Non ti amo più.
Ho sentito pronunciare dentro di me queste parole, ed è stato come uno strappo.
Qualcosa di dentro ha reciso l’ultimo legame che tratteneva insieme i nostri corpi e poi, lentamente, le nostre anime sono scivolate via, lontane, libere da noi, quel “noi” che era stato così importante, che ci era sembrato tutto, che aveva sostituito l’universo intero e ci aveva dato un senso.
Come siamo cambiati.
Prima persino le giornate in cui non ci vedevamo erano scandite dalla mancanza di quel “noi”: mi mancavi e per me la misura del tempo era tutto quanto mi divideva da te.
Il trascorrere delle ore rappresentava solo l’accorciarsi della distanza che mi separava dal momento in cui ti avrei incontrato di nuovo.
La separazione era la pausa che si prendeva quel “noi”, scandita dal desiderio di tornare ad essere di nuovo insieme.
Ora quella separazione si è fatta tempo infinito che non misura niente. È divenuta il “per sempre” che ci divide, è la ferita inferta da questa amputazione, che cicatrizzerà lasciando il segno.
Quanti di noi hanno sentito questo strappo?
Quante cicatrici abbiamo sul nostro corpo, invisibili eppure presenti?
Di tante amputazioni che un essere umano subisce nella sua vita, quella da chi hai amato è forse la più tremenda.
Perdiamo i nostri cari, ci viviamo i nostri lutti metabolizzandoli, mentre la vita continua, e lo facciamo a stento, cicatrizziamo e continuiamo ad andare avanti.
Non meno terribile è l’amputazione di chi non ama più, non solo di chi subisce questo strappo ma anche di chi lo produce, e quel che resta è molto simile ad un lutto.
La giornalista e scrittrice Oriana Fallaci ha espresso molto bene questa condizione umana in poche righe:
“La morte di un amore è come la morte d’una persona amata. Lascia lo stesso strazio, lo stesso vuoto, lo stesso rifiuto di rassegnarti a quel vuoto. Perfino se l’hai attesa, causata, voluta per autodifesa o buonsenso o bisogno di libertà, quando arriva, ti senti invalido. Mutilato”.
Inoltre dietro questa sofferenza spesso se ne nasconde un’altra, che può diventare persino maggiore nel tempo: è l’idea di non potere amare più, come se questa terribile amputazione si fosse portata via la parte di noi dove risiede la capacità di amare.
Quante volte abbiamo pensato con terrore che non avremmo più amato, o ancora che l’amore non sarebbe più esistito per noi?
Ogni volta che ci siamo trovati a contemplare le macerie dei nostri fallimenti, mentre cercavamo di trarre ancora qualcosa in salvo, abbiamo finito col rassegnarci all’idea che non saremmo più guariti dalla ferita e che la ferita stessa si sarebbe trasformata nell’incapacità di tornare ad amare.
Abbiamo pronunciato le parole “Non ti amo più” e siamo rimasti feriti dal suono stesso di quelle parole.
Non ci eravamo detti che l’amore vero dura per sempre?
Cosa ci è successo?
Siamo stati ingannati.
Non potremo più amare così, ora che sappiamo che l’amore perde.
“L’inferno è la sofferenza di non poter più amare”, ha scritto Fëdor Dostoevskij.
Non posso che dargli ragione, il “non poter più” è il vero dramma, ciò che ci rende inesorabilmente condannati al vuoto. Ma è un inferno al quale ci condanniamo gli uni con gli altri, ce lo infliggiamo in fondo per incapacità di concepire l’idea stessa delle trasformazioni dell’Amore o per incompatibilità con l’Amore stesso, per aspettative mal riposte, per egoismi più o meno disattenti verso l’altro, per le abitudini che ci rendono inclini a non riconoscere più chi siamo, tanto ci siamo cristallizzati dentro la nostra routine, come ingranaggi che ancora vanno avanti per forza d’inerzia.
Penso al buco nero dove prima brillava una stella. Di tanta meraviglia e splendore non resta che una mancanza assoluta, l’inesplicabile nulla che risucchia. È inevitabile: il vuoto che lascia un sentimento può essere persino più grande del sentimento stesso. Per questo fa paura.
L’unico antidoto, che poi è la nostra maggiore risorsa umana, sarebbe cercare di trarre insegnamento dalla nostra esperienza, fare in modo che il nostro vissuto non sia trascorso invano e riuscire a tornare migliori, persino dopo un fallimento. Ne avremmo facoltà volendo, è nelle nostre possibilità umane. Possiamo quindi imparare anche da un addio, come ci dice Jorge Louis Borges:
“Con ogni addio impari. E impari che l’amore non è appoggiarsi a qualcuno e la compagnia non è sicurezza. E inizi a imparare che i baci non sono contratti e i doni non sono promesse”.
Dovremmo davvero imparare a non dare tutto per scontato. I doni sono doni, i baci non suggellano contratti. Non esistono amori a tempo indeterminato, tanto meno esistono contratti in amore.
Preferisco non pensare ad un amore per sempre, ma concedere all’amore la possibilità che quel per sempre sia la sua trasformazione nel tempo, scandita da tanti nuovi inizi. Allora non sarà mai uguale a sé stesso, cambierà con noi se saremo capaci di cambiare insieme.
Potremo tornare ad amare, quindi, scoprendo che non si ama mai due volte alla stessa maniera, che non si può replicare sé stessi e che, una volta raggiunta questa maggiore consapevolezza, potremmo addirittura amare di più.
In breve scopriremo che il noi più consapevole è la parte migliore che dobbiamo trarre in salvo dal naufragio del nostro vissuto, senza farci strappare via tutto dalla mareggiata.
E a questo punto saremo pronti per dire: “Non ti amo più, amore mio“, ma solo per ricominciare ancora ad amarci.