Esiste un termine italiano, usato soprattutto in riferimento alla politica, che riassume in sé un atteggiamento molto diffuso, oggi ulteriormente amplificato dall’uso promiscuo dei social.
Il termine in questione è “benaltrismo”, letteralmente sarebbe a dire “c’è ben altro”, e indica una tattica diversiva usata per sviare il discorso in modo da cambiarne l’oggetto e focalizzare l’attenzione su qualcos’altro, che viene spacciato per più rilevante, nonostante non abbia attinenza con l’argomento che si stava trattando.
Si attua così una sorta di “oscurantismo”, che fa passare in secondo piano l’oggetto della discussione e spesso impone la negazione di qualsiasi risultato raggiunto, sminuendolo; insomma con il “benaltrismo” ci sarebbe sempre ben altro di cui occuparsi e in ragione di ciò qualsiasi ragionamento viene liquidato.
Questa tattica, usata per distrarre dal risultato ottenuto, vuole sottrarre meriti.
In fondo si tratta di una tecnica molto banale che denota assenza di argomenti, eppure l’escamotage di appigliarsi e puntare il dito su ben altri problemi, funziona bene.
Il “Benaltrismo” oramai è in uso ovunque, se ne fa continuamente ricorso nelle chiacchiere da bar sino alle dichiarazioni dei politici, sulle pagine dei giornali sino alle piazze virtuali dei social.
Ma è proprio con l’avvento dei social che la tifoseria, dedita alla strenua difesa della propria parte, ha adottato questo mezzo denigratorio/accusatorio, tentando ogni volta di depistare da tutti quei fatti che segnerebbero punti di merito al proprio “avversario”.
Insomma è come barare cercando di cambiare le carte in tavola.
Ricordo che pure la professoressa a scuola bollava come fuori tema il compito che non centrava l’argomento e che per questa ragione lo annullava; oggi siamo gente senza scuola e senza cultura, con la pretesa che nasciamo già imparati, come diceva qualcuno, e ci vuole ben altro che un fuori tema per scoraggiarci dalla pratica suddetta.
“Perché si sente continuamente parlare male del prossimo? Tutti credono di rimetterci qualcosa di proprio se riconoscono negli altri il minimo merito”.
scrive Johann Wolfgang Goethe, e i tempi non sono cambiati, oggi l’imperativo è: screditare a ogni costo.
Altra conseguenza del “benaltrismo” consiste proprio nell’ omologazione al ribasso con equiparazione di fatti completamente diversi, passando per giudizi sommari che vogliono proprio confondere e fare dimenticare quel minimo di raziocinante logica di cui dovremmo essere dotati, per puntare sul capovolgimento di valori, con il conseguente annullamento degli stessi.
Tutto è uguale a tutto, e se pure qualcosa è migliore, buona e giusta, improvvisamente ne spunta un’altra più importante, così ciò che dovrebbe essere ben fatto e che, con un po’ di obiettività, ci sarebbe pure piaciuto, viene a essere derubricato a perdita di tempo, nel migliore dei casi, mentre nei peggiori squalificato a una mediocre vanteria che serve a nascondere “ben altre” incapacità e gravi mancanze, rispetto a tutto il “ben altro” che ci sarebbe da fare.
Credo che il nostro Paese stia proprio morendo di “benaltrismo”, invaso da un esercito di commentatori senza scrupoli, seminatori di confusione e “sentenziatori” di mediocrità.
Che si stia producendo una mutazione nel dna dei cittadini?
Trascinati da una sorta di incapacità di rimanere nel merito di una questione e di formarsi una opinione con obiettività, i cittadini si sono trasformati in un’orda berciante e scrivente “benaltrismi”, nella Babele di una infinità di idiomi e luoghi comuni, attraversati in lungo e in largo da una scia d’odio e di veleni.
Ma allora a chi fa male questo “benaltrismo”?
Fa male a noi, solo a noi;
siamo un branco di belve inferocite che desiderano il fallimento altrui, anche se poi questo fallimento sarà anche il nostro di cittadini, di intere città e regioni, di tutto uno Stato.
Ma siamo obnubilati, questo atteggiamento ci sta autodistruggendo, ci ha resi facile preda di chi lo strumentalizza e ci fa perdere il contatto con la realtà.
Il primo a esprimere la definizione di “benaltrismo” fu il giornalista e scrittore Gianni Mura, il quale la usò in ambito calcistico, forse riguardo a una disputa per un rigore da annullare, o forse no, o per un fallo da fischiare o meno, comunque sia ogni tifoseria stava a difendere la squadra sua, a suon di numeri e statistiche sui rigori annullati, rivendicando ben altri falli subiti, che avrebbero giustificato l’ennesimo episodio, se pure ingiusto, con il classico: “E allora gli altri? E allora l’altra partita? E allora l’universo mondo?”
Ma presto il termine “benaltrismo” si estese a molti altri campi, non solo a quelli di calcio. Interi campi seminati di “benaltrismi” pronti a portare il loro raccolto.
Oggi con il termine viene indicato un comportamento fin troppo diffuso, contagioso e pericoloso, che in alcuni casi è rivolto all’autoassoluzione, non soltanto per un fallo di gioco o un calcio di rigore, ma una deresponsabilizzazione di un genere socio culturale, che si potrebbe riassumere con il seguente schema mentale, attraverso questo facile esempio di domanda e risposta:
-“Ma come? Rubi sul peso ai clienti?”
– “Eh ma allora i politici che rubano?”
e via discorrendo verso la deriva del “tutti colpevoli quindi nessun colpevole”;
e se qualcuno viene colto in fallo subito scatta il riferimento a chi ha fatto ben altro, “e allora tizio?”- “e allora Caio?”, per una sorta di clausola auto assolutoria, un lasciapassare basato sulla ricusazione delle proprie responsabilità, prontamente scaricate su quel ben altro a confronto del quale siamo tutti migliori.
E già, perché siamo pur sempre un Popolo di santi, eroi e di navigatori nel web della disinformazione, dove le guerre tra queste povere tifoserie di ogni parte stanno rovinando tutti e le bufale pascolano indisturbate, fomentano e riducono la capacità di discernimento.
Quanti poveri diavoli irosi, a tifare e a sfogarsi, davvero facile preda di “ben altri” furfanti…
e questa volta non serve fare ricorso al benaltrismo…
Forse.
Fino a poco tempo fa mi sono nascosta dietro l’eteronimo di Nota Stonata, una introversa creatura nata in una piccola isola non segnata sulle carte geografiche che per una certa parte mi somiglia.
Sin da bambina si era dedicata alla collezione di messaggi in bottiglia che rinveniva sulla spiaggia dopo le mareggiate, molti dei quali contenevano proprio lettere d’amore disperate, confessioni appassionate o evocazioni visionarie.
Oggi torno a riprendere la parte di me che mancava, non per negazione o per bisogno di celarla, un po’ era per gioco un po’ perché a volte viene più facile non essere completamente sé o scegliere di sé quella parte che si vuole, alla bisogna.
Ci sono amici che hanno compreso questa scelta, chiamandola col nome proprio, una scelta identitaria, e io in fin dei conti ho deciso: mi tengo la scomodità di me e la nota stonata che sono, comunque, non si scappa, tentando di intonarmi almeno attraverso le parole che a volte mi vengono congeniali, e altre invece stanno pure strette, si indossano a fatica.
Nasco poeta, o forse no, non l’ho mai capito davvero, proseguo inventrice di mondi, ora invento sogni, come ebbe a dire qualcuno di più grande, ma a volte dentro ci sono verità; innegabilmente potranno corrispondervi o non corrispondervi affatto, ma si scrive per scrivere… e io scrivo, bene, male…
… forse.
Francesca Suale