Carmina Burana: La Voce dell’animo Medioevale

                           

Carmina Burana costituiscono un corpus di testi poetici dell’XII secolo, alcuni di quello successivo, che ci sono stati tramandati da un manoscritto contenuto in un codice miniato del XIII secolo, 

il Codex Latinus Monacensis 4660, o Codex Buranus.

Il cosiddetto Codex Buranus era stato ritrovato nell’Abbazia di Benediktbeuren, in latino Bura Sancti Benedicti.
La biblioteca dell’abbazia era stata smembrata a causa della secolarizzazione dell’area nel 1803, e il codice fu ritrovato allora, e venne subito trasferito alla Biblioteca Statale di Monaco di Baviera. 

Questa raccolta affascinò subito i molti studiosi che ne pubblicarono degli estratti, ma per una loro pubblicazione integrale si dovette attendere il lavoro del linguista Johann Andreas Schmeller, che ne curò la prima edizione nel 1847. 

La Ruota della Fortuna, dal Codex Buranus

La restante parte della loro storia è ancora avvolta da un mistero che affonda le proprie radici proprio nei primi decenni XIII secolo, l’epoca in cui il codex cominciò ad essere compilato.
Non se ne conosce nemmeno la destinazione, vale a dire se fosse una specie di canzoniere per trovatori o se invece fosse destinato alla biblioteca di un signore che apprezzava il linguaggio salace della satira. 

Ma, in pratica, cosa sono i Carmina Burana?

Si tratta della raccolta in cui, per opera di tre differenti amanuensi, furono sistemati 228 canti in latino e in medio alto tedesco, organizzati in tre sezioni.
I primi, i “Carmina moralia“, erano di argomento morale e satirico; i “Carmina veris et amoris” erano dedicati all’amore e alla primavera, ed infine comparivano i canti giocosi dei “Carmina lusorum et potatorum”. 

A questo nucleo originario, compilato agli inizi del 1200, si aggiunse poi un ulteriore gruppo di canti composto tra la seconda metà del XIII secolo e gli inizi del XIV.

Questa monumentale antologia raccoglieva, come si vede, un gran numero di canti di argomento vario, ma tutti potevano ricollegarsi, come filo conduttore, ai loro gli autori: i clerici vagantes, cioè i goliardi. 

Una miniatura del Codex Buranus “I giocatori”

Molti dei canti dei Carmina Burana furono scritti in “campo aperto”, ovvero con neumi e senza pentagramma, per cui se la melodia è riconducibile al canto gregoriano, si pone per essi un problema armonico e ritmico, in quanto manca qualsiasi indicazione in tal senso.
Essendo difficile una loro interpretazione certa ed oggettiva, da parte dei vari esecutori sono state tentate le più diverse soluzioni, seguendo vie più o meno fedeli agli originali e rifacendosi soprattutto alle melodie dei trovatori medievali.

I testi originali sono inframmezzati da notazioni morali e didascaliche, come si usava nel Medioevo, e la varietà degli argomenti e delle lingue adottate, rimanda alle vicende dei loro autori, quei clerici vagantes che venivano anche detti “goliardi”.
Questa denominazione gli derivava dal nome del Vescovo Golia, nome con cui veniva chiamato il celebre professore Pietro Abelardo, mentre erano definiti “vagantes” perché usavano spostarsi per motivi di studio tra le varie nascenti università europee, assimilandone lo spirito più concreto e terreno.

Pietro Abelardo ed Eloisa sorpresi da Fulberto (Jean Vignaud, 1819)

Nel 1200 i goliardi erano una categoria ben precisa: erano gli studenti e quei docenti facenti parte delle università, all’epoca de facto controllate dalle cattedrali all’ombra delle quali erano nate.
I goliardi non costituivano un movimento di forte opposizione all’ordine vigente in quanto essi stessi facevano parte dell’ordo clericalis: erano quindi uomini di chiesa ma diversi dai sacerdoti o dai monaci perché di solito ricevevano soltanto gli ordini minori. 

Il fenomeno goliardico fu interessante perché contestava l’ordine a cui appartenevano non avendo alcun intento di distruggerlo, ma rispondendo, semmai, al desiderio di riportarlo sulla corretta via evangelica.
Questo accadeva perché i clerici vagantes si mostravano disgustati dall’arricchimento della Chiesa.
Si trattava quindi di una compagine di individui colti, un gruppo di persone che andava dai più noti maestri dell’epoca fino ai semplici studenti, aderenti alla riforma ecclesiastica di Papa Gregorio VII, e, come si è detto, non si trattò di un movimento anticlericale ma di un movimento che professava intento moralizzatore. 

Il Papa Gregorio VII

Il modo con cui scelsero di dar voce alla loro protesta fu la poesia.

Va detto fin da subito che i componimenti dei goliardi ebbero un successo straordinario, di cui lo stesso Codex Buranus era testimonianza: di fatto la raccolta riportava alcuni dei carmi più noti e diffusi nel panorama europeo dell’epoca.
Molti dei motivi e delle immagini evocate dai canti racchiusi nei Carmina Burana, godettero di grande fama fino al XV secolo!

Quando, come in questo caso, viene in contatto con versi satirici dell’epoca, la nostra moderna idea di Medioevo entra in crisi e noi rimaniamo spiazzati dalla franchezza e dalla forza del linguaggio usato dagli autori, come, ad esempio, nel momento in cui esprimevano il proprio giudizio sulla Chiesa.

Succede senz’altro nel caso del Canto CB 44, eloquentemente intitolato “Initium sancti evangelii secundum marcas argenti” (Inizio del Santo Vangelo secondo i Marchi d’argento), canto in cui veniva presentato un ipotetico passo del Vangelo nel quale, utilizzando delle vere citazioni evangeliche, ma decontestualizzate, il Papa e la Curia venivano ritratti come persone avide e corrotte che guardavano solo al denaro e al lusso.

Toni altrettanto crudi si riscontravano nella seconda parte del codice, dedicata principalmente all’amore. 

In un’epoca in cui i trovatori provenzali si accostavano alla donna cantandola come un essere di straordinaria purezza, i goliardi la ritraevano come una creatura che si riconosceva completamente nella propria fisicità, corporeità che non aveva necessariamente a che vedere col matrimonio: era una fonte di piacere intenso, anche se effimero. 

Nel modello ideale di donna i goliardi scartavano tutto ciò che riguardava l’amor cortese, ma anche tutto ciò che potesse rimandare alle strutture sociali dell’epoca, da loro rifiutate: si scartava quindi la matrona e si sceglieva la giovinetta smaliziata e complice, ritratta con la stessa intensità di una Venere antica.

La donna era per loro un essere vivo, terreno e sensuale, non una nobildonna da mettere su un idealistico piedistallo.

Alla critica verso le istituzioni ecclesiastiche e al rifiuto per le rigide imposizioni sociali, i goliardi nella loro poetica aggiungevano dunque un ulteriore elemento: l’amore per il gioco e il vino, elementi che, come le donne, si potevano trovare facilmente in osteria. 

Carl Orff – Carmina Burana “In taberna quando sumus”, Conductor: Adel Shalaby
Munich String and Percussion Orchestra

La sezione che riguarda i “Carmina lusorum et potatorum” è forse la più celebre di tutta la raccolta, quella in cui i tipici tratti goliardici si fanno più marcati, quella dove i versi si fanno sempre più audaci e piccanti, pervasi da gioioso edonismo e dal desiderio di coltivare una felicità tutta terrena, da celebrarsi sotto l’egida del dio Bacco.
In questa sezione abbondano parallelismi, a tratti quasi blasfemi, tra i simboli pagani e la religione cristiana, non facendosi troppi scrupoli a paragonare il buon vino delle botti al sangue di Cristo, e questo nel 1200!

Questa potrebbe sembrare una trasgressione di poco rilievo, dato che avvenne senza mai staccarsi dal grembo del clero che la generò, ma è bene tener presente che allora, in certi interventi, non si andava tanto per il sottile.
Basti ricordare la sorte di Abelardo a causa del suo amore appassionato per Eloisa, quella, meno nota, del suo allievo Arnaldo da Brescia, che a seguito del suo arroccarsi su determinate posizioni teologiche fu presto arrestato e condannato a morte per eresia. 

La morte di Arnaldo da Brescia

I goliardi spesso furono aspramente criticati non solo per il proprio stile di vita, ma soprattutto per il loro continuo ricorso a modelli e immagini recuperati dall’antico mondo pagano e per l’atteggiamento fortemente critico verso le strutture sociali.
In una parola, furono contestati per la loro libertà di pensiero. 

Negli anni Trenta del secolo scorso, con l’aiuto di Michael Hofmann, uno studente di legge e latinista, il compositore Carl Orff scelse 24 componimenti della raccolta e li mise in musica, in quella che lui stesso ha definito una “cantata scenica”.

Carl Orff

La prima rappresentazione avvenne nel 1937 a Francoforte e il successo fu tale che Orff scrisse ai suoi editori: “Tutto ciò che ho scritto finora, e che è stato pubblicato, può essere distrutto. I miei lavori iniziano con i Carmina Burana”. 

L’opera non segue una trama precisa, ma parte della struttura della composizione si basa sul concetto dell’eterno e mutevole girare della Ruota della fortuna, intesa come sorte.
Sulla prima pagina della raccolta dei carmi era infatti rappresentata la ruota con quattro frasi posizionate intorno a quest’ultima.

Il brano “O Fortuna” apre e chiude il ciclo: è forse il brano più celebre della composizione e ci trasmette un’atmosfera potente e drammatica.

CARL ORFF Carmina Burana «O Fortuna»

L’opera richiede tre voci soliste, un soprano, un tenore e un baritono; due cori, di cui uno di voci bianche, dei mimi, ballerini ed una grande orchestra completa di due pianoforti e di tutte le percussioni possibili.

Il titolo completo è “Carmina burana: Cantiones profanae cantoribus et choris , comitantibus instrumentis atque imaginibus magicis”.

Questa composizione appartiene al trittico teatrale di Orff dei “Trionfi” che, composto in periodi diversi, comprende anche i “Catulli Carmina” e il “Trionfo di Afrodite”.

Dopo la prima rappresentazione a Francoforte nel corso della quale il lavoro di Orff ottenne un grandissimo successo, la cantata fu eseguita anche in altre città tedesche e, malgrado fosse molto ostacolata dal regime nazista per il tono pessimistico e crudo di molti canti, divenne l’opera musicale più conosciuta tra quelle composte in Germania durante il periodo nazista. 

La posizione di Orff durante il nazionalsocialismo è stata al centro di un dibattito acceso e di indagini storiche assai approfondite, delle quali si è fatto carico soprattutto l’Orff-Zentrum di Monaco di Baviera. 

Un angolo del giardino dell’Orff-Zentrum a Monaco di Baviera

Dopo esami accurati si è accertato che Orff non fu mai iscritto al partito nazista e soprattutto che non ne condivise mai l’ideologia.

La sua sopravvivenza di artista negli anni bui del Terzo Reich fu tuttavia garantita da svariati compromessi che hanno finito per dare adito a false interpretazioni storiche. 

Herbert Gerigk

Il successo riscosso dai Carmina Burana fu in realtà fortemente contrastato, soprattutto per mezzo della stroncatura che ne fece l’autorevole recensore di regime del “Völkischer Beobachter”, Herbert Gerigk, musicologo seguace delle teorie di Alfred Rosenberg. 

Gerigk parlò di “Jazzstimmung” (Linguaggio Jazz) e deplorò vivamente l’uso della lingua latina e di un “malinteso ritorno agli elementi originari del far musica”, diffidando gli altri compositori tedeschi dal seguire questo esempio che, a suo modo di vedere, non costituiva più un problema di natura estetica ma di “visione della realtà’’.
L’effetto deterrente della recensione di Gerigk fece sì che i Carmina Burana non fossero più eseguiti dal 1940 in poi in Germania. 

Orff, oltretutto, era amico di Kurt Huber, psicologo ed etnomusicologo, professore all’Università di Monaco, nonché uno dei membri fondatori del movimento di resistenza “Die Weiße Rose” (la Rosa Bianca, qui il nostro articolo)

I membri de “La Rosa Bianca”, a destra Kurt Huber

Huber fu condannato a morte dal Volksgerichtshof e decapitato a Monaco nel luglio del 1943 con i fratelli Scholl e altri seguaci. 

Con Huber, Orff si era dedicato, negli anni trenta, allo studio del folclore musicale della Baviera e del sud tedesco.

Va inoltre ricordato che Orff nel 1933, subito dopo l’ascesa al potere di Hitler, rassegnò le dimissioni dalla direzione del Münchner Bachverein, la prestigiosa associazione corale della quale era stato a capo negli anni precedenti e per la quale aveva allestito, fra l’altro, una versione scenica della “Historia der Auferstehung Jesu Christi” di Heinrich Schütz, celebre compositore seicentesco.

A rendere la posizione di Orff sospetta agli occhi dei nazionalsocialisti erano inoltre i suoi legami pregressi con Leo Kestenberg, il polarizzatore della vita musicale berlinese negli anni venti durante la repubblica weimariana.

Leo Kestenberg

Orff e Kestenberg avevano infatti progettato, agli inizi degli anni Trenta, di introdurre il metodo dello Schulwerk nell’insegnamento musicale, metodo che partiva dagli esercizi ritmici più semplici per i bambini fino a proporre ed incoraggiare il tentativo di creare composizioni più complesse man mano che saliva il grado di istruzione dello studente.
La cosa non piaceva al regime che non sapeva come usarla per manipolare i giovani tedeschi.
La creatività non è mai amica di nessuna dittatura! 

Non meno problematica appariva ai nazionalsocialisti la messa in musica da parte di Orff di testi di Brecht nei due cicli di “Chorsätze”, pezzi corali, composti poco prima della salita al potere di Hitler.

Stimoli importanti erano arrivati a Orff in seguito alla conoscenza del teatro di Bertolt Brecht, anch’egli attivo negli anni venti presso i Kammerspiele monacensi.
Dagli inizi degli anni trenta in poi Orff,oltre ai cori, mise in musica diverse liriche di Brecht, e dopo la guerra, nel 1954, Brecht si rivolgerà proprio a Orff, chiedendogli di scrivere delle musiche per “Der kaukasische Kreidekreis”. 

I “Carmina Burana” hanno patito fin dalla loro prima esecuzione della scarsa considerazione che parte della critica musicale ha sempre riservato a Carl Orff, autore che invece appare oggi come una figura tutt’altro che minore del Novecento. 

Con molta probabilità, l’ostracismo della critica del dopoguerra nei confronti del compositore bavarese venne influenzato dalla presunta condiscendenza nei confronti del regime nazista, una tesi decisamente smentita dalla prova dei fatti.

Kathleen Battle, con la sua fantastica voce, interpreta “Dulcissime”
dai Carmina Burana di Orff

Lino Predel non è un latinense, è piuttosto un prodotto di importazione essendo nato ad Arcetri in Toscana il 30 febbraio 1960 da genitori parte toscani e parte nopei.
Fin da giovane ha dimostrato un estremo interesse per la storia, spinto al punto di laurearsi in scienze matematiche.
E’ felicemente sposato anche se la di lui consorte non è a conoscenza del fatto e rimane ferma nella sua convinzione che lui sia l’addetto alle riparazioni condominiali.
Fisicamente è il tipico italiano: basso e tarchiatello, ma biondo di capelli con occhi cerulei, ereditati da suo nonno che lavorava alla Cirio come schiaffeggiatore di pomodori ancora verdi.
Ama gli sport che necessitano di una forte tempra atletica come il rugby, l’hockey, il biliardo a 3 palle e gli scacchi.
Odia collezionare qualsiasi cosa, anche se da piccolo in verità accumulava mollette da stenditura. Quella collezione, però, si arenò per via delle rimostranze materne.
Ha avuto in cura vari psicologi che per anni hanno tentato inutilmente di raccapezzarsi su di lui.
Ama i ciccioli, il salame felino e l’orata solo se è certo che sia figlia unica.
Lo scrittore preferito è Sveva Modignani e il regista/attore di cui non perderebbe mai un film è Vincenzo Salemme.
Forsennato bevitore di caffè e fumatore pentito, ha pochissimi amici cui concede di sopportarlo. Conosce Lallo da un po’ di tempo al punto di ricordargli di portare con sé sempre le mentine…
Crede nella vita dopo la morte tranne che in certi stati dell’Asia, ama gli animali, generalmente ricambiato, ha giusto qualche problemino con i rinoceronti.

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