“Zumba è una lezione di fitness musicale di gruppo che utilizza i ritmi e i movimenti della musica afro-caraibica, combinati con i movimenti tradizionali dell’aerobica. Fu creata dal ballerino e coreografo Alberto “Beto” Perez alla fine degli anni novanta in Colombia. Ha come obiettivo principale creare un alto consumo calorico grazie alla sua intensità variabile. Inoltre le musiche e le coreografie hanno lo scopo principale di divertire il praticante in modo da fargli dimenticare lo sforzo fisico. Le coreografie sono create appositamente per fornire al partecipante un lavoro di alta intensità cardio-vascolare e un’alta dose di tonificazione su gambe e glutei principalmente.” (fonte: Wikipedia)
Lallo Tarallo se ne stava spalmato sul divano della sala come una nduja su una fetta di pagnotta calabrese.
Proprio come il celebre insaccato, apparentemente morbido, ma sempre vigile e pronto a scatenare il morso elettrico delle sue componenti piccanti, il giornalista d’assalto, a guardarlo, dava una falsa impressione di quiete.
Un impulso doloroso dovette evidentemente colpirlo perché ebbe uno scatto improvviso: borbottando qualcosa di inintelligibile saltò su come una molla e si mise a sedere.
I suoi movimenti provocarono la reazione sonora del divano, decrepito, stinto, bronchitico ma molto amato: lo stridere delle sue molle rugginose suonò lamentoso e interminabile come il rantolo di un cowboy morente in un film western degli anni Sessanta.
Lallo si passò una mano sulla faccia, quasi a ripulirla da una visione orrenda e distolse disgustato lo sguardo dallo schermo del computer.
Già dalle prime parole, la descrizione che Wikipedia faceva della zumba lo aveva maldisposto: ma cos’era quella robaccia?
Sembrava che una mente sadica si fosse dedicata, con passione e discernimento, a scegliere e ad assemblare in un’unica attività alcune delle cose che più detestava nella vita.
Per chi non se ne fosse ancora reso conto finora, Tarallo, uomo di poche ma radicate passioni, era una specie di recordman mondiale delle idiosincrasie, una macchina che viaggiava a intolleranze.
Volendo fare un esperimento, mettendo in fila tutto ciò che gli era insopportabile e facendocelo camminare sopra, sarebbe arrivato senza sforzo sulla luna, impiegando appena qualche minuto per trovare anche lì una sfilza di cose da aborrire.
Fitness? Ma per quale accidente di motivo doveva chiamarsi così lo star bene? Suonava così asettico quel termine.
Sembrava una posa linguistica, il tentativo di occultare il sudore necessario a sentirsi meglio dietro la neutralità di una parola che non avesse nulla di casereccio.
E vogliamo parlare poi della musica afro caraibica? Lui odiava la musica afro caraibica, ripetitiva, tendenzialmente identica, mille titoli per la stessa robetta.
Superficiale, tutta ritmo e niente melodia: a Tarallo era sempre parsa una delle più crudeli invenzioni per rendere le estati un incubo.
Quando pensava a quella musica, vedeva branchi di anziani mutanti e sirene in fase di smottamento fare i plantigradi in gruppo, danzando, si fa per dire, coi piedi a mollo sulla riva di sovraffollati stabilimenti balneari romagnoli, con un sorriso vuoto a deformargli la faccia.
E tutti insieme ballavano agli ordini di qualche capoimbecille tatuato, con la bocca semiaperta ad ingoiare moscerini e un costume da bagno con grosse palme rosse stampate sopra.
Ma poi, davvero, accidenti: come si faceva a dar credito alla invenzione di uno che si chiamava Alberto Perez, Beto per gli amici?
A Tarallo, che aveva dei pregiudizi intellettuali estesi come la catena del Karacorum, un nome del genere faceva pensare ad un narcisista fradicio che aveva dedicato la vita alle più inutili corbellerie schivando con cura metodica la pratica, per lui allergenica, della lettura.
Probabilmente, arrivato ad una certa età, indenne dalle fatiche del pensiero, si era messo davanti ad uno specchio per provare quei saltelli, amandosi senza più freni ad ogni piroetta.
E vogliamo dirlo? Magari essendo colombiano lo faceva nei pochi intervalli di tempo che il suo lavoro di killer al soldo dei cartelli della droga gli lasciava.
Più Tarallo immaginava, e più credeva alle sue proiezioni mentali, diventando categorico: Beto, nella sua vuotezza, era così frigido che subito dopo aver portato a termine un leggero sterminio si precipitava a dare soddisfazione ai glutei, il vero feticcio della zumba.
I glutei!
Sconvolto dai prodotti della sua fantasia, Lallo si alzò di scatto dal suo divano, che lasciò partire una specie di latrato, e si accostò alla finestra.
Possibile che la prospettiva di accompagnare Consuelo ad una serata di zumba lo riducesse così, come uno straccio?
Non vedeva quella meraviglia del creato da qualche giorno e tra loro quella faccenda era rimasta in sospeso: alla richiesta della ragazza Tarallo, folgorato dallo sbigottimento, aveva replicato con una specie di sorriso, un ghigno ebete a voler essere sinceri, e aveva emesso un raschietto schiumoso di gola che non si era evoluto in frase, in una risposta.
Consuelo, non si sa bene perché, aveva decifrato quell’atteggiamento penoso come qualcosa di affermativo, l’aveva preso addirittura per un sì emozionato ed impaziente.
Mancava una settimana al giorno fatidico e Lallo non si era ancora risolto a far qualcosa che lo liberasse da quell’angoscia.
Gli si erano anzi piegate le ginocchia quando il giorno prima aveva ritirato la posta dalla sua cassetta, trovandoci l’invito ufficiale per la serata, accompagnato da un biglietto allegro di Consuelo che gli ricordava l’impegno.
Il cartoncino d’invito, nella sua mesta simulazione di allegria, era multicolore e le parole, stampate con lettere a forma di ciocchi di bambù, erano stese su un paesaggio pseudocaraibico, con spiaggia, mare e palmizi a sazietà:
Tarallo sospirò, dove l’aveva già sentito quel nome? Ciro Duarte… gli suonava familiare*.
Si scosse, doveva decidersi a fare qualcosa, in un senso o nell’altro.
Non poteva inventarsi un attacco di scorbuto all’ultimo momento.
Teneva troppo a Consuelo e mirava a dirglielo appassionatamente prima o poi, in un momento adatto del millennio in corso.
Doveva distrarsi, così uscì di casa, riservandosi di consultare ancora il Professor Cervellenstein, il suo psicologo.
Fece pochi passi e transitando davanti all’edicola, uno “strillo” esposto gli squarciò il cervello: accidentaccio, se n’era dimenticato!!
Ricorrevano i trent’anni di vita
del fogliaccio quotidiano cittadino!
Avevano organizzato una cerimonia in redazione e Ognissanti Frangiflutti aveva scritto uno dei suoi editoriali asettici, sforzandosi di dargli un piglio commosso.
Aveva nobilitato una lunga storia di piaggeria al servizio di chi pagava, traducendola in una bella vicenda di impegno civile e professionale al servizio dell’informazione e della verità.
La verita!!??
Tarallo ghignò: aveva una idea precisa di cosa il fogliaccio intendesse per verità.
Gli vennero in mente mille e mille episodi in cui era stata strapazzata come una nota da Jovanotti, e pensò che se invece di festeggiare i trent’anni di attività, Frangiflutti ne avesse celebrati tremila, queste avrebbero potuto essere alcune delle notizie che avrebbe avuto il coraggio di pubblicare.
Tebe, Egitto, 1323 A.C.: È spirato all’età di 102 anni Tutankhamen, il Faraone più longevo della Storia. Modesto nella morte come lo era stato in vita, ha espressamente lasciato scritta l’intenzione di essere sepolto poveramente nella nuda terra. Ha voluto accanto solo l’inseparabile falcetto col quale tagliava il sedano per i suoi famosi minestroni.
Troia, 1250 A.C.: Ettore le suona ad Achille nell’attesissimo duello di spareggio tra Greci e Troiani. La tifoseria dell’intera Asia Minore, impazzita di gioia, schernisce i supporters avversari portando in giro un cavallone pieno di greci umiliati.
Termopili, 480 A.C.: Dopo un estenuante assedio Serse, Re di Persia, terminate anche le mentine della sua marca preferita, si arrende a Leonida e ai suoi spartani. Firmato un trattato sulla base del quale il Re cede al suo avversario alcuni immobili nei pressi di Yadz e una fabbrica di archi da battaglia a Persepoli.
Roma, Idi di Marzo, 44 A.C.: Un eccesso di autorità paterna, tradottosi in una punizione esagerata, sarebbe alla base del gesto di Giulio Cesare, che trovando la sua dimora mezzo distrutta da una scatenata festa di addio al celibato organizzata dal suo figlio adottivo Bruto e da alcuni suoi amici, si sarebbe scagliato contro il ragazzo pugnalandolo a morte. Testimoni oculari avrebbero riferito che in un ultimo spasimo di vita Bruto avrebbe sospirato: “Ma cazzo, papà!!”. Naturalmente cari lettori, questa è una traduzione: la frase originale era in latino, sospiro compreso.
Washington, 14 Aprile 1865: Fine ingloriosa di una Presidenza: Abramo Lincoln uccide a colpi di pistola un attore fallito, tale Booth, durante una rappresentazione al Teatro Ford della Capitale. Una storia di donne finita male sarebbe la causa dell’attacco di follia omicida del Presidente. Nazione sgomenta.
Hollywood 1961: Clamoroso, incredibile caso di cronaca nera: 101 cuccioli di cane di razza dalmata rapiscono e tengono in ostaggio una donna per qualche giorno. Liberata dalla polizia su soffiata di un fabbricante di pellicce la vittima, tale Crudelia De Mon, appena si è sentita in salvo ha chiesto di potersi recare dal suo parrucchiere.
* Ciro Duarte in una precedente avventura di Lallo Tarallo