“Forse tremate più voi nel pronunciare contro di me questa sentenza che io nell’ascoltarla!”
Con queste parole il filosofo Giordano Bruno accolse la condanna per eresia, decisa nei suoi confronti dal Sant’Uffizio e dal Papa.
Si sente spesso dire che il fuoco della fede possiede la forza di accendere gli animi, peccato però che abbia acceso anche tanti roghi e che non riesca a far scoccare la scintilla del perdono amorevole dopo oltre 400 anni!
Il 18 febbraio 2000 il Papa di allora, Giovanni Paolo II, tramite una lettera così si espresse:
“Anche se la morte di Giordano Bruno costituisce oggi per la Chiesa un motivo di profondo rammarico, tuttavia questo triste episodio della storia cristiana non consente la riabilitazione dell’opera del filosofo”.
A Giordano Bruno fu possibile erigere, e anche a a fatica, un’innocua statua a Campo de fiori, e solo perché nel XIX secolo, un comitato internazionale nel quale figuravano personaggi autorevoli come Victor Hugo, Henrik Ibsen e Walt Whitman, promosse l’iniziativa di erigere un monumento al filosofo nel luogo della sua morte.
Naturalmente, il potere ecclesiastico si oppose e nel 1888 una manifestazione di studenti in favore del monumento venne repressa duramente dalla polizia.
Nonostante tutto molti volevano la statua di Giordano Bruno, e fu allora che Crispi, primo ministro, approvò il monumento, opera di Ettore Ferrari.
Leone XIII, dapprima minacciò di lasciare Roma, poi ci ripensò.
il Papa quindi non abbandonò mai il Vaticano e si rassegnò all’esistenza di quel monito in Campo dei Fiori, segno tangibile di come la religione cattolica abbia arso sul rogo o ridotto al silenzio più di un libero pensatore.
Nel ventennio fascista alcuni cattolici ultraconservatori chiesero a Mussolini la rimozione della statua per fare una “cappella espiatoria“, ma il duce, spinto da Gentile, grande ammiratore di Bruno, rifiutò la richiesta.
Tuttavia vietò ogni raduno commemorativo sotto la statua il 17 di febbraio.
Il filosofo Filippo Bruno nacque nel 1548 a Nola, prese i voti e, diciassettenne, vestì l’abito domenicano a Napoli, prendendo il nome di Giordano.
Sacerdote nel 1572, dottore in teologia tre anni dopo, animato da una illimitata passione per lo studio, Giordano Bruno divenne in breve tempo uno dei più brillanti intellettuali d’Europa.
Ma la passione per la verità lo pose inevitabilmente in contrasto con l’inflessibile dogmatismo del tempo.
Iniziò a peregrinare per l’Europa: da Napoli, dove si era aperto un processo a suo carico per eresia, si spostò a Roma.
Nel 1576 abbandonò l’abito domenicano e fuggì nel Nord, spostandosi da una città all’altra.
Bruno era in realtà indifferente a tutte le confessioni religiose, per lui andava bene rapportarsi con ognuna di esse nella misura in cui non pregiudicassero le sue convinzioni filosofiche e la sua libertà di pensare.
Le rispettava tutte insomma ma non voleva essere condizionato da nessuna.
Nel suo peregrinare giunse anche a Ginevra, dove in un primo tempo simpatizzò coi calvinisti per poi scontrarsi con la loro intolleranza verso il libero pensiero.
Si spostò poi a Tolosa, dove ottenne la cattedra di filosofia, ma nel 1581, a causa della guerra di religione fra cattolici e ugonotti, Bruno lasciò la città per Parigi, dove tenne un corso di lezioni sugli attributi di Dio secondo San Tommaso d’Aquino.
E in seguito al successo di queste lezioni: “acquistai nome tale che il re Enrico terzo mi fece chiamare un giorno, ricercandomi se la memoria che havevo e che professavo, era naturale o pur per arte magica; al qual diedi sodisfazione; e con quello che li dissi e feci provare a lui medesmo, conobbe che non era per arte magica ma per scienzia”.
Due anni dopo fu a Londra, dove conobbe la regina Elisabetta I, e dove compose alcune tra le sue opere più importanti, poi a Oxford, dove suscitò le ire dei teologi anglicani.
In Germania insegnò a Wittenberg, trovando puntualmente anche la forte opposizione dei protestanti, poi passò a Praga e infine a Venezia, invitato dal nobile Giovanni Mocenigo, che sperava di apprendere da lui l’arte della memoria, di cui il Bruno era considerato maestro.
Nel maggio 1592 però Mocenigo consegnò all’Inquisitore di Venezia un’accusa di eresia nei confronti di Bruno, che venne subito arrestato.
Da Roma la Curia chiese alla Serenissima la sua immediata estradizione; la repubblica veneziana cercava intanto di prender tempo svolgendo una sua inchiesta sulle accuse verso il pensatore, accuse che evidentemente non convincevano affatto il governo lagunare.
Il caso si presentava molto complesso in quanto i capi di imputazione riguardavano diversi gruppi di accuse, quelle disciplinari, come l’abbandono dell’abito religioso e le invettive contro la Chiesa e la sua gerarchia; quelle strettamente teologiche in quanto non conformi ai dogmi della Chiesa, ed infine quelle di ordine filosofico, incentrate sulla dottrina dell’universo infinito ed eterno, sul moto della terra e sull’adesione quindi al copernicanesimo.
Il processo sembrava essere giunto a un punto morto: i giudici sapevano del passato di Bruno ma non avevano elementi sufficienti per giungere a una condanna, anzi.
Il 23 giugno il nobile Andrea Morosini, storico veneziano, che frequentò il filosofo nolano, testimoniò che il Bruno mai aveva insegnato dottrine eretiche.
Giordano Bruno però aveva avuto tra i compagni di cella a Venezia, fin dal settembre 1592, il frate cappuccino Celestino da Verona.
Fra’ Celestino, già processato per eresia a Roma, aveva abiurato il 17 febbraio 1587; nuovamente incarcerato a Venezia nel settembre 1592, fu rilasciato l’anno dopo.
Era molto probabilmente uno squilibrato: confinato a San Severino Marche, nel 1599 si autodenunciò all’Inquisizione di Venezia e di Roma, per accuse ritenute talmente gravi, che su di esse fu mantenuto il segreto più assoluto e altrettanto segretamente fu pronunciata ed eseguita la sentenza di morte
Fu infatti eseguita di notte e Celestino fu così bruciato in Campo de’ Fiori il 16 settembre 1599, esattamente cinque mesi prima di Giordano Bruno.
A seguito delle pressioni papaline, Venezia dovette cedere e l’anno successivo Bruno venne estradato a Roma, dove iniziò un processo che durò sette anni.
Alla fine del 1594 gli inquisitori conclusero la raccolta delle testimonianze e passarono gli atti al collegio dei cardinali incaricati di emettere la sentenza.
Questi non riconobbero però sufficienti gli elementi raccolti, ritenendo di dover esaminare le opere pubblicate da Bruno per penetrare meglio le sue concezioni.
Relativamente pochi erano i libri del Nolano in possesso del Sant’Uffizio, al punto che il papa stesso ordinò di reperirne altri.
Fu controllata infine anche la “Cena delle Ceneri” ed in attesa che una commissione di teologi si pronunciasse sul suo contenuto, la sentenza venne rinviata sine die.
Dopo più di due anni, il 24 marzo 1597, davanti alla Congregazione dei cardinali, Giordano Bruno fu interrogato, e al termine gli furono consegnate le contestazioni scritte alle sue opinioni considerate erronee.
Gli atti del processo romano però sono andati perduti: ne resta solo un Sommario, fatto per semplificare agli inquisitori l’esame della complessa mole dei documenti.
Il 10 settembre 1599 Bruno fu interrogato dal cardinal Bellarmino e si dichiarò pronto ad abiurare, ma il 16 settembre la Congregazione lesse un suo memoriale che aveva nel frattempo inviato al papa, in cui il filosofo rimetteva in discussione molte delle proposizioni contestate ed in pratica scavalcava la corte giudicante.
Gli venne allora intimata nuovamente l’abiura da formalizzare entro quaranta giorni.
Non essendo pervenuta, il 17 novembre la Congregazione stabilì di poter concludere il processo.
In attesa della sentenza Bruno, visitato in carcere il 21 dicembre e nuovamente invitato ad abiurare, rispose di non avere nulla da abiurare.
Il decreto della Congregazione, riunita, presente il papa, il 20 gennaio 1600, riferiva dell‘estremo tentativo di ottenere la ritrattazione, tentativo operato dal generale domenicano Ippolito Maria Beccaria, al quale Bruno rispose “di non aver mai scritto o pronunciato proposizioni eretiche, ma che gli erano state malamente estratte e opposte dai ministri del Sant’Uffizio”.
Dopo l’ultimo memoriale di Bruno, indirizzato a Clemente VIII, questi stabilì che si procedesse oltre nella causa, pronunciando la sentenza e consegnando l’imputato al braccio secolare.
Al Governatore di Roma, monsignor Ferrante Taverna, fu dunque affidato il condannato a morte Giordano Bruno, perché se ne prendesse cura, evitandogli ogni “pericolo di morte o mutilazione”.
Taverna lo fece custodire nelle famigerate celle del carcere di Tor di Nona.
Quindi, dopo lunghi anni di carcere, a piedi scalzi e con la lingua stretta nella mordacchia, il filosofo venne condotto dal carcere del Sant’Uffizio a Piazza Campo de’ Fiori per essere bruciato vivo.
Era l’alba del 17 febbraio del 1600.
Il Santo tribunale dell’Inquisizione Romana, attivato personalmente dal papa, lo aveva condannato al rogo perché “eretico, impenitente, pertinace” e si prodigò perché i suoi scritti, posti all’indice dei libri proibiti, fossero dati alle fiamme.
Erano gli anni in cui la Chiesa, attraverso la sua macchina inquisitoriale, che si alimentava della delazione e del sospetto, del terrore del rogo e di torture a volte più crudeli della morte, sferrava uno dei più pesanti attacchi repressivi contro chi osasse pensare con la propria testa e rivendicasse il diritto di scegliere visioni del mondo e comportamenti di vita non consoni alle idee cattoliche.
Bruno non poteva non scontrarsi col potere dominante perché si assunse il “fastidio” di pensare.
La sua filosofia faceva paura perché era una condanna inappellabile per chi vorrebbe che l’umanità fosse un’eterna minorata, incapace di intendere e decidere, e bisognosa quindi di padri e padrini, tanto più pericolosi quanto più assoluti.
Bruno mise a nudo i meccanismi psicologici che riducevano gli uomini ad asini obbedienti che si facevano ‘’guidare– scriveva – con la lanterna della fede, cattivando (imprigionando) l’intelletto a colui che gli monta sopra et, a sua bella posta, l’addrizza e guida’’. (Cabala del Cavallo Pegaseo).
Giordano Bruno fu un intellettuale scomodo perché condannò la menzogna e l’ipocrisia, soprattutto quando vengono dal mondo della cultura, dagli stessi intellettuali, cioè, che allora spesso facevano parte proprio del clero, e che si trasformavano in servili pedanti, in un’accademia dal pensiero unico.
Giordano Bruno fu scomodo perché alle potenti famiglie del regime papalino sbatteva in faccia la responsabilità per la loro decadenza politica e morale:
“La sapienza e la giustizia iniziarono a lasciare la terra dal momento che i dotti, organizzati in consorterie, cominciarono ad usare il loro sapere a scopo di guadagno. Da questo ne derivò che… gli Stati, i regni e gli imperi sono sconvolti, rovinati, banditi assieme ai saggi… e ai popoli”.
La sua polemica contro i pedanti (chierici, teologi e lacchè del potere) fu fortissima:
“Essi sono la follia del mondo, la vanesia negazione del buon senso e della razionalità, con la loro riproposizione asinina dell’accumulo del già definito (magari eterno e rivelato), tanto funzionale al potere dominante a cui si vendono”.
Alla loro ipocrisia intellettuale e all’ignavia morale, Bruno contrapponeva il coraggio di pensare, e chiedeva il coraggio di essere coerenti con il proprio pensiero, trasformandolo in azione per liberare così gli individui dalla sottomissione mentale:
Bruno, infatti, aspirava ad un mondo di individui pensanti e liberi e fu
per questo che accolse con entusiasmo la Rivoluzione copernicana, che sviluppava e amplificava il suo straordinario universo infinito.
“È l’abuso ‘scellerato’ della fede la causa della imbecillità collettiva, della decadenza e della corruzione della società” diceva spesso.
Essa abitua alla soggezione, a credere e obbedire alle “teste unte e ‘coronate”:
“Chi son gli chiamati, chi son gli predestinati, chi son gli salvi, -scriveva Bruno nella Cabala del cavallo Pegaséo- l’asina, l’asinello, gli semplici, gli poveri d’argumento, gli pargoletti, quelli c’han discorso da fanciulli, quelli, quelli entrano nel regno dei cieli, quelli per dispreggio del mondo”.
Bruno, come mai nessuno aveva fatto prima e ben prima di Marx, svelò e denunciò il meccanismo della promessa del cielo come potente narcotico per il dominio delle coscienze e il mantenimento del potere.
Bisognava per lui allora impegnarsi a scacciare via le “ottusità della fede asinina” attraverso una radicale “renovatio”.
Solo così per lui era possibile operare il ribaltamento da asino fidente a individuo cosciente.
Ma in cosa erano così pericolose queste teorie, da far condannare al rogo sia i libri che le contenevano che il loro autore?
Per Bruno l’Universo è infinito. Se Dio è la causa dell’universo e Dio è infinito, l’universo non può che essere infinito.
Dio è il principio insito nelle cose, quindi coincide con la natura.
Tutto è animato, e quindi la sua è una concezione panteistica dell’universo.
Il Dio di Giordano Bruno è da un lato trascendente, in quanto supera ineffabilmente la natura, ma nello stesso tempo è immanente, in quanto è anima del mondo.
In questo senso, Dio e Natura sono un’unica realtà da amare, un’inscindibile unità di pensiero e materia: dall’infinità di Dio si evince l’infinità del cosmo e quindi la pluralità dei mondi.
In difesa della teoria copernicana, Bruno ridicolizzò la visione geocentrica tolemaica: la Terra e l’uomo non erano al centro dell’universo, ma neanche il Sole era al centro del mondo, in quanto ‘’innumerevoli sono li mondi’’.
Fu anche il primo che differenziò l’ambito religioso da quello scientifico.
Per Bruno la religione e lo studio della natura si collocavano in ambiti diversi ma potevano convivere: la religione aveva una utilità pratica e doveva servire a educare “i rozzi popoli”, mentre la ricerca filosofica non aveva bisogno di “fede”.
Nel pensiero di Giordano era presente anche l’esaltazione del lavoro umano, manuale e intellettuale che fosse, perchè l’ozio e la rassegnazione erano da considerare i peggiori vizi dell’uomo.
Lo studio della natura doveva essere la più alta aspirazione dell’uomo e la passione per la conoscenza e la verità erano paragonati a una passione amorosa, ad un “eroico furore”.
Queste idee fecero di Giordano Bruno un innovatore della filosofia e un precursore della modernità.
E’ a uomini come lui che Voltaire dedicò il suo celebre pensiero
“è pericoloso avere ragione in questioni su cui le autorità costituite hanno torto”.
Per Diderot, che scrisse la voce su di lui nell’Enciclopedie, fu Bruno che diede il via al pensiero moderno e che, sbarazzandosi della vecchia filosofia aristotelica, fondò unitamente a Pascal, Leibniz e Spinoza la filosofia moderna.
Spirito critico e insofferente verso qualsiasi forma di dogmatismo, Bruno consacrò la propria esistenza allo studio, alla ricerca e alla difesa della libertà di pensiero.
Anche a costo della vita!
Lino Predel non è un latinense, è piuttosto un prodotto di importazione essendo nato ad Arcetri in Toscana il 30 febbraio 1960 da genitori parte toscani e parte nopei.
Fin da giovane ha dimostrato un estremo interesse per la storia, spinto al punto di laurearsi in scienze matematiche.
E’ felicemente sposato anche se la di lui consorte non è a conoscenza del fatto e rimane ferma nella sua convinzione che lui sia l’addetto alle riparazioni condominiali.
Fisicamente è il tipico italiano: basso e tarchiatello, ma biondo di capelli con occhi cerulei, ereditati da suo nonno che lavorava alla Cirio come schiaffeggiatore di pomodori ancora verdi.
Ama gli sport che necessitano di una forte tempra atletica come il rugby, l’hockey, il biliardo a 3 palle e gli scacchi.
Odia collezionare qualsiasi cosa, anche se da piccolo in verità accumulava mollette da stenditura. Quella collezione, però, si arenò per via delle rimostranze materne.
Ha avuto in cura vari psicologi che per anni hanno tentato inutilmente di raccapezzarsi su di lui.
Ama i ciccioli, il salame felino e l’orata solo se è certo che sia figlia unica.
Lo scrittore preferito è Sveva Modignani e il regista/attore di cui non perderebbe mai un film è Vincenzo Salemme.
Forsennato bevitore di caffè e fumatore pentito, ha pochissimi amici cui concede di sopportarlo. Conosce Lallo da un po’ di tempo al punto di ricordargli di portare con sé sempre le mentine…
Crede nella vita dopo la morte tranne che in certi stati dell’Asia, ama gli animali, generalmente ricambiato, ha giusto qualche problemino con i rinoceronti.