Il fenomeno del “beghinaggio” costituisce uno degli aspetti più singolari della cultura medievale fiamminga e nord europea.
Dal 1233, anno in cui fu autorizzata dal Papa la creazione di comunità di “beghine disciplinate”, sino al XVIII secolo, in molte città del nord europeo, soprattutto in Belgio, in Olanda e in Germania, furono costruiti interi quartieri abitati da donne che, pur non essendo monache, trascorrevano volontariamente un’esistenza da benefattrici alla ricerca mistica dell’amore verso Dio.
Lo stereotipo odierno le vorrebbe bigotte, in realtà furono un movimento variegato di donne votate a Cristo, mistiche e talvolta eretiche, da alcuni definite oggi delle sessantottine ante litteram, che univano la loro devozione religiosa all’impegno per i poveri.
Per chi arriva a Bruges, la voglia di entrare nel Begijnhof, il villaggio delle beghine, che si incontra girando per la città, è una tentazione a cui è preferibile cedere la mattina, perchè non vi si incontrano turisti e si sente ancora distinto il silenzio e il fruscio del vento fra gli alberi.
Entrando nella chiesa vuota o in una delle loro case, visitabili ogni giorno si può scoprire così che nella loro esistenza la carità e l’austerità non significavano privazione.
In questi ambienti vi sono ancora intatti mobili in legno scuro, un camino con ceramiche blu, una stanza da pranzo e, oltre un piccolo chiostro, la stanza da letto.
Questo antico e pittoresco quartiere della città fu fondato da Margherita, contessa di Fiandra e principessa di Costantinopoli nel 1245.
Nel quattordicesimo e quindicesimo secolo Bruges era una metropoli del mondo economico.
La parte storica della città risale al periodo borgognone: così infatti la Chiesa di San Giacomo, il palazzo dei Duchi di Borgogna, le logge dei mercanti genovesi, fiorentini e veneziani e le ricche case signorili, tra cui quella dei Van der Bourse, luogo dove nacque la prima Borsa.
Al medesimo periodo va attribuito l’antico porto con il Dazio, e la Loggia dei Borghesi.
Secondo la versione più diffusa della loro storia, un gruppo di donne costruì il primo beghinaggio nel 1180 a Liegi, vicino alla parrocchia di San Cristobal e mutuarono il loro nome da padre Lambert Le Bègue.
Altre versioni etimologiche sostengono che “beghina” significhi semplicemente “colei che prega”, o che chiede (da beggen, in tedesco antico pregare\chiedere).
Il beghinaggio come piccola forma aggregativa sarebbe storicamente ancora più antico rispetto al borgo.
Un rispettabile compromesso del tempo voleva che per una donna,
“se non sposata, meglio beghina che suora”
Era un calcolo di natura terrena: le beghine, così, non dovevano privarsi dei propri beni, come accadeva quando abbracciavano lo stato religioso, ed inoltre era il principe stesso a garantire per quelle donne che vivevano laicamente insieme.
Il nome “beghina” come si accennava, oggi viene riferito ad una donna bigotta, ottusa dal punto di vista intellettuale e totalmente dedita a seguire le regole ed i rituali dalla religione.
Una donna, insomma, inserita in un contesto di totale accettazione dei dogmi.
Niente di più falso se pensiamo all’origine di quel nome, andando ad esaminare il momento storico in cui quel termine fece la sua comparsa!
Erano donne che si consacravano al Signore e vivevano in comunità, ma non abitavano nei conventi.
Assumevano liberamente obblighi simili a quelli degli ordini religiosi, ma che privilegiavano la loro libertà individuale rispetto all’appartenenza alla Chiesa.
Sotto questo aspetto, come avrebbero potuto non creare un certo sconcerto le ‘beghine’, quando si diffusero a macchia d’olio in un’epoca prevalentemente maschilista come il Medioevo?
Negli anni ‘70 del secolo scorso, in America ed in Europa, nacquero le comunità autogestite e i movimenti femministi fecero sentire la propria voce, parlando di libera aggregazione e di realtà basate sulla suddivisione dei proventi di un lavoro svolto in modo comunitario.
Allora, quella femminista sembrò una ideologia assolutamente rivoluzionaria, una novità che avrebbe cambiato l’assetto sociale, ma, a ben vedere, già nel XII secolo in Europa esistevano delle comuni femminili che si autogestivano…
Il movimento delle beghine fu tra i primi nella storia in cui le donne, sia pure nell’ambito di un movimento religioso, si fecero dirette e libere promotrici di pensiero e di azione.
L’Europa del XII secolo era una terra dilaniata da guerre, epidemie e carestie: la mortalità era altissima, non esisteva una medicina in grado di arginare alcuna forma di patologia, le guerre, locali o, peggio ancora, quelle nazionali, coinvolgevano le giovani forze maschili della popolazione.
Centinaia di giovani donne a quel tempo erano vedove od orfane, spesso impossibilitate a costruirsi una nuova famiglia per la loro impossibilità di presentare una dote.
La dote, che era una sorta di mezzo di compravendita autorizzata, faceva sì che la donna fosse in grado di “comprarsi” un marito od un cognome.
Nessuna donna priva di dote poteva sposarsi e tanto meno entrare in convento, luogo elettivo per le ragazze di casato facoltoso, nel quale potevano studiare ed assumere posizioni di potere.
Non da ultimo, potevano anche fare un po’ come volevano comportandosi in modo opposto ai voti presi.
Le donne povere, le vedove e tutte quelle non protette socialmente, in quel XII secolo, appunto, cominciarono a riunirsi in comunità libere.
La struttura di queste comunità era semplice e rispondeva ad un modello di vita di tipo comunitario: le appartenenti erano donne libere e non facevano nessun voto.
Non rinunciavano alla loro proprietà, che mettevano a disposizione della comunità in cui entravano, ma della quale potevano rientrare in possesso in qualsiasi momento; potevano inoltre uscire in qualsiasi momento dal movimento per sposarsi.
Non chiedevano la carità ma vivevano del lavoro comune: tutti i proventi erano divisi tra le appartenenti equamente.
Si calcola che alla fine del XII fossero decine di migliaia le beghine.
Per lo più giovani e ribelli, esse manifestarono la loro rottura coi tradizionali canoni religiosi anche nella loro scelta della lingua volgare per scrivere le loro opere, anziché la lingua ufficiale della Chiesa, il latino.
Erano figlie di un tempo, quello della cultura “cortese”, che aveva esaltato la donna portandola in una posizione di maggiore visibilità nei confronti dell’uomo.
La beghina che è stata forse la più famosa, Maria d’Oignies, diceva di ricevere direttamente dallo Spirito la comprensione di Dio, non riconoscendo la mediazione dei sacerdoti.
Esse espressero inoltre nella storia della fede una spiritualità moderna: in un periodo in cui il mondo si modernizzava e rischiava di dimenticare i meno fortunati, loro esaltavano le opere di carità sull’esempio di Gesù.
La Hadewijck incitava le sorelle a essere laboriose e generose verso i poveri ripetendo: “Dio, in questo mondo, non ha vissuto come figlio di un carpentiere”?
Alcune di loro hanno lasciato scritti di bruciante interiorità, come Mectilde di Magdeburgo che tanti studiosi hanno riconosciuto nella Matelda della Divina Commedia di Dante: sarebbe lei la misteriosa donna che circola nel Purgatorio per aiutare le anime a uscirne.
Si insediarono in tutte le grandi città francesi e tedesche, ma la persecuzione le fece tornare a raccogliersi in Belgio.
Pagarono, anche con la morte, le libertà economiche, sociali e di pensiero che avevano acquisito.
Vennero spesso trattate come le uniche donne veramente libere dell’epoca: le streghe.
“Il movimento delle beghine seduceva perché proponeva alle donne di esistere senza essere né mogli né monache, libere in tutto dalla dominazione maschile”,
spiegava Régine Pernoud nel libro “La Vergine e i santi nel Medioevo”.
Ma il movimento, così come seduceva le donne, inquietava gli uomini.
E la chiesa che posizione assunse nei confronti di queste comunità?
In un primo momento ne sottovalutò l’importanza: ci fu senza dubbio, anche se ambiguo, un certo appoggio da parte di essa, ma è anche vero che, essendo una comunità senza regole inserite in un’ottica di ortodossia, molte accuse di eresia, perseguitandole, fecero il gioco della Santa Inquisizione.
Centinaia di beghine furono bruciate sul rogo come eretiche.
Essere arse come eretiche diede paradossalmente alle beghine un riconoscimento intellettuale e politico che le streghe, le medichesse e le mammane non ebbero mai.
Controparte maschile di quelle comunità furono i “begardi”, che da subito manifestarono aperta dissidenza con la politica del papato: predicavano la povertà assoluta e la condivisione delle proprietà, che, con un’ idea anticipatoria rispetto all’anarchismo comunista, era considerata “un furto ai deboli”.
Immaginiamoci la reazione dell’Inquisizione: fu una strage.
La repressione fu spietata e totale: in pratica i begardi venero tutti bruciati sul rogo, a dimostrazione del fatto che ad un potere puoi tentare di portare via tutto, ma non il potere stesso e la sua fame di possesso.
Eppure la decisione di tante ragazze di seguire quel particolare stile di vita suscitò fin dall’inizio un entusiasmo contagioso.
Il movimento ebbe la sua massima fioritura nel XIII secolo e nei primi anni del XIV, soprattutto nelle regioni del nord Europa.
Pare che allora soltanto in Germania ci fossero non meno di 200 mila beghine e 50 beghinaggi solo in Belgio.
Non c’è traccia di alcun fondatore ufficiale, ma già negli archivi del 1200 si parla di mulieres religiosæ che avevano come unica fonte di ispirazione le Scritture: non seguivano nessuna regola monastica allora in vigore né alcun santo.
La più antica indicazione di un raggruppamento di tali donne risale al 1232 a Lovanio in Belgio.
Abitavano in dimore particolari, come è possibile vedere ancora nei territori fiamminghi.
I beghinaggi erano fatti di piccole costruzioni a un piano, quasi sempre bianche, raccolte attorno a un cortile chiuso nel quale spesso era posta al centro la chiesa.
Le beghine ebbero seguito proprio al tempo in cui si costituivano i grandi ordini religiosi: i francescani, i domenicani, i cistercensi, ma mostrando sostanziali differenze: declinando i voti tradizionali, le beghine non rinunciavano ai loro beni, e si impegnavano a vivere del solo loro lavoro manuale.
Dobbiamo a loro i celebri merletti di Bruges.
Intesero la loro missione come un’avventura interiore, una euforica cavalcata alla ricerca dell’Amato, cioè Cristo; diceva una delle più note fra esse, Hadewijck di Anversa:
“Se l’Amore è tutto, se ciò che conta è soltanto amare, allora si può fare a meno del clero e dei dogmi e dei rituali della religione”.
Di loro sappiamo che si muovevano in gruppi, abitavano dentro veri e propri villaggi incuneati nel tessuto urbano, sfamavano i poveri, curavano i malati, raccoglievano gli orfani e i bambini abbandonati, assistevano i moribondi, davano sepoltura ai condannati a morte.
Guadagnavano di che vivere con il proprio lavoro e gestivano i propri soldi in autonomia, ma ne facevano un uso limitato allo stretto indispensabile.
I loro costumi erano irreprensibili, ma non erano né monache né mogli e non avevano, né volevano avere, una vera “Regola” come gli ordini monastici.
Ma perché il termine “beghina” è oggi usato ancora come sinonimo di bigotta?
La grande ricchezza spirituale scaturita dal movimento beghinale, ha nutrito i trattati teologici di nomi celebri, come Meister Eckart o Ruysbroeck, ma gli scritti delle beghine vere e proprie sono pochi, almeno quelli pervenutici.
Perché? E come mai, benché siano state di fatto le prime infermiere d’Europa, non esiste traccia di questa loro missione nei libri di storia della medicina?
Nel Medioevo il fatto che loro fossero donne che non volevano né sposarsi né chiudersi in monastero, e che vivevano libere di muoversi e pensare, intimoriva tutti, non solo chi aveva il potere.
Sono stati gli uomini di potere a rendere ridicolo il termine beghina, proprio perché nel Medioevo quelle donne non volevano rinchiudersi in un monastero, né vivere da sole, ma sceglievano di stare in piccoli gruppi, libere di muoversi e di cambiare idea, occupate nel lavoro, nella lettura e nella preghiera.
Margherita Porete fu bruciata viva nel 1310 perché le accusavano di confondere i monaci, e di irretirli quando andavano a confessarsi.
Venne quindi condannata per eresia.
Spirò tra le fiamme a Parigi, davanti a una grande folla.
C’era gente che piangeva, dicono le cronache, e Honorè de Balzac ha immaginato poi che Dante, ormai in esilio, fosse giunto fino a Parigi proprio in quel tempo, aggirandosi fra persone che parlavano ancora della morte di Margherita.
La sua unica vera colpa fu di avere scritto un libro, “Lo specchio delle anime semplici”, che venne giudicato eretico e che lei non volle mai rinnegare.
In quel libro teorizzato, dopo averle messe in pratica, le idee più avanzate di un movimento spirituale che era composto da laici, fra i quali moltissime erano donne: il Movimento del libero spirito.
Erano idee che si muovevano teologicamente sul filo del rasoio intorno al tema del panteismo e della deificatio, ossia della mutazione dell’essere umano in essere divino.
Erano temi fra i più rischiosi nel mondo spirituale perché coinvolgevano la libertà come bene assoluto e avevano conseguenze sia sulla vita pratica che su quella spirituale.
Una delle loro idee, soprattutto, era fatta per disturbare il potere clericale, e diceva che
“è da asini cercare Dio nelle chiese, nei conventi e nelle cerimonie, Dio si nasconde nel fondo del fondo di noi stessi”.
Margherita scrisse in francese, che allora era la lingua del popolo mentre gli istruiti usavano ancora il latino, e adottò un linguaggio che andava dalla più ispirata dolcezza, come il passo sull’anima serena che nuota nel mare della gioia, ad una vigorosa concretezza, come nelle invettive contro il clero che diceva asinerie teologiche e falsità, vivendo inoltre nel lusso più sfrenato.
Lo “specchio” era un libro di ricerca che ha ancora delle cose da dire, tanto che la filosofa Simone Weil lo conobbe, lo studiò, e tanto ne fu colpita.
Margherita comprese inoltre che a un certo punto si deve cessare di sforzarsi per ottenere risultati migliori, e lasciare che il meglio venga da sé.
Espose la sua scoperta nella forma di una canzone a danza per l’anima in festa che, ormai non più sottoposta alla pratica degli obblighi imposti, canta la sua libertà.
Consultati dal tribunale dell’Inquisizione, i professori della Sorbona non riconobbero la giustezza di questa idea, che ritroviamo infatti riportata nel dispositivo della condanna insieme ad altre tesi contestate.
Il processo, condotto dal grande inquisitore di Francia, si svolse comunque secondo le regole.
Ciò nonostante, Margherita non si sottomise alla procedura e rimase in silenzio, non sappiamo perché, ed in silenzio affrontò la condanna al rogo.
Se le idee di quel movimento e il pensiero di Margherita fossero stati accolti, o almeno approfonditi e assimilati, forse la Chiesa cattolica si sarebbe trovata meglio preparata e disposta ad ascoltare le critiche di un Jan Hus o di un Martin Lutero, e le esigenze di libertà avanzanti con la modernità.
Lino Predel non è un latinense, è piuttosto un prodotto di importazione essendo nato ad Arcetri in Toscana il 30 febbraio 1960 da genitori parte toscani e parte nopei.
Fin da giovane ha dimostrato un estremo interesse per la storia, spinto al punto di laurearsi in scienze matematiche.
E’ felicemente sposato anche se la di lui consorte non è a conoscenza del fatto e rimane ferma nella sua convinzione che lui sia l’addetto alle riparazioni condominiali.
Fisicamente è il tipico italiano: basso e tarchiatello, ma biondo di capelli con occhi cerulei, ereditati da suo nonno che lavorava alla Cirio come schiaffeggiatore di pomodori ancora verdi.
Ama gli sport che necessitano di una forte tempra atletica come il rugby, l’hockey, il biliardo a 3 palle e gli scacchi.
Odia collezionare qualsiasi cosa, anche se da piccolo in verità accumulava mollette da stenditura. Quella collezione, però, si arenò per via delle rimostranze materne.
Ha avuto in cura vari psicologi che per anni hanno tentato inutilmente di raccapezzarsi su di lui.
Ama i ciccioli, il salame felino e l’orata solo se è certo che sia figlia unica.
Lo scrittore preferito è Sveva Modignani e il regista/attore di cui non perderebbe mai un film è Vincenzo Salemme.
Forsennato bevitore di caffè e fumatore pentito, ha pochissimi amici cui concede di sopportarlo. Conosce Lallo da un po’ di tempo al punto di ricordargli di portare con sé sempre le mentine…
Crede nella vita dopo la morte tranne che in certi stati dell’Asia, ama gli animali, generalmente ricambiato, ha giusto qualche problemino con i rinoceronti.