Buñuel e la parabola dell’angelo sterminatore

                                    

Fin dal titolo il film “L’angelo sterminatore” evoca scenari misteriosi, biblici se non apocalittici, ed è un dato di fatto che faccia venir fuori progressivamente il lato oscuro degli eleganti e ricchi ospiti.
La trama è solo un pretesto per scavare nei meandri della psicologia umana, in particolare quella dell’alta borghesia la cui morale, per Buñuel, è semmai una antimorale. 

All’inizio del film possiamo vedere un gruppo di ospiti eleganti che di ritorno da uno spettacolo operistico, si reca a cena a casa di uno di loro, proprio mentre tutta la servitù, tranne il maggiordomo, decide di andare via prima del tempo, spaventata da qualcosa di imprecisato.
I signori iniziano a cenare mentre vari animali girano intorno a loro.

Terminata la cena, il gruppo si riunisce in un vasto salone da ricevimento per ascoltare una ospite che suona il piano.
Il salone è delimitato sul fondo da tre porte dipinte con grandi immagini sacre: quella della Vergine col Bambino; quella di un santo e quella dell’Angelo dell’Apocalisse che annuncia il giorno del giudizio.
Nel corso del film, queste tre porte serviranno a nascondere tutto ciò che i commensali rifiutano di vedere: una cela preziosi vasi cinesi che avranno il compito di raccogliere gli escrementi degli invitati; un’altra ripara gli innamorati che vogliono amarsi liberamente, mentre la terza cela il cadavere di un uomo morto durante la permanenza nel salone da pranzo.

E’ a questo punto che si verifica il colpo di scena: finita la cena e l’esibizione pianistica, essendosi fatto tardi, gli invitati decidono ad andarsene ma si rendono conto che non riescono ad attraversare la porta, nonostante sia aperta

Il nervosismo e la tensione aumentano, tanto che i padroni di casa sono costretti ad improvvisare per gli ospiti un pernottamento ed una prima colazione. In breve la situazione degenera: dopo qualche giorno finiscono le provviste di cibo e acqua, costringendo i reclusi a sacrificare un animale, bruciare parte dell’arredo per riscaldarsi e sfondare un muro a picconate per avere dell’acqua. 

Per giorni la paura provocherà nei presenti degli incubi, comportamenti scomposti, pianti ed isterie, reazioni rappresentate con immagini crude, grottesche e surreali, mentre gli ospiti iniziano a tirare fuori il proprio lato più selvaggio e aggressivo. 

Col trascorrere del tempo, pur intestardendosi nel voler conservare il decoro del rango, pian piano i prigionieri si liberano invece dei loro freni inibitori, rivelandosi per quello che sono: pervertiti, ipocriti, lussuriosi e violenti.
Una coppia arriva al punto di suicidarsi silenziosamente.

Tutto il film si incentra sulla situazione di blocco degli ospiti, e non sulla figura dell’angelo, che di fatto non compare mai. 

Luis Buñuel

La situazione di stallo è inspiegabile nei fatti poiché solo una misteriosa forza sembra impedire ai presenti, e a qualsiasi altro personaggio esterno, di fuggire via o di intervenire, quale che sia la circostanza che li spingerebbe a farlo, sia semplicemente la ricerca di un cucchiaino per il caffè o la necessità di procurarsi dell’acqua.

Curiosamente non mancano indiretti riferimenti apocalittici. Ad un certo punto, infatti, il padrone di casa ipotizza pubblicamente che il resto del mondo si sia estinto, e che siano rimasti vivi solo i presenti. 

L’atmosfera è talmente surreale che mentre un gregge di pecore continua ad attraversare la sala, nessuno dei reclusi sembra trovarci niente di anormale.

Quando l’esplosione di violenza raggiunge il massimo, il “sacrificio” della giovane Letizia, che si offre al padrone di casa, determina la fine di tutto, a patto che tutti tornino alla posizione che avevano occupato all’inizio dell’incubo.

L’unico escamotage dell’opera è insomma l’affidarsi al flusso degli eventi, una soluzione ideata da Letizia e che sembra rivelare la natura vuota e conformista degli ospiti.
L’idea di evocare gli eventi passati e seguire la massa funziona, per cui l’unico modo di uscire dalla stanza sarà quello di farlo tutti assieme, una volta tornati tutti al punto di partenza.
E’ come se si fosse verificata una sospensione temporale. 

Usciti dal palazzo si riuniscono tutti in chiesa a cantare un Te Deum, ma quando fanno per uscire, non ci riescono.
Il film si chiude su una sorta di nuovo inizio: un altro gregge di pecore entra in chiesa mentre la polizia, all’esterno, disperde una folla di manifestanti.

Nella trama, come si è detto, non mancano riferimenti biblici, a partire dalla presenza degli animali quali l’orso e le pecore.
In particolare gli ovini sono utilizzati per simboleggiare il senso di colpa e di espiazione, il presentimento di avere qualcosa da scontare.
I sopravvissuti, del resto, alla fine andranno in chiesa per essere riusciti a salvarsi, salvo rimanere bloccati anche lì.
Il finale, con la rivolta in piazza accompagnata dall’ingresso delle pecore in chiesa, rimane la singolare conclusione del film, tanto enigmatica quanto suggestiva. 

Buñuel

Buñuel realizzò “L’Angelo Sterminatore” a sessantadue anni, lo fece in Messico nel 1962. Era il secondo film prodotto da Gustavo Alatriste dopo il successo internazionale della loro prima collaborazione, “Viridiana” del 1961 con la moglie del produttore, Silvia Pinal, nelle vesti, ancora una volta, della star di punta. 
L’opera si ispirava ad un soggetto di Bergamìn, sceneggiato con Luis Alcoriza anni prima (“I Naufraghi del Viale della Provvidenza”).
Buñuel era rimasto impressionato, sembra, da una serata passata a New York negli anni ’40 in cui aveva partecipato a un party dal quale nessuno degli invitati sembrava volersene andare.

Il film venne girato in pochi giorni a Città del Messico (originariamente Buñuel pensava a Parigi e infatti sembra di essere in una città europea), prendendo il titolo, come detto, da una pièce teatrale dello scrittore José Bergamín.
Quest’ultimo, quando Buñuel gli chiese il permesso di usare quel titolo gli rispose prendendolo in giro, e sostenendo di non essere certo lui l’autore di quel nome, visto che quell’espressione così spaventosa compariva in più di una sezione della Bibbia. 

Le tematiche sociali furono espresse da Buñuel nel suo stile onirico e surreale, a indicare le assurdità della parte della classe borghese più reazionaria, aristocratica e clericale. Segnando a dito quella classe voleva indicare la perdizione di tutto il genere umano, bloccato e paralizzato nell’anima, prigioniero soprattutto delle sue stesse istituzioni.

Esisteva un mondo fuori dalla casa?
Sì, ma non cercava minimamente di penetrare e violare l’interno del racconto: aspettava fuori, tra sorrisi, signore ilari che scendono dalle macchine, bimbi con palloncini perché la vita deve comunque andare avanti. Dei poliziotti si dispiegavano davanti all’inspiegabile, perché sapevano che i ricchi erano dentro; i preti, incuriositisi, stavano con la faccia appiccicata al cancello della villa, posizionata al 1109 di Via della Provvidenza.

I servitori avevano abbandonato la residenza pochi minuti prima che cominciasse l’assurda vicenda come avessero fiutato qualcosa di oscuro giusto in tempo per evitarlo, mentre gli animali continuavano a scorrazzare per la casa. un gregge di pecore e un orso piuttosto nervoso, anch’essi al centro di repressioni e scontri di piazza che non potevano riguardarli.

Il produttore Alatriste non appena vide il film, andò da Buñuel e gli disse: “Non ho capito niente ma è eccezionale!”.
Non saremo mai troppo riconoscenti nei confronti degli eroici finanziatori che hanno permesso ai surrealisti di fare i surrealisti, producendo le loro opere, spesso politicamente pericolosissime ed economicamente quasi sempre fallimentari. 

Tante furono le domande che vennero poste a Bunuel negli anni a venire. Luinel film riuscì a tenere alta la tensione, come pure il senso di mistero fino alla fine, chiudendo l’opera su un’altra possibile reclusione forzata in una Chiesa.
Solo gli animali, ancora loro, erano liberi di scorrazzare, di entrare ed uscire.
L’enigma più buffo riguardava il significato dell’orso. 
Per alcuni critici dell’epoca l’animale rappresentava l’Unione Sovietica, pronta a divorare la borghesia occidentale.
Buñuel si rifiutò di fornire ogni spiegazione fino al giorno della sua morte.  

Può sembrare una cosa paradossale visto che stiamo parlando di quel Buñuel, di cui una delle frasi più celebri è “Ringrazio Dio di essere ateo!”, ma “L’angelo sterminatore” può essere considerato in un certo senso una parabola biblica, ribaltata nella rappresentazione più immediata ma non più di tanto nel senso finale.
Del resto, che il regista spagnolo sia stato in qualche modo affascinato dal senso del sacro, per quanto accompagnato dalle sue forme tipiche dell’irriverenza sarcastica e surreale, lo si capì ancora meglio qualche anno dopo quando uscì un altro dei suoi capolavori: “La via Lattea”. 

Volendo semplificareogni valutazione con uno pensiero diffuso, un po’ semplificatore ma efficace, si potrebbe dire che Buñuel era un feroce “anticlericale ma non un antireligioso”, e che suo obiettivo era semmai la religione vissuta da molti come consuetudine sociale e di classe, status symbol ipocrita dell’alta borghesia, rimanendo invece in qualche modo affascinato dall’essenza più mistica dell’esperienza religiosa. 

“L’angelo sterminatore” non solo è aperto e chiuso da citazioni tratte dalla Bibbia e dal libro dell’Apocalisse, ma è continuamente attraversato da riferimenti biblici, dei quali i più evidenti sono gli agnelli sacrificali, molto ricorrenti nell’Antico Testamento. A rimandare a testi sacri contribuisce molto anche la scenografia, con le immagini di Santi e Madonne dipinte sui muri che circondano la stanza in cui il gruppo dei protagonisti rimane imprigionato, e che sembrano continuamente osservarli dall’alto.
Va rammentato poi che l’orso nella simbologia biblica e religiosa medievale era simbolo della Chiesa intesa come “Madre”, guida della comunità cristiana. 

Quindi, il fatto che i protagonisti possano liberarsi solo nel momento in cui anche l’orso abbandona la casa, può far leggere la vicenda raccontata come una sorta di prova alla quale i protagonisti vengono obbligati per farli venir meno alle loro forzate imposizioni sociali, dando libero sfogo alle loro vere pulsioni e alla loro vera natura, distruggendo le impalcature delle norme e dell’etichetta di classe.
Lezione non imparata, come sembra suggerire il celebre finale in chiesa.

La pellicola fece arrabbiare il dittatore Franco al punto da proibirne la sua diffusione in Spagna e da cacciare l’allora responsabile del settore cinema del suo governo.

Il dittatore spagnolo Francisco Franco

Claustrofobico e spietato, sottile ed essenziale come un quadro di Picasso, “L’angelo sterminatore” si scaglia con veemenza contro le classi sociali dominanti allora, quasi preannunciandone un possibile canto funebre. 

A proposito del film disse Buñuel: “Se il film che state per vedere vi sembra enigmatico, o incongruo, anche la vita lo è. È ripetitivo come la vita, e, come essa, soggetto a molte interpretazioni. L’autore dichiara che non ha voluto giocare su dei simboli, almeno coscientemente, Forse la migliore spiegazione per L’angelo sterminatore è che, ragionevolmente, non ne ha alcuna”.

L’Angelo Sterminatore dunque è per sempre tra noi.
Pronto a ucciderci con l’arma più penetrante e affilata: l’inspiegabile.

Lino Predel non è un latinense, è piuttosto un prodotto di importazione essendo nato ad Arcetri in Toscana il 30 febbraio 1960 da genitori parte toscani e parte nopei.
Fin da giovane ha dimostrato un estremo interesse per la storia, spinto al punto di laurearsi in scienze matematiche.
E’ felicemente sposato anche se la di lui consorte non è a conoscenza del fatto e rimane ferma nella sua convinzione che lui sia l’addetto alle riparazioni condominiali.
Fisicamente è il tipico italiano: basso e tarchiatello, ma biondo di capelli con occhi cerulei, ereditati da suo nonno che lavorava alla Cirio come schiaffeggiatore di pomodori ancora verdi.
Ama gli sport che necessitano di una forte tempra atletica come il rugby, l’hockey, il biliardo a 3 palle e gli scacchi.
Odia collezionare qualsiasi cosa, anche se da piccolo in verità accumulava mollette da stenditura. Quella collezione, però, si arenò per via delle rimostranze materne.
Ha avuto in cura vari psicologi che per anni hanno tentato inutilmente di raccapezzarsi su di lui.
Ama i ciccioli, il salame felino e l’orata solo se è certo che sia figlia unica.
Lo scrittore preferito è Sveva Modignani e il regista/attore di cui non perderebbe mai un film è Vincenzo Salemme.
Forsennato bevitore di caffè e fumatore pentito, ha pochissimi amici cui concede di sopportarlo. Conosce Lallo da un po’ di tempo al punto di ricordargli di portare con sé sempre le mentine…
Crede nella vita dopo la morte tranne che in certi stati dell’Asia, ama gli animali, generalmente ricambiato, ha giusto qualche problemino con i rinoceronti.

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