settembre 1980 sui muri di Trbovlje, una grigia città industriale della Slovenia, fecero la loro comparsa due manifesti.
Nel primo era raffigurata una croce nera, del tipo di quella di Malevič, mentre nel secondo un uomo sorridente cavava gli occhi ad una donna. Il tutto non era altro che l’invito per una mostra e per un concerto che avrebbero dovuto svolgersi l’indomani.
La manifestazione fu vietata in fretta e furia dalle autorità perché si stabilì che erano stati usati dei simboli inappropriati: da quell’atto erano nati i Laibach, un collettivo che a partire dagli anni successivi ha unito musica, grafica, teatro e cinema, diventando uno dei pochi fenomeni culturali che la Slovenia sia riuscita a fare affermare fuori dai propri confini.
I Laibach non persero molto tempo, e nel corso di tutti gli anni Ottanta fecero perdere le staffe alle strutture del regime jugoslavo titino.
Il gruppo ideò una piattaforma culturale di avanguardia che trovò un’importante sponda nella Lega della gioventù socialista della Slovenia.
Si presentarono per la prima volta ufficialmente al pubblico nel 1981 in un centro culturale studentesco di Belgrado, poi nel 1982 fecero dei concerti a Zagabria e Lubiana.
In quell’anno elaborarono un vero e proprio manifesto programmatico in cui teorizzavano il collettivismo artistico, si concentravano sull’analisi del rapporto tra ideologia e cultura e puntavano sulla provocazione come uno dei mezzi più utili all’espressione artistica.
In poco tempo erano riusciti a farsi considerare dei veri e propri nemici di stato e il gruppo venne visto come una sorta di prova dei nervi per il regime.
Ovviamente l’iconografia che adottavano e il loro comportamento non potevano che irritare il potere: le polemiche raggiunsero il loro apice quando, nel giugno del 1983, il gruppo fu invitato a partecipare ad una popolarissima trasmissione di TV Lubiana.
Gli artisti si presentarono in una specie di uniforme militare, con al braccio una fascia bianca decorata con la solita croce nera.
Subito dopo quell’apparizione, anche in virtù di un concerto tenuto in città nello stesso anno e che destò malumori negli esponenti politici, l’Assemblea comunale di Lubiana vietò i loro spettacoli e per tornare ad esibirsi ufficialmente come band nella capitale dovettero attendere per ben quattro anni, fino al 1987.
Fu allora fondata la Neue Sloweniche Kunst (NSK), un collettivo artistico che oltre ai Laibach, univa pittori, grafici e un gruppo teatrale. I fondamenti culturali del movimento poggiavano su un solido post-modernismo.
La rappresentazione più significativa che organizzarono fu lo spettacolo teatrale Il battesimo sotto il Tricorno, messo in scena all’inizio del 1986 a Lubiana, e che fu la più imponente esibizione teatrale che sino a quel momento si era svolta in Slovenia. Vi presero parte settanta attori.
La trama di quel lavoro narrava della conversione al cristianesimo degli sloveni, avvenuta nel 9° secolo per mano dei crociati tedeschi.
Nella messa in scena, quella che dal punto di vista militare fu una disfatta, alla fine diveniva una vittoria slovena perché lo sconfitto re Črtomir, convertendosi, adeguandosi e divenendo un cristiano migliore del suo conquistatore, riuscì a sfuggirgli e a sopravvivere. L’esibizione aveva quindi un alto valore simbolico e provocatorio.
Qualche anno prima i Laibach avevano tenuto, come già si è ricordato, il concerto alla Biennale di Zagabria. Racconta Dejan Knez, uno dei fondatori della band: “Suonare alla Biennale di Zagabria nel 1983 è stato un importante episodio nella nostra storia. Il 23 Aprile di quell’anno tenemmo un concerto durato tutta la notte, assieme ad altri ospiti.
La Biennale era un importante festival internazionale di musica contemporanea e d’avanguardia, e riuscimmo a far parte del programma. L’idea iniziale era suonare durante la notte, da mezzanotte fino alle 5 del mattino, ma la polizia ci bloccò molto prima.
Un ufficiale dell’esercito comunista venne per ispezionare l’evento e non approvò il collage di immagini che accompagnavano la nostra musica. Proiettavamo dei filmati di propaganda comunista iugoslava, ai quali venivano sovrapposti dei filmati porno a colori.
L’organizzatore del festival ci rimproverò pubblicamente, annunciando che la musica rock sarebbe stata bandita dalla prossima edizione chissà forse lo fece più per evitare le conseguenti reazioni con le autorità.
I comunisti croati chiesero di bandire i Laibach, cosa che poi avvenne e siamo stati banditi fino al 1987.
A proposito l’organizzatore della Biennale era l’attuale presidente croato Ivo Josipovic”.
I Laibach avevano certamente poco in comune con i gruppi punk che andavano per la maggiore in Slovenia allora, soprattutto perché rispetto ad essi nutrivano ambizioni artistiche globali e più elevate.
Nelle loro canzoni, molte cover famose, tra cui quelle dei Beatles, parafrasavano la retorica del regime titino e fondevano musica, costumi, coreografia e video in un mix assolutamente esplosivo.
Giocarono con tutti i totalitarismi, sottolineando l’influenza germanica subita dagli sloveni.
La provocazione era inaudita per il pubblico jugoslavo anche se l’innovazione dal punto di vista artistico era senza dubbio notevole.
Musicalmente, in quegli anni Ottanta i Laibach incarnarono lo sviluppo più radicale e visionario della cosiddetta corrente industriale.
In loro l’elemento elettronico, quello rock e quello rumoristico trovarono di fatto nuove sintesi con l’impeto romantico della tradizione sinfonica europea e la loro proposta si distinse immediatamente per la poderosa natura marziale.
Riuscirono a traslare, con fare provocatorio e iconoclasta, i simboli dell’oppressione totalitaria novecentesca usando sarcasticamente i loro stessi codici estetici, con l’intento di dissacrarli e al contempo condurre l’ascoltatore a una più profonda consapevolezza del passato, del senso degli eventi accaduti.
Nel pianificare la loro rivolta artistica i Laibach non hanno mai smarrito il codice tipico delle avanguardie del secolo scorso dove suprematismo (si ricordi la copertina del primo album, dove a ridosso della Croce di Malevič compare dilaniato e impotente l’Uomo-Cristo), costruttivismo, dadaismo e futurismo si fondono in un messaggio che oggi appare più esplicito ma che non per questo era allora meno affascinante, disturbante e ironico.
I Laibach sono stati e sono, senza ombra di dubbio, il più grande gruppo slavo di sempre.
Con una carriera più che trentennale, sono stati tra i primi nomi europei a suonare a Pyong Yang, in Corea del Nord, tenendo un concerto basato sulle musiche del film “Tutti insieme appassionatamente” rilette secondo la loro peculiare estetica multimediale.
L’opera dei Laibach, in sostanza, rappresenta qualcosa che va oltre la musica e che va a toccare la storia drammatica dei Balcani, la loro terra, parte di quello che fu la Jugoslavia.
Per raccontare questa tragedia, i Laibach hanno concepito i loro concerti come show audiovisivi in cui la band stessa si trasforma in una bizzarra falange paramilitare, parodiando e dissacrando l’atteggiamento guerresco che rispondeva ad un’epoca di follia omicida e mettendo alla berlina i patriottismi e i militarismi che ne avevano scavato le radici.
Al di là della pura provocazione, quella dei Laibach è una narrazione critica, costruita sull’ironia e sulla dissonanza, è un racconto dove il rumore rappresenta il vero afflato della libertà.
Come Thomas Mann ebbe modo di ripetere più volte, e dopo di lui anche Pasolini, “la politica è ovunque e ogni azione pubblica o artistica è anch’essa atto politico”.
Dicono i Laibach: “Siamo coscienti del potere della politica sin dalle nostre origini, dunque analizziamo il linguaggio della politica in relazione con la cultura. L’arte può agire, dovrebbe agire, in questa direzione meglio di qualsiasi altro sistema di codificazione. Certo è necessario che sappia sfidare, che sia coraggiosa e, se necessario, che miri a proiettarsi ad-absurdum come negli insegnamenti dei dadaisti e dei futuristi”.
Riguardo alla molteplicità delle lingue usate nei loro lavoro dice il loro leader Milan Fras: “Non c’è una lingua che preferiamo in particolar modo: ci piace usare diverse lingue, a seconda dei temi dell’album che andiamo ad incidere. Componiamo materiale in tutte le lingue possibili”.
La visione politica del mondo dei Laibach è alquanto complessa: loro credono che le vere cause della povertà, delle tensioni politiche e di quelle culturali non siano da ricercarsi semplicemente nella corruzione di poche centinaia di politici, nel fallimento di poche decine di banche o nell’azione di un manipolo di fanatici religiosi che stanno combattendo la loro guerra santa, ma principalmente nelle dinamiche che premiano alla fine tutti questi sconcertanti e assurdi comportamenti.
La crisi odierna non può essere risolta attraverso regolamenti o con guerre dirette nei territori in difficoltà: servirebbe una completa trasformazione dell’attuale sistema in uno del tutto diverso, sperando che un simile cambiamento possa verificarsi il prima possibile.
Il mondo e soprattutto l’Europa debbono trovare una nuova identità che generi significato e senso di speranza verso il futuro.
Questa rivoluzione dev’essere spirituale e prendere il via necessariamente dalle strade di Parigi, Berlino, Atene, Amburgo, Istanbul, Barcellona, Lubiana, Madrid o Milano.
L’avanguardia di questa rivoluzione saranno i giovani europei e chiunque abbia davvero a cuore il futuro.
Oggi più che mai la risposta alla crisi dell’umanità dovrebbe essere internazionalista e universalista, rispetto alla visione reazionaria dei particolarismi nazionalistici, e dovrebbe essere così estesa da permeare tutti gli aspetti della società.
Sono trent’anni ormai che i Laibach, il collettivo sloveno che fu bandito nell’ex Jugoslavia di Tito, ci redarguisce come si fa con i cuccioli che non la fanno nei posti giusti: ci fanno strofinare il muso nel grande massacro della seconda guerra mondiale e delle guerre civili, ci mettono sotto al naso un periodo in cui tutta l’Europa è stata prima un campo di battaglia e poi un territorio strangolato da trattati e confini, sulla pelle del quale si giocava la partita delle superpotenze straniere.
Nel corso di tutta la loro carriera i Laibach hanno insistito nel lanciare un monito preciso: non basta e non funziona annegare i traumi dello sterminio e dello scontro militare e ideologico nel benessere delle infinite merci prese e consumate.
C’è sempre qualcosa che a un certo punto
riporta indietro l’orologio della storia.
Tra i loro lavori più celebri vanno ricordati “Let it be”, in cui i Beatles vengono coverizzati e banalizzati da una estetica totalitaria; “Opus Dei”, una critica feroce alle chiese e alla loro invadenza non solo politica; “Macbeth”, la musica di scena per il più cupo dramma di Shakespeare.
Accanto a queste opere, il gigantesco “Kapital”, dove si incontrano le lingue, i messaggi e linguaggi musicali più disparati e dove si percepisce l’atmosfera dell’orrore in cui stava per precipitare la ex-Jugoslavia e “NATO”, un lavoro nel quale viene ridicolizzata l’utilità dell’organizzazione che ha ridisegnato i blocchi europei appena caduti.
Tra le altre opere importanti dei Laibach vanno menzionate infine “Spectres” e “Volk”, nelle quali vengono portate alla luce le contraddizioni della nostra Europa, e infine l’ultimo lavoro: “Also sprach Zarathustra”, che identifica nello svuotamento di tutti i valori previsto da Nietzsche, la causa dell’abbrutimento materiale e morale dei popoli odierni i quali, incapaci di darsi un futuro, trasformano la rabbia in xenofobia e violenza.
Ottima analisi dei Laibach (Ljubljana-Lubiana in tedesco). Complimenti allo stesore del articolo che mi farebbe piacere conoscere. Ho vissuto a LJ nei anni 72-79 e quindi non ho potuto essere al corrente della loro nascita. Ne fui fuggevolmente informato da comuni amici intellettuali, ma senza approfondire il loro intento protestatario. Li avevo proposti tempo fa come compositori e musicisti, mentre la parte politico-culturale sarebbe stata meno interressante per il pubblico italiano, non a conoscenza della peculiare realta’ exjugoslava ed in particolare il ruolo della Slovenia nel periodo postbellico. La SLO era sempre vista dagli altri staterelli come uno Stato nello Stato (quello Federativo Socialista-mai si era definito comunista). Desidero ricordare la linea politico-economica dell’Autogestione promulgata nei primi anni 70 come evoluzione democratica verso un socialismo realizzato. Fu in parte sabotata dai nuovi nazionalismi jugoslavi e falli’ miseramente. (Ritengo che come idea economica rimanga sempre valida teoricamente). “L’URSS e i suoi stati satellite accusarono a più riprese la Jugoslavia di Trotzkismo e Fascismo, accuse debolmente basate sull’ideologia jugoslava dell’autogestione (samoupravljanje) e le teorie del lavoro associato (condivisione dei profitti e industrie in possesso dei lavoratori, politiche messe in atto da Tito, Milovan Đilas e Edvard Kardelj dal 1950). In ciò i sovietici vedevano i semi del corporativismo.”Wiki. …ancora una volta pollice SU per Tarallo e Tonino Panino!
Grazie Walt, siamo contenti che ti sia piaciuto l’articolo e ti vediamo piuttosto ferrato sull’argomento. Ti ringraziamo anche per i pollici su per i nostri Tarallo e Tonino senza però dimenticare che dietro a molti articoli c’è un lavoro di gruppo che comprende l’editing, la correzione delle bozze, le ricerche iconografiche, l’impaginazione e la manutenzione del blog. Quindi direi: pollice su per Latina Città Aperta! Ciao 🙂