Una costante, incontrastata raffica di vento, prendendo d’infilata il principale corso cittadino, turbinando mulinava nuvolette di foglie giallo scuro, esauste e raggrinzite.
La sua forza era tale che i pedoni che a quell’ora del mattino percorrevano la strada, dovevano esercitare altrettanta o maggiore forza per riuscire a camminare.
Era una specie di bora casereccia quella, che svelleva le idee in testa a chi non ne avesse di fortemente radicate o a chi aveva appena iniziato a formularne.
Tarallo cercava di camminare svelto, strizzando gli occhi in continuazione per arginare l’assalto delle polveri volanti, e imprecando tra i denti perché aveva con tutta evidenza sbagliato abbigliamento.
Si era tenuto infatti per lo più sul leggerino, confermando la sua fiducia alla maglietta estiva blu, ma operando una cauta apertura di credito alla stagione incombente, apertura testimoniata dalla presenza di un giacchettino di lana, sottile come le virtù di un ministro, e contemporaneamente smentita dal suo soprabito, troppo impalpabile per ripararlo davvero.
Lallo incrociava fitti grumi di ragazzini che avevano l’aria perduta e trasognata di chi è stato strappato di forza al sonno.
Molti lo urtavano, nemmeno per maleducazione, ma proprio perché non lo vedevano.
Le ragazzine, che generalmente formavano coppie di amiche, avevano, al contrario dei coetanei maschi, l’aria sveglia e determinata di chi è consapevole della direzione presa sia dai propri piedi che dalla propria testa.
Quella mattina Tarallo si era alzato presto, come al solito.
Lui aveva dei risvegli rapidi: era già perfettamente cosciente appena apriva gli occhi e forse proprio a quel suo essere costantemente vigile, doveva il suo svegliarsi agitato, che lo vedeva saltare giù dal letto come un acrobata.
Era come se la coscienza non gli perdonasse i suoi brevi adulteri col sonno, pretendendolo subito, scrollandolo per destarlo e riaverlo.
Anche i pensieri, traditi per poco tempo da Lallo coi sogni, lo assediavano tutti insieme, impazienti di riappropriarsene, di farsi notare, petulanti e confusionari.
A prevalere tra tutti quella mattina erano stati soprattutto due tra essi: l’idea ostinata di farsi assegnare un’inchiesta da Frangiflutti ed il pensiero caldo, pressante e confortante che lo portava a Consuelo, che non vedeva da giorni, rabbuiando le sue giornate.
Per quanto atteneva al primo di quei pensieri, Tarallo credeva di poter imporre finalmente al direttore, aderente alla setta segreta dei faccia di chiappa, qualcosa di serio, di incisivo e di corposo, ora che erano state rese pubbliche le risultanze di alcune delle inchieste che avevano falcidiato sindaci e amministratori delle vecchie giunte, rendendo più chiare le loro malversazioni.
Per quanto riguardava invece il suo sentimento, nascosto malissimo, per la bellezza ultraterrena che irradiava di luce il mondo, Lallo, sapendo che incombeva una delle corpose conferenze sull’arte medioevale a cui la ragazza partecipava, bramava di scortarcela, magari combinato in modo più consono rispetto alla prima circostanza in cui l’aveva fatto, conciato però come un ballerino di zumba.
La timidezza che lo stringeva alla gola quando si trattava di lei faceva sì che diventasse caotico, irrazionale, tortuoso.
Invece di telefonarle e proporle qualcosa direttamente, Tarallo si metteva a pensare ad assurdi, fantasmagorici pretesti per chiamarla.
Era sempre andata così, la sua gabbia di timidezza lo spingeva ad escogitare trovate folli.
Soprattutto in una circostanza la sua pazzia si era rivelata eloquentemente, fuori dai limiti del concepibile.
Consuelo era una fotografa in gamba e Lallo in alcune circostanze se ne era avvalso per reali necessità che si erano manifestate.
Alcuni mesi addietro, per avere il modo di passare un’intera giornata al cospetto della sua bellezza, così intensa e commovente da rendergli difficile perfino la corretta pronuncia del sostantivo “sagittabondo”, le aveva proposto di realizzare il servizio fotografico per un matrimonio.
Un bel lavoro, le aveva spiegato, ottimamente retribuito.
Una coppia di amici che si sposava.
Non era vero un accidente,
naturalmente, e lui era semplicemente rimasto vittima della sua voglia di vederla, inventando una situazione surreale che minacciava di avere serie conseguenze.
Ma ormai era fatta, non si poteva tornare indietro.
Riuscì a sapere da un prete, al quale Abdhulafiah dava soffiate sui titoli bancari, che due giorni dopo, per colmo di fortuna, si sarebbe davvero celebrato un matrimonio in una chiesa periferica della città.
Col cuore in gola portò avanti inesorabilmente il suo bluff.
Si travestì da assistente della ragazza e i due si presentarono insieme alla cerimonia, con assoluta naturalezza.
Quando Consuelo entrò in chiesa si accesero di colpo le centinaia di candele delle offerte, causando un vivo stupore tra i presenti e la malcelata stizza del celebrante.
La mamma della sposa, che per stazza e abbigliamento ricordava Platinette, andò immediatamente in delirio: vide in quel fenomeno miracoloso un imprimatur divino alle scelte sentimentali della figlia e cadde in ginocchio, lacrimosa e grata, facendo fare al suo banco un cigolio sinistro, una specie di miagolio da film di fantasmi.
Mentre Consuelo si metteva a fare il suo lavoro, Tarallo tremava per le possibili conseguenze di un loro smascheramento, anche perché ovviamente un fotografo ufficiale dell’evento c’era già.
Quell’essere, corpulento e sudaticcio, aveva in un primo momento sgranato gli occhi vedendo la ragazza con una macchina fotografica professionale e aveva assunto la stessa espressione che Giuseppe Verdi, al primo accenno di canto, avrebbe assunto dirigendo un’orchestra sinfonica di accompagnamento a Jovanotti nelle fue lagne ftonate.
Col tempo il fotografo si era evidentemente convinto che Consuelo, che non aveva mancato di trafiggerlo a colpi di bellezza, fosse un’amica della sposa che voleva fare un suo personale reportage da regalarle, parallelo a quello ufficiale.
Miracolosamente, tutti gli invitati dovettero pensare la stessa cosa e nessuno sospettò la loro impostura. Tarallo e Consuelo presero parte quindi a tutto il programma della giornata, lavorando lei, struggendosi lui mentre la osservava.
Il ricevimento di nozze si svolse da “Nico il gabbiano marino” un ristorante in collina dal nome incongruo, che era contiguo ad una officina di meccanico dalla quale, con assoluta probabilità, arrivava al locale l’olio usato per la sua cucina omicida.
Lallo, che nella circostanza vide cose memorabili, tali da poter affollare due o tre manuali di antropologia culturale, si era ormai rilassato: tutto procedeva bene e Consuelo, più magnifica della magnificenza stessa, proseguiva nel suo incarico e faceva scatti su scatti, stando bene attenta a non toccare nessuna delle pietanze.
Cibi che nel frattempo stavano lavorandosi da dentro gli ingordi invitati che li ingollavano senza ritegno, come un devoto della lasagna dopo un lunghissimo pellegrinaggio in Cina, e che cominciavano vistosamente a sfaldarsi.
Vini rugginosi scorrevano a fiumi e se per accidenti da qualcuna di quelle bottiglie un po’ del contenuto si versava sulla tavola, l’apocrifo Morellino iniziava a friggere sul legno, dando inizio ad una sua rapida corrosione. Improvvisamente però la cerimonia ebbe una svolta drammatica: durante uno dei seicento brindisi che a turno erano annunciati da parenti e amici, evocato con voce rotta dall’emozione da Zio Gianrosario, parente dello sposo, saltò fuori a sorpresa Carmeniello Ammore, un micidiale cantante neomelodico di terza fascia.
Tarallo, mentre tutti esultavano come se fosse arrivato Pavarotti, alle prime note, si disfece come un soufflé malfatto, e sentì la mano gelida di Dario Argento curare la regia di tutto il resto della serata.
In qualche modo l’avventura fortunosamente e fortunatamente terminò, e Lallo, dopo averla accompagnata fin sotto casa, saldò l’onorario di Consuelo, dicendole di essere stato pagato da Don Aniello, padre della sposa.
Un casto bacio sulle guance da parte della ragazza lo riaggiustò, raddrizzandolo all’istante e mandandolo a casa in trance.
Intanto il vento era aumentato e Lallo che, come si è detto, si era combinato in modo inadeguato a sopportare decentemente un clima fattosi rude, era arrivato in redazione con le gote gelate e le orecchie sul punto di dimettersi. Aveva appena varcato la soglia della sede del giornale che si trovò a schivare d’istinto una scarpa.
La calzatura, un modello sottile e costoso, andò a schiantarsi contro la porta che Tarallo aveva appena richiuso.
Diede uno sguardo all’ambiente ed ebbe un moto di sbigottimento: tutti i redattori stavano accucciati dietro le rispettive scrivanie, al riparo da un fitto lancio di oggetti che proveniva dall’ufficio del direttore.
Qualcuno di quei giornalisti aveva in testa un elmetto di foggia militare, Dell’Ortaggio, il caporedattore, che se ne stava anche lui acquattato dietro il suo scranno, ne aveva addirittura uno di quelli mimetici, con le frasche attaccate.
In terra c’era di tutto: fermacarte, anche pesanti, scatole di matite che si erano sparse ovunque, cornici in argento con le foto con dedica di almeno tre sindaci passati, le raccolte dei volumi con le opere complete di Cicciafico, antico proprietario del giornale, e addirittura il grosso tomo che raccoglieva l’annata 2016 del “Coraggio del rifiuto”, la rivista pubblicata dall’attuale proprietà.
Inquietante, quella pioggia di oggetti continuava senza che si udisse un grido, un’imprecazione o altre manifestazioni di rabbia ad accompagnarla. Piovevano cose, semplicemente.
Tarallo strisciò come una recluta che fa il percorso di guerra col famoso “passo del leopardo”, fino alla scrivania di Dell’Ortaggio che con quell’elmetto sembrava il cugino di John Wayne.
Il caporedattore che si era perfino messo del grasso nero in faccia, gli disse affannato: “Salvati Tarà, oggi non è cosa. Scappa senza chiedere o dire nulla e aspetta che l’uragano passi”
“Lallo, mentre una bic lo colpiva leggermente in testa, chiese:
“Ma che cazzo è successo Dell’O’? Cosa ha provocato ‘sto putiferio?”
Con gli occhi dilatati dal peso di ricordi insopportabili, Il vice di Frangiflutti, schiarendosi la voce gli rispose: “E’ uscita la classifica di Italia Oggi per il 2018 sulla qualità della vita nei capoluoghi: la Littoria di un tempo resta al palo, ma la Latina attuale guadagna dieci posizioni!”.
A Tarallo sfuggì un fischio di puro stupore: “ Cavolo! Ci credo che sta in queste condizioni!”.
Fu cosciente del fatto che tutto, la sua inchiesta, gli altri articoli, perfino gli annunci erotici, erano al momento pericolanti, fuori da ogni possibile contrattazione con un Frangiflutti fuori di senno, ferito da quella classifica benigna.
Allora, gattonando cautamente, come un poppante, guadagnò l’uscita.
Fuori, l’aggressione del vento e di una prima pioggerella lo fecero volare